La morte fisica è delimitata entro gli angusti confini dei territori di volta in volta martoriati, ma gli effetti di ogni nuova contesa si ripercuotono sul mondo intero in maniera dissimulata e non manifesta poiché la nostra è la società delle interdipendenze globali: aumento dei prezzi, innalzamento di barriere per merci e uomini, immigrazione, indebitamento, terrorismo. Se la guerra fosse nelle nostre strade, ne sentiremmo fisicamente le conseguenze. Oggi ci è permesso continuare ad affaccendarci nella nostra quotidianità, in cui la consapevolezza dei mutamenti epocali stenta a farsi avanti. Non avvertire il mutare delle nostre società non significa affatto il loro banale trascinarsi sempre uguali di cui ci illudiamo.
Comprendere il vicino Oriente e i suoi drammi richiede allora a noi del vecchio Continente uno sforzo ulteriore. Abituati da secoli alle nozioni apparentemente scontate di confine e di sovranità sul territorio, prerogative costituzionalmente fondanti i nostri Stati, non capiamo poi perché gli “stati” mediorientali non riescano ancora a mettersi d’accordo su come spartirsi le terre; come sia permesso ad un partito di nome “Hezbollah” di controllare parti del territorio di uno stato legittimo, il Libano, senza alcun provvedimento di tipo repressivo; perché non si utilizzino gli aggettivi “libanesi”, “siriani”, “iracheni” con la stesa frequenza di “sciiti”, “sunniti”, “curdi”.
Una vulgata affermatasi negli ultimi anni nell’opinione pubblica occidentale ritiene che nei paesi del Grande Medio Oriente, diciamo pure dalla Libia all’Iran, non si sia ancora sviluppato uno stato “moderno” come il nostro, fondato ad esempio sulla separazione tra diritto e religione o su una definizione di cittadinanza formale e non etnica: su questo pregiudizio collettivo costruiamo le nostre opinioni su tematiche d’attualità, tra cui in primis i rapporti con l’Islam e il mondo Orientale. Su quale principio però fondiamo la non banale assunzione per cui ogni comunità umana evolve secondo le medesime tappe ed è governata dalle medesime leggi? In concreto: è realistico o mistificante ritenere che in quegli “stati” debba esserci un corso sociale e politico come il nostro? Questo modo di pensare la cosa non ci impedisce di comprenderla nella sua natura peculiare e differente e quindi di proporre la nostra visione del mondo in modo realisticamente efficace?
La Road Map proposta dal presidente americano George Bush del Giugno 2002 si muoveva all’interno di questa impostazione prevedendo per il 2005 una pacificazione e democratizzazione dell’area. Al di là dei giudizi sui contenuti del piano Bush, per cui ritenere di “portare” la democrazia in “tre” anni ricorda soltanto evangeliche promesse, non è forse il caso di riflettere se il suo quasi totale fallimento non sia da imputare ad un preconcetto di tal sorta?
Il nostro “filtro” evoluzionista ci impedisce di riconoscere l’esistenza di una realtà concreta e quindi paralizza ogni sensato tentativo di azione efficace. La Road Map, incubatrice del germe democratico, riteneva di accelerare artificialmente il lungo cammino verso la modernità, reputando falsamente il percorso storico come un qualcosa di naturale e predeterminato, quasi la propensione alla libertà e alla democrazia si trovasse inscritta nei geni dell’uomo. Non ci basta qui mostrare come la falsità di un tale assunto sia stata dimostrata dalla sua contraddizione nei fatti, poiché un tal genere di prova non conduce a certezza e si contamina di parzialità: ma tale approccio è fallace poiché il principio stesso di una potenzialità democratica, da dover solamente sviluppare in ogni popolo o persona, è fallace.
Noi crediamo invece che i traguardi istituzionali, politici, sociali, morali, siano appunto tali, conquiste dello spirito umano, esiti di processi e costruzioni culturali. Non ci è possibile dilungarci ulteriormente su questo punto. Qui basti il poter mettere in dubbio la pretesa necessità delle tappe dello spirito umano e il potersi avvicinare all’idea di una pluralità di strade e di sentieri politici verso le conquiste della cultura. Solo in questo modo potremmo riconoscere noi stessi in quanto esiti di processi altrettanto storici per poi invitare gli altri a fare come noi ma a loro modo. Il grandioso motto europeo è “Uniti nella diversità” e va oggi nettamente contrapposto al moralismo americano di “Uniti perché uguali”.
1. su 6 luglio 2007 a 11:14, di Pietro In risposta a: Disordine in Medio Oriente: un pregiudizio diffuso?
Winston Churchill una volta disse che «la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato». Una frase che può essere utile per approfondire le conclusioni a cui arriva l’articolo. In pratica viene criticata la roadmap americana che puntava ad accelerare il processo democratico in medio-oriente, in quanto non può essere un’evoluzione che può essere decisa a priori, ma viceversa deve essere una conquista storico-culturale. Nell’area si sono indubbiamente imposte delle forme di governo non democratiche. Da una parte Hezbollah controlla, senza essere ostacolato, parte del Libano, mentre in Palestina si sono imposte le forse di Hamas. Bisogna anche notare che Hamas è stato eletto direttamente con elezioni democratiche e quindi sembra che sia la volontà stessa del «demos» a volere delle forze che non siano democratiche. La stessa cosa succede in Iran, dove è stato il popolo a scegliere una dirigenza profondamente conservatrice e sicuramente poco democratica. Estremizzando si può anche dire che Israele sia riuscito a risolvere i problemi con i palestinesi in maniera autoritaria ai tempi di Ariel Sharon. Quindi in sintesi in tutte le aree del medioriente c’è un substrato di istituzioni formalmente democratiche che però spingono verso soluzioni antidemocratiche, dittatoriali od oligarchiche. Questo probabilmente è dovuto a motivazioni culturali e religiose, ma a anche alle necessità di una situazione di fatto sempre in bilico verso nuovi scontri. La situazione è sempre esplosiva ed un potere forte, nelle mani di una o più persone, sembra la soluzione migliore per gestire popolazioni che per tradizione non hanno seri interessi per una piena vita democratica. Infondo non hanno avuto la rivoluzione francese o l’illuminismo, ma sono sempre vissuti in stati in cui la religione ha avuto sempre un ruolo di primo piano, una religione sicuramente autoritaria. E’ curioso quindi il fatto che la democrazia porti sempre ad una forma non-democratica: il secondo che deve decidere è sempre malato. Il tentativo americano di portare la democrazia in medioriente è sicuramente ragionevole ed apprezzabile, tentativo che probabilmente hanno cercato di realizzare con metodi sbagliati. Nell’articolo si esalta il fatto che l’Europa sappia conciliare le diversità, internamente è sicuramente una grande conquista quella di sapere fare convivere culture diverse, però ci sono valori fondamentali, derivanti dal processo di costruzione culturale europeo, che sono imprescindbili. Sicuramente la democrazia è uno di questi, in primo luogo per motivazioni storiche, poi perché è quello che può assicurare la crescita di tutti i cittadini ed infine perché è quello che può portare a danni meno gravi nel caso di decisioni errate. Pertanto io non vedo come possa essere criticato il tentativo americano di portare le democrazie in medioriente, semmai anche l’Europa dovrebbe puntare tutte le energie in questa direzione. Come dicevo prima, adesso, e chissà ancora per quanto, il sistema mediorientale tende a modalità non democratiche, che comunque bisogna rispettare nelle relazioni internazionali (infondo sono pur sempre il risultato di una volontà popolare), però lo scopo finale penso che sia sempre quello di raggiungere delle società che siano pienamente democratiche, il motto americano «uniti perché uguali» non mi pare così deprecabile. Infondo sempre Winston Churchill diceva che «la democrazia è la peggior forma di governo... escludendo tutte le altre».
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