Juncker e lo Stato dell’Unione 2015

, di Flavio Brugnoli

Juncker e lo Stato dell'Unione 2015

Quando Jean-Claude Juncker il 15 luglio 2014 si presentò davanti al Parlamento europeo, a Strasburgo, quale candidato Presidente della Commissione europea, per ricevere il voto di fiducia sul suo programma di legislatura, difficilmente avrebbe immaginato che il suo primo discorso sullo “Stato dell’Unione”, davanti a quello stesso Parlamento, a Bruxelles, il 9 settembre 2015, si sarebbe aperto con – e sarebbe stato in larga parte dedicato a – la crisi dei rifugiati in Europa. In quel programma, che prometteva “un nuovo inizio per l’Europa”, un intero capitolo invitava ad andare “verso una nuova politica della migrazione”. Ma certo non lasciava presagire che quella “emergenza” sarebbe diventata un fenomeno strutturale – carico di drammi e dolore, ma anche di opportunità a medio termine – con cui noi europei dovremo fare i conti per molti anni.

Quello che era chiaro fin da allora al (futuro) Presidente Juncker era che, in quell’aula a Strasburgo, presentava non un arido catalogo di atti in capo a una qualche “tecnocrazia” europea, ma degli “orientamenti politici”, in un nuovo rapporto fra Commissione e Parlamento europeo. Un punto che Juncker ha tenuto a sottolineare, poco più di un anno dopo, nell’aula di Bruxelles: “sono il primo presidente della Commissione la cui nomina ed elezione sono dipese direttamente dall’esito delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014”. Il messaggio viene oggi ribadito da Juncker rivendicando che quel passaggio gli consente di essere “un presidente più politico”, che la promozione dell’interesse generale dell’Unione che spetta alla Commissione è un “ruolo politico”, che lui intende “guidare una Commissione politica, anzi molto politica” (corsivo nell’originale).

Ci sono opinioni diverse sulla efficacia della “parlamentarizzazione” dell’architettura istituzionale dell’Unione, e sono utili gli stimoli a esplorare nuove vie per rafforzare il progetto d’integrazione europea – a partire dal nucleo dell’Eurozona. Rimane il fatto che uno degli attori in campo, la Commissione europea, intende giocare una partita nuova e ambiziosa, forte anche dell’enorme esperienza politica e di vita euro-comunitaria del suo Presidente. Starà al Parlamento europeo essere all’altezza di quell’ambizione, e non ripiegare (ancora una volta) su soluzioni di piccolo cabotaggio, per incapacità di proporre ai cittadini europei che rappresenta un disegno di integrazione politica il più possibile alto e condiviso tra le forze pro-europee.

Nel valutare lo “stato dell’Unione” oggi, Juncker ha indicato che questa è “l’ora dell’onestà, dell’unità e della solidarietà”. Non ha nascosto che “non c’è abbastanza Europa in questa Unione. E non c’è abbastanza Unione in questa Unione”. Ha saputo trovare parole chiare per evidenziare che “oggi la priorità assoluta è e deve essere la crisi dei rifugiati”. Ha saputo dare profondità storica alle sue esortazioni, in un continente “in cui quasi tutti sono stati, a un dato momento, profughi”. Ha inquadrato e relativizzato lo sforzo che dobbiamo compiere, rispetto a paesi meno prosperi che sopportano carichi ben maggiori. Ha fatto dell’accoglienza e del diritto fondamentale d’asilo un dovere europeo, senza ambiguità. Ha ricordato che la Commissione si è già mossa da tempo, ha annunciato il varo di un “Fondo fiduciario d’emergenza”, ha prospettato nuovi e coraggiosi passi da compiere, inclusi quelli per aprire canali regolari per la migrazione. Ha riaffermato che “non c’è posto per muri e recinzioni in uno Stato membro dell’Ue”. Spetta ora a questi Stati membri fare la loro parte, con responsabilità e solidarietà reciproche, perché ci sono valori e principi che l’Europa non può rinnegare senza rinnegare se stessa.

La crisi dei rifugiati mostra, una volta di più, quanto i confini fra “politica interna” e “politica estera” siano permeabili, quanto sia indispensabile una strategia europea coerente di fronte alle sfide e alle minacce intorno a noi. Juncker ha avuto parole coraggiose sulla crisi in Ucraina, ricordando (anzitutto a Mosca) che “la sicurezza e le frontiere degli Stati membri dell’Ue sono intoccabili”. E ha elogiato l’impegno dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, che – forte anche del successo sul nucleare iraniano – sta lavorando alla nuova strategia globale dell’Ue, che presenterà entro giugno 2016. Un impegno al quale tutti i paesi membri – attraverso le loro istituzioni e le loro forze economiche, sociali e intellettuali – sono chiamati a contribuire, con lungimiranza. In questo quadro, bene ha fatto Juncker a rivendicare anche l’impegno dell’Europa quale leader nella lotta al cambiamento climatico, con la Commissione che intende puntare a un accordo alla Conferenza di Parigi di fine anno che sia “ambizioso, solido e vincolante”.

La crisi economica e occupazionale è ancora lontana dall’essere superata in Europa, malgrado segnali incoraggianti, ed essa costituisce l’altro grande capitolo affrontato da Juncker. A partire dalle vicende recenti della Grecia, sulle quali Juncker ha rimarcato con puntiglio il ruolo misconosciuto giocato dalla Commissione, ricordando che rientra fra i suoi doveri difendere la “irrevocabilità dell’adesione all’euro”. Ma egli è consapevole che, giunti sull’orlo del baratro, occorre “un nuovo inizio per la Grecia, per la zona euro e per l’economia europea”. Ed è consapevole che (anche) in questo ambito non ci sono scelte “tecniche” ma anzitutto scelte politiche. Mentre si deve ricreare un “processo di convergenza sia tra gli Stati membri che all’interno delle società”, i due assi prospettati per il rilancio europeo sono un’adeguata capacità di investire e il completamento dell’Unione economica e monetaria. Da un lato, quindi, il Piano di investimenti per l’Europa, fino a 315 miliardi di euro in un triennio, ma anche l’impegno per l’Unione dell’energia e il completamento del mercato unico; dall’altro il Rapporto dei cinque presidenti sulla UEM. Entrambi passi nella giusta direzione, ma che certo richiederanno scelte più incisive e coraggiose.

Juncker ha dato indicazioni importanti per arrivare, in tempi brevi, a un sistema comune di garanzia dei depositi bancari, a una rappresentanza unica dell’euro sulla scena mondiale, a un “Tesoro della zona euro” costruito a partire dal Meccanismo europeo di stabilità. Ma per “passi veramente fondamentali per la zona euro” rimanda al Libro bianco che la Commissione presenterà nella primavera 2017. Intanto fa bene a sottolineare che “il Parlamento europeo è e deve rimanere il Parlamento della zona euro”, che non vi è bisogno di moltiplicare le istituzioni esistenti. Ed è significativo che subito dopo abbia affrontato la questione spinosa di un “accordo equo per il Regno Unito”, anche in vista del referendum britannico sulla permanenza nell’Ue, mettendo in chiaro che questo non potrà in alcun modo ostacolare quei paesi – anzitutto nell’Eurozona – che intendano andare avanti nel processo di integrazione politica.

Si sa che l’Europa è una costruzione complessa, con tanti attori coinvolti, a livello comunitario e nazionale. Juncker rimarca che “basta che uno di noi venga meno ai propri impegni per far vacillare tutti”. Ma invita ad andare avanti, con lo sguardo rivolto anche ai doveri verso le generazioni future. Forse il discorso sullo Stato dell’Unione in salsa europea non ha la solennità di quello sullo Stato dell’Unione (federale) americana. E certo i toni di Juncker non hanno l’enfasi oratoria di quelli di un Obama. Ma quest’uomo politico di lunghissimo corso, capace di consapevolezza storica e che non manca mai di (auto)ironia, sembra avere un’idea chiara della direzione in cui l’Europa unita deve muoversi. Ognuno è chiamato a fare la propria parte, e il timoniere della Commissione potrebbe stupirci in positivo, a dispetto di tanti suoi critici frettolosi.

Articolo pubblicato originariamente come Commento CSF

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