Elezioni di Mid-Term: vittoria dei Democratici o sconfitta dei Neo Con? (II)

Intervista a Gian Giacomo Migone

, di Antonio Soggia, Michela Costa

Elezioni di Mid-Term: vittoria dei Democratici o sconfitta dei Neo Con? (II)

Le recenti elezioni di mid-term hanno marcato un’indiscutibile sconfitta per il Presidente Bush e per la sua Amministrazione repubblicana. Sono state davvero così determinanti per il risultato la guerra in Iraq e la politica estera?

Sì, direi che la guerra in Iraq e la politica estera siano state determinanti, in senso sia diretto che indiretto. In senso diretto perché la guerra in Iraq è stata chiaramente un fallimento, documentato dalla cronaca quotidiana e dall’entità delle perdite di soldati, un elemento a cui gli americani sono tradizionalmente molto sensibili. Oltretutto, è stato comprovato che tutte le ragioni offerte per giustificare la guerra erano in realtà insussistenti, se non addirittura inventate e sostenute con dei sotterfugi.

Questa è la ragione diretta; ma ne esiste anche una indiretta, ancor più importante. Questa vulnerabilità di Bush, determinata dall’andamento della guerra in Iraq, così come della “guerra al terrorismo” - terreno scelto da Bush medesimo - ha messo in discussione la credibilità complessiva del Presidente e della sua Amministrazione.

Abbiamo assistito a una sorta di referendum contro Bush, e la controprova sta nel fatto che nessun candidato repubblicano voleva che andasse a fare campagna elettorale nel suo distretto o nel suo Stato. Quella che di solito è una risorsa, un Presidente in carica, diventava un testimone scomodo nel contesto di uno scontro elettorale divenuto una sorta di sondaggio di opinione sulla Presidenza e sull’Amministrazione repubblicana.

Bush ha dichiarato di assumersi la responsabilità della batosta elettorale…e per prima cosa ha silurato il suo Segretario alla Difesa Ronald Rumsfeld. Dobbiamo interpretarlo come il segnale di una progressiva riduzione dell’influenza dei Neo Con all’interno del governo repubblicano?

Direi più sì che no. Questo siluramento ha due aspetti. Un primo aspetto è tattico: trovare un capro espiatorio è sempre una mossa difensiva, che lascia il tempo che trova ma ciò nonostante viene adoperata molto frequentemente. L’affermazione “Mi assumo io la responsabilità della sconfitta” viene così, nei fatti, smontata: se fosse vero non ci sarebbe stata ragione di liquidare Rumsfeld.

Vi è, però, un altro aspetto, quello della crisi della filosofia o della strategia politica dei Neo Conservatori: l’ipotesi unilateralista e la scelta di fondare la politica estera, se non esclusivamente, almeno prevalentemente sulla forza militare è una strategia che non ha retto la prova dei fatti. Gli Americani sono dei pragmatici, e la maggioranza dell’elettorato ha dovuto prendere atto che il piano non ha funzionato.

Una controprova consiste nel ritorno sulla scena politica di Bush padre, e soprattutto dei suoi consiglieri. Fra loro ritroviamo quel notevole personaggio che è James Baker, l’uomo che indusse Bush padre a fermare la Prima Guerra del Golfo alle soglie di Baghdad, rendendosi conto che Saddam Hussein aveva una funzione di contenimento della spinta sciita nei confronti del mondo arabo. È anche il James Baker che ha utilizzato la vittoria nella Prima guerra del Golfo per imporre – non proprio per la prima volta, alcune mosse erano già state fatte precedentemente - la volontà degli Stati Uniti nei confronti del governo di Israele, e dunque indurre e in qualche modo costringere quest’ultimo a compiere il percorso di Oslo e di Madrid. Un percorso interrotto dall’assassinio di Rabin, assassinio che ha indotto quella spirale di violenza per cui oggi, in Medio Oriente, il partito della pace è stato indebolito a vantaggio del partito della guerra.

Che cosa ci dobbiamo aspettare? Un’Amministrazione ferita, che non ha una chiara concezione di una politica alternativa che non sia la sua, ma in cui il Dipartimento di Stato avrà più peso e dove Condoleeza Rice sarà più influente di Dick Cheney (il quale non può essere licenziato perché costituzionalmente sorretto da un mandato popolare).

I democratici hanno conquistato Camera e Senato ma dovranno coabitare per due anni con una Presidenza repubblicana. In queste condizioni è possibile ipotizzare qualche cambiamento nella politica estera?

Il problema non è soltanto che i Democratici debbano coabitare con l’Amministrazione Bush. Il problema è che i Democratici, più che vincere, hanno tratto giovamento dalla sconfitta dell’avversario; un po’ come gli Stati Uniti, che non hanno vinto la Guerra Fredda ma hanno goduto dei benefici e della rendita di posizione derivante dalla disfatta della parte avversa.

Si potrebbero fare dei lunghi discorsi, ma forse è sufficiente un esempio: la stessa Hillary Clinton, una delle candidate più qualificate alla Presidenza degli Stati Uniti, ha votato i crediti di guerra per l’Iraq. Il Partito Democratico non è sfuggito ad una specie di piccolo cabotaggio, di repubblicanesimo prudente, di inviti tutto sommato molto timidi al multilateralismo in sostituzione dell’unilateralismo.

Non c’è stato finora - salvo forse nel caso di Howard Dean nella prima fase della campagna elettorale, le primarie del 2004 – un solo Democratico che abbia assunto, per usare una bella espressione americana, il “moral and political high ground”, che abbia preso cioè una posizione radicalmente alternativa e contestatrice. Questo vuole dire che c’è molto tatticismo, molta confusione nei ranghi dei democratici.

Naturalmente a questo punto ci sarà un condizionamento ed uno sforzo maggiore, da parte dell’Amministrazione Bush, di assumere atteggiamenti meno arroganti nei confronti degli Europei e di avere un occhio più prudente nella valutazione nei rapporti di forza, così come una minore tendenza a violare le regole internazionali.

Tutto ciò, tuttavia, con possibili tentativi di ritorno alla situazione precedente: se qualche evento offrisse nuovamente all’Amministrazione Bush l’occasione per una drammatizzazione di una situazione di emergenza, tale da essere percepita dall’elettorato come una minaccia alla sicurezza nazionale - non in senso astratto, ma in senso fisico e concreto - potrebbe esserci un regresso alla vecchia strategia. In questo senso, a destare le maggiori preoccupazioni è la questione iraniana.

Gian Giacomo Migone è docente di Storia dell’America del Nord presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Dal 1992 al 1994 è stato vice-Presidente della Commissione degli Affari Esteri del Senato, ed in seguito Presidente dal 1994 al 2001.

Fonte immagine: Flickr

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