Euro o non euro: è questo il problema?

, di Michele Ballerin

Euro o non euro: è questo il problema?

Minacciati dal passaggio imminente di un uragano gli abitanti di un villaggio decisero, dopo molte discussioni, di abbandonare le loro capanne di frasche e dedicare il tempo rimasto alla costruzione di un palazzo in muratura capace di proteggerli meglio. Sbaglierebbe chi pensasse che il lavoro fu breve e facile: fu lungo e difficile, per di più interrotto da continui litigi e funestato da contrattempi e incidenti di ogni genere. Perché non è facile costruire un palazzo. Tuttavia nel volgere di qualche settimana le fondamenta furono gettate e le mura erette, e a una prima occhiata si sarebbe potuto credere che il lavoro fosse finito, se non per un piccolo dettaglio: mancava ancora il tetto. La cosa era piuttosto normale e perfino logica, essendo il tetto l’ultima parte che si costruisce in un edificio dopo le fondamenta e le pareti. Ma nel frattempo l’uragano si era avvicinato, il vento aveva preso a soffiare impetuoso e la pioggia a cadere, e fu come se frustate di acqua rabbiosa si abbattessero d’improvviso sugli esausti muratori. È comprensibile che qualcuno tra loro cominciasse a innervosirsi. Le cose però degenerarono in fretta, perché qualcuno finì per perdere completamente la calma e per poco non si venne alle mani. La conseguenza fu che alcuni operai incrociarono le braccia, dichiarando che a quel punto era assurdo ostinarsi a lavorare sotto le intemperie, e conveniva piuttosto abbandonare il cantiere e andare in cerca di un rifugio da qualche altra parte – forse dimenticando che l’isola su cui si trovavano era davvero piccola, anzi piccolissima, e che tutto, intorno a loro, era oceano in tempesta.

“In qualche modo ce la caveremo”, dissero i più arrabbiati, “cercheremo riparo sotto qualche cespuglio, o proveremo a puntellare le nostre capanne. Ma che senso ha restare fra queste pareti senza tetto, che non ci riparano né dal vento né dalla pioggia? Così anzi è peggio, perché chiusi qui dentro faremo la fine del topo. Fuori invece ognuno sarà libero di salvarsi come meglio crede”. Bisogna dire che sul momento l’idea parve ragionevole a un certo numero di operai, finché uno di loro, un ometto smilzo con i capelli rossi e le lentiggini che sino a quel momento era rimasto sempre in silenzio occupato solo a portare avanti il lavoro il più in fretta possibile, non trovò il coraggio di farsi avanti e dire, col tono dimesso di chi preferirebbe tacere: “Perdonate la mia franchezza, amici, ma vedete anche voi che il palazzo è ormai finito e manca solo il tetto, e che posarlo sarà questione di poche ore: siamo tanti e il materiale non ci manca, anzi è già tutto lì ammucchiato in attesa che ce ne serviamo. Poche ore, e avremo a disposizione il migliore e il più comodo dei ripari. Non vi sembra – con rispetto parlando – che sarebbe sciocco rinunciare a un’impresa che ci ha occupati così duramente per tanti giorni, a pochi passi dal suo compimento?”. Così disse quell’ometto, il cui nome i posteri non ci hanno tramandato. E subito intorno a lui si fece un imbarazzato silenzio: tutti stavano riflettendo intensamente sulle sue parole...

...Mi rendo conto solo ora che invece di questo apologo naïf e un po’ prolisso avrei potuto servirmi di una celeberrima barzelletta: quella dei matti che per evadere dal manicomio scavalcano novantanove muri, ma prima di affrontare l’ultimo decidono di tornare sui loro passi perché sono troppo stanchi per proseguire. Apologo o barzelletta, la questione dell’euro è troppo decisiva perché non si debba essere assolutamente espliciti nell’affrontarla. La moneta europea è stata sottoposta negli ultimi mesi a una spaventosa raffica di attacchi, prima speculativi e ora ideologici, ultimo in ordine di tempo quello apparso sul blog di Beppe Grillo; ma perfino Paul Krugman, dal quale è in genere così difficile dissentire quando riflette sulla crisi economica, non ha resistito alla tentazione di scoccare la sua freccia avvelenata: qui. Forse non c’è segno più inquietante dei duri tempi in cui viviamo: più ancora della recessione, in effetti, la palese scarsità di idee valide per uscirne. Si direbbe che chi non sa più dove sbattere la testa non trovi di meglio che sbatterla contro l’euro. Questo però è un gioco pericoloso, talmente pericoloso che ogni uomo di buona volontà e di nervi saldi dovrebbe adoperarsi affinché il pubblico si formi su questo argomento un’idea esatta e politicamente matura.

Tutti gli attacchi politici a cui l’euro è stato soggetto in questi mesi colpiscono per la loro debolezza e per la superficialità del loro approccio. Mi si perdonerà la facile parafrasi, ma l’euro è una cosa troppo seria per lasciarla agli esperti, perfino quando si tratti di brillanti economisti, e il motivo è abbastanza semplice: non si tratta di un fatto puramente economico ma di un fatto storico, e come tale chiede di essere valutato facendo ricorso a un repertorio di strumenti molto più assortito di quello che è in genere a disposizione di un tecnico. C’est à dire: per formulare un giudizio sull’euro non basta redigere una lista dei suoi pro e contro economici, e chi lo fa sbaglia clamorosamente, perché isolare il fenomeno dell’euro, stenderlo sul tavolo e dissezionarlo con il bisturi dell’economista è un’operazione priva di significato. Ciò che frugando tra le sue viscere si avrà la soddisfazione di trovare sarà, tutt’al più, lo svantaggio di una moneta non svalutabile (e infatti i tifosi dell’uscita dall’euro non trovano altro): una completa ovvietà, e una magra soddisfazione per chi cerca idee di taglia rispettabile, a prova di crisi.

L’approccio giusto è un altro, ma richiede senso storico. Essere, per un caso fortuito, contemporanei dell’euro in questo specifico passaggio della storia europea non deve renderci ciechi. Il fatto “euro” non ci dice nulla se non è calato nel suo contesto, che è il processo di unificazione politica del continente, e qui diventa subito chiaro che il nocciolo della questione non è la moneta, bensì il sistema nel quale rivestirebbe la sua indubitabile funzione una volta che il processo fosse spinto fino alla sua conclusione più logica: un sistema politico ed economico integrato, dal quale siamo ancora lontani e alla cui assenza dobbiamo imputare tutti i nostri guai. L’inconveniente non è da addebitare a questa tappa del processo e al suo stupefacente prodotto, l’euro, bensì alla lentezza del suo compiersi; ed è tanto assurdo prendersela con la decisione di mantenere in comune questo spezzone di sovranità quanto è saggio esigere che il processo venga ultimato, affinché l’unione monetaria possa funzionare davvero, a beneficio di tutti.

Se ci si arma di questa prospettiva – la prospettiva storica – è facilissimo convincersi che la rinuncia all’euro non può essere la soluzione più intelligente, ora che la casa europea è quasi terminata e basta solo, con un ultimo sforzo di volontà, completare l’opera: la definitiva condivisione di una sovranità politico economica dotata di tutti i mezzi per far fronte alla tempesta della globalizzazione. La consapevolezza delle enormi possibilità di investimento a cui gli Stati Uniti d’Europa potrebbero attingere è qualcosa che comincia a farsi strada nelle menti più refrattarie: perché c’è speranza per tutti, non è vero? E quanto all’euro, una volta completato l’edifico politico chiunque vedrebbe che, al suo interno, una moneta unica avrebbe lo stesso significato e gli ovvi vantaggi che avevano la lira in Italia, la dracma in Grecia o la peseta in Spagna, e che il dollaro ha negli USA e lo yuan in Cina.

Attaccare l’euro significa quindi, lo si voglia o no, attaccare l’idea stessa dell’unità europea, ossia la politica tout court. Ma la politica non ha alternative a se stessa. E se l’ultima obiezione dell’euroscettico di turno deve consistere in un’alzata di spalle, con l’implicito invito a trascurare l’ipotesi di un’Europa politicamente integrata di cui non si vede ancora traccia (ma questo è falso), allora l’obiezione è più che trascurabile, ed è già persa nella scia che l’Europa, nel suo inesorabile farsi, da sessant’anni si lascia disinvoltamente dietro, in compagnia di tutti quei detriti ideologici che potranno forse interessare qualche storico futuro ma di cui noi, oggi, non sapremmo davvero che farcene.

L’articolo è inizialmente comparso su imille.org

Fonte immagine: Flickr

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