15 ottobre e indignados

Intervista a Franco Spoltore, Segretario generale del Movimento Federalista Europeo

, di La redazione di Eurobull

15 ottobre e indignados

D – Come valutare da un punto d vista federalista quanto è successo a Roma il 15 ottobre scorso?

R - Gli scontri e le violenze avvenuti a Roma in occasione della manifestazione degli indignati sono una ulteriore prova della debolezza della politica e della crisi dello Stato in Italia. E’ a Roma, da quanto emerge dai resoconti delle agenzie di stampa, che si è tenuta una delle più importanti – per numero di partecipanti - manifestazione di indignati globale il 15. Ma è solo a Roma che si è assistito alla più massiccia partecipazione alla manifestazione di gruppi violenti (una partecipazione che ha addirittura superato quantitativamente il numero di manifestanti pacifici - da qualche centinaio a qualche migliaio – che hanno sfilato in centinaia di altre città nel mondo, Reuters http://reut.rs/mQSBoT).

D - Il rischio che grandi manifestazioni degenerino è sempre alto….

R – Certamente, ma come ben sanno tutti coloro i quali nei sindacati, nei partiti e tra gli stessi militanti federalisti che hanno organizzato e preso parte alle grandi manifestazioni pubbliche organizzate per rivendicare la federazione europea dalla fine degli anni sessanta in poi, questo rischio può e deve sempre essere ridotto il più possibile. Il carattere pacifico ed il successo di ogni manifestazione dipende sempre in larga misura oltre che dalla chiarezza degli obiettivi da perseguire, dall’organizzazione del servizio d’ordine dei movimenti che le promuovono dalla stretta collaborazione con gli organi di polizia e con le istituzioni per isolare e prevenire le provocazioni.

D – Ma i federalisti che esperienza hanno in questo campo?

R – Molta, anche se non se ne parla molto. I federalisti di più lunga data sanno quanto ha saputo fare il MFE in termini di mobilitazione. Ma indirettamente lo sa anche chi si occupa di politica: la storia del processo di integrazione europea sarebbe una storia senza partecipazione popolare senza l’azione de federalisti, basta guardare qualsiasi mostra fotografica sul cammino percorso dall’Europa per rendersene conto. La gente che è scesa in piazza, che ha firmato appelli, che si è mossa per chiedere di fare l’Europa è stata mobilitata, e continua ad essere mobilitata, dai federalisti. Certo, fino all’inizio di questo secolo è stato più facile, perché c’è stata una maggiore possibilità di coinvolgere organizzazioni politiche e sindacali nel mobilitare l’opinione pubblica sul terreno europeo. L’ultimo quarto del secolo scorso è stato da questo punto di vista particolarmente vivace. Basta ricordare alcune grandi manifestazioni, come quella di Roma nel 1975 e Lussemburgo 1976 (manifestazioni per l’elezione diretta del Parlamento europeo), e anche quelle più ridotte di dimensioni, ma non per questo meno efficaci, come quella ancora a Roma nel 1978 (per lo SME), e poi quella che ha portato decine di pullmans di manifestanti a Strasburgo nel 1979 (davanti al primo Parlamento europeo eletto); a Milano nel 1981 (quando abbiamo organizzato noi la manifestazione per la pace); a Fontainebleu nel 1984 con poche centinaia di persone e ancora Milano nel 1985 con decine di migliaia di persone (a difesa del Trattato Spinelli); e poi a Lussemburgo 1986, a Bruxelles 1987, a Roma 1990 e a Maastricht 1991 (per la moneta); infine Torino e Firenze 1996, Nizza 2000 (campagna per la democrazia europea e per l’assemblea costituente).

D – Ma chi ha preso parte a queste manifestazioni?

R – Il MFE ha portato in piazza partiti, sindacati, organizzazioni degli agricoltori, amministratori locali, movimenti di estrema sinistra come il MLS (a Strasburgo nel luglio del 1979, davanti al Parlamento europeo, sono venuti con noi circa 200 militanti provenienti da quell’area: che tra l’altro si sono rivelati utilissimi per l’organizzazione del servizio d’ordine).

D – Dal punto di vista organizzativo che tipo di esperienza è stata?

R - In ognuna di queste occasioni le preoccupazioni principali erano sempre due: le parole d’ordine e gli slogan che dovevano far riferimento all’obiettivo specifico del momento (elezione diretta, moneta europea collegate alla federazione europea) e che dovevano riecheggiare in tutte le componenti della manifestazione; il servizio d’ordine (in alcuni casi davvero molto complesso da gestire) ed i contatti e la collaborazione con gli organi di polizia e le istituzioni (particolarmente meticolose sono state per esempio le trattative con la polizia francese nel 1979 e nel 2001; direttamente con esponenti del governo italiano in diverse occasioni e persino con quelli del governo francese: a Fontainbleu nell’84 ci fu un intervento diretto dell’allora Primo ministro Fabius per sbloccare la situazione dei permessi).

D – La situazione è cambiata oggi?

R – In generale è evidente che ogniqualvolta e laddove mancano il coordinamento e l’organizzazione, aumentano rischi di una degenerazione violenta delle manifestazioni, che si trasformano in raduni pressoché incontrollabili di una moltitudine vociante. Basta vedere quel che è successo a Roma il 15 ottobre, ma anche quello che è accaduto sempre più spesso in altre occasioni in questi ultimi anni e in altre città, non solo in Italia.

D – Perché?

R – Non abbiamo vissuto solo una fase in cui era sempre più difficile portare in piazza gente a manifestare per l’Europa. Abbiamo anche vissuto una fase in cui si è fatta strada un’idea, profondamente sbagliata, di liberismo in campo organizzativo, secondo cui non è più compito della politica occuparsi della mobilitazione dell’opinione pubblica su parole d’ordine serie e non contingenti, perché bisogna confidare in una chimerica capacità auto-regolante, spontanea delle piazze e nel potere mobilitante dei nuovi mezzi di comunicazione.

D – In effetti le manifestazioni di piazza sembrano sempre più di natura spontanea ed emotiva….

R – Certo, ma questo avviene perché la politica e lo Stato stanno perdendo terreno un po’ dappertutto (e in Italia questo sta avvenendo in modo particolarmente grave e preoccupante). Dire che oggi le mobilitazioni avvengono in un altro modo rispetto al passato è un comodo alibi per chi fa politica per non affrontare il problema delle responsabilità della stessa politica in tutto questo. Un alibi facilmente smascherabile. Come ha segnalato La Repubblica commentando gli incidenti del 15 ottobre, i gruppi dei violenti “sapevano che l’organizzazione della manifestazione non era in grado, per ragioni anche politiche (corsivo mio), di garantire un servizio d’ordine. Che avrebbero dunque affondato come nel burro, da padroni violenti e minoritari di una piazza indignata ma pacifica…. Quando il pomeriggio comincia, i ragazzi con le teste infilate nei caschi non arrivano a trecento. Tre ore dopo, superano i mille” (La Repubblica 16 Ottobre 2011). E’ però un grave errore accettare l’evidente incapacità e inadeguatezza dei movimenti politici (tradizionali e non) di gestire questi eventi come un dato di fatto immutabile, peggio ancora come un nuovo aspetto della vita sociale e come una prova positiva della crescente emancipazione degli individui dalla politica e della loro possibilità di aggregarsi e di manifestare al di fuori della politica. Esiste infatti uno stretto legame tra la crisi della politica, le sempre più frequenti degenerazioni delle manifestazioni di piazza e il fatto che il mondo in generale e l’Europa in particolare non riescano ad offrire soluzioni alle sfide poste dalle varie crisi che ormai si intrecciano fra loro su scala globale e continentale.

D – In che senso?

R - Un indizio di questo legame la troviamo, tra altre testimonianze, nell’ultimo libro di Tony Judt “Guasto è il mondo”, che costituisce un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della deriva culturale, politica ed organizzativa in particolare del movimento socialista e socialdemocratico in Europa e nel mondo. Il problema che dobbiamo affrontare, ammonisce Judt, sta nel fatto che non abbiamo più movimenti politici capaci di mobilitare l’opinione pubblica su obiettivi chiari e lungimiranti. Dopo il crollo delle grandi ideologie, l’ubriacatura neo-liberista e grazie alle nuove tecnologie, “abbiamo ormai”, scrive Judt, “soprattutto raduni ed organizzazioni di eventi su specifici interessi ed esperienze di emozioni. Ma non ci accorgiamo che in questo modo si finisce per consumare la politica del passato, senza preoccuparci di crearne una nuova, in quanto tutto quotidianamente si riduce alla scelta tra una gamma di obiettivi (da rivendicare o su cui manifestare) spesso in concorrenza tra loro, che rende difficile immaginare modi e ragioni per combinarli in un insieme coerente e verso una meta davvero comune” (pag. 100). Ci sarebbe un modo, spiega Judt, per cercare di far riacquistare un senso e un ruolo alla politica: battersi per reintrodurre il linguaggio dei grandi fini che l’umanità deve perseguire per promuovere l’affermazione di tutti quei valori che hanno reso possibile e rendono tuttora possibile immaginare la convivenza e il progresso tra e degli uomini, collegandolo alla riscoperta e alla rivalutazione del ruolo che lo Stato ha giocato e deve ancora giocare per renderne possibile l’affermazione e la difesa. Per contro Judt accenna solo marginalmente al problema della dimensione e della natura dello Stato in questa situazione.

D – E il MFE cosa avrebbe da dire in proposito?

R- Molto. Ormai i problemi da risolvere impongono di pensare lo Stato al di là della sua dimensione e natura attuali, in un’ottica ed una dimensione continentale, sovranazionale, federale, proprio a partire dall’Europa (e dall’emergenza creata dalla crisi economica e finanziaria nel cuore del nostro continente). In realtà, se il processo storico non avesse posto e non continuasse a tenere sul terreno questi problemi, il MFE semplicemente non avrebbe avuto ragione né di esistere, né di continuare a vivere, né di cercare di contaminare politicamente con le sue parole d’ordine e la sua azione, per sette decenni, i vari movimenti di protesta e rivendicazioni di carattere internazionale e globale che di volta in volta sono nati per poi attenuarsi e spegnersi nelle contraddizioni della politica nazionale (basti pensare alla storia dei movimenti studentesco, pacifista ed ecologista). Il fatto che questi movimenti – e gran parte dei loro leaders – siano stati inesorabilmente risucchiati nella logica della politica e della competizione nazionali o abbiano lasciato il campo, meriterebbe una riflessione a parte, perché testimonia l’enorme difficoltà di trasferire ogni volta i fermenti che si creano nella società a seguito dei grandi cambiamenti della politica internazionale e dell’evoluzione del modo di produrre sul terreno della costruzione di un ordine che ancora non c’è (da questo punto di vista Il pacifismo non basta di Lord Lothian non rappresenta solo un testo fondamentale del federalismo, ma una chiara analisi dei limiti dei movimenti di lotta internazionali). Teniamo inoltre conto che la crisi sta costringendo le forze politiche e sociali e i nuovi movimenti a considerare in una nuova ottica le potenzialità di sviluppo del processo di unificazione europea e il problema del riordino su scala globale della gestione della finanza, dell’economia, degli equilibri di potere ecc. E’ evidente per esempio che non basta più chiedere più Europa, più democrazia, più giustizia: bisogna ormai sciogliere il nodo di come ottenere queste cose sul piano politico, fiscale, economico, della legittimità democratica, della politica estera e tra quali paesi.

D – E come si ottengono queste cose?

R - Innanzitutto vale la pena ricordare a questo proposito la ben nota massima di Machiavelli su quanto sia arduo introdurre ordini nuovi nelle società. Oggi in Europa più che altrove, abbiamo la necessità storica, prima che politica, di portare tutte le tendenze, i fermenti e le insoddisfazioni prodotte dagli sconvolgimenti politici ed economici che sono avvenuti in questi ultimi vent’anni, sul terreno della realizzazione della federazione europea. Come ho già accennato, sul piano pre-politico esiste oggi una diffusa consapevolezza nell’opinione pubblica sul fatto che restare legati a politiche nazionali nel Vecchio continente è ormai sinonimo di declino, di marginalizzazione internazionale, di crisi della democrazia e delle conquiste del welfare, di assenza di un futuro di progresso per le nuove generazioni ecc.

D- Ma con quali conseguenze?

R – Ecco, tutto ciò non trova alcuno sbocco in termini di iniziativa ed azioni politiche capaci di modificare realmente le cose. Il fatto è che l’indignazione non potrà trasformarsi in una forza utile alla battaglia per cambiare il quadro di potere che soffoca la politica, la democrazia e l’economia, se non passerà dalla contestazione nei confronti dei governi, delle istituzioni, dei partiti politici alla rivendicazione di uno specifico obiettivo, dal cui conseguimento dipende la possibilità non di affermare tout court, ma di battersi per affermare un nuovo ordine politico. Questo obiettivo consiste nella realizzazione adesso e in questa parte del mondo di una federazione a partire dall’Eurogruppo nella più ampia confederazione dell’Unione. Non ci sono più altre vie d’uscita.

D- Ma è possibile una mobilitazione su questo punto?

R – Ogni epoca storica propone delle sfide. Questa è la sfida di fronte alla quale ci troviamo oggi, di fronte alla quale si trovano i federalisti europei. In ogni caso dobbiamo essere consapevoli del fatto che da un lato il MFE è ancora necessario; dall’altro lato, proprio perché il MFE non è un circolo culturale, ma è un movimento di lotta, che ha esperienze di lotta e di organizzazione, può e deve denunciare quando è necessario l’improvvisazione e l’approssimazione nel fare politica. Perché l’improvvisazione e l’approssimazione in politica, come ha recentemente ammonito anche il Presidente Napolitano ricordando alcune riflessioni di Gramsci, finiscono per favorire il dissolvimento e non l’affermazione di valori positivi nell’ordine sociale e politico.

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