Federazione europea - sì, ma come?

, di Francesca Lacaita

Federazione europea - sì, ma come?

C’era una volta la “F-word”, quella parola che non si doveva dire se non si voleva spaventare l’opinione pubblica internazionale, passare per inguaribili sognatori o inguaribili dogmatici, e far deragliare il precario processo d’integrazione del continente. Ancora qualche anno fa commentatori moderati o “riformisti” ammonivano che il concetto di federazione europea aveva assunto le stesse deprecabili connotazioni utopistiche ed escatologiche che erano state una volta del socialismo. Quando alla fine del 2009, dopo un processo tortuoso ed estenuante, entrò ufficialmente in vigore il Trattato di Lisbona, il sollievo delle classi dirigenti e dei top commentators europei era palpabile, “mo’ basta”, ripetevano, “ci fermiamo qui per almeno una generazione, la gente non ne può più”. Le ultime parole famose.

Già alla vigilia del Consiglio Europeo del 28 giugno 2012 la vicepresidente della Commissione Europea Vivienne Reding aveva sollecitato gli europei a fare come gli Stati Uniti e a costruire un’Europa federale; a settembre lo stesso presidente della Commissione José Manuel Barroso, notoriamente poco incline ad audaci colpi di testa, aveva parlato della necessità di muovere verso una “federazione di stati nazione”; di recente, alla vigilia della Festa dell’Europa torna alla carica e va a dire nientepopodimeno che al “Daily Telegraph”, il bastione dell’opinione pubblica conservatrice ed euroscettica britannica che un’“unione politica intensificata” sarà “inevitabile” e diventerà “realtà fra alcuni anni”, non solo per l’Eurozona ma per tutta l’Europa a 27, dunque cari Brits, è il sottinteso, fatevene una ragione e basta menare il can per l’aia, o dentro o fuori [1]. Tuttavia non si registrano per ora reazioni degne di nota, a parte sul sito del “Telegraph”.

Tutti federalisti allora? Certamente la gravità della situazione attuale e la chiara impossibilità di gestirla nel quadro del Trattato di Lisbona impongono la necessità di nuovi strumenti di governo, e questo governo europeo deve pur avere uno straccio di legittimità democratica, se si vuole scongiurare il rigetto degli elettorati e una conseguente instabilità gravida di rischi e di incognite. Quindi la “F-word” è diventata pronunciabile in pubblico, anche se non ci si arrischia ancora a scendere nei dettagli. Proprio qui sta il punto. Colpisce, in questi annunci della federazione europea prossima ventura, la totale assenza di entusiasmo, di prospettiva, del senso di una nuova comunità che va costruita. Barroso usa l’aggettivo “inevitabile”, la tipica parola che invece di suscitare consenso, come si vorrebbe, provoca (giustamente) opposizione. In ogni caso assetti imposti dall’alto e dettati da logiche emergenziali non sono mai particolarmente apprezzati o stabili. E se provassimo invece a dare un contenuto positivo all’idea di Europa unita, non certo il libro dei sogni, ma linee guida basate su punti fondamentali, su cui è possibile da un lato convogliare il consenso di un’ampia parte dell’opinione pubblica del continente, dall’altro differenziare tale progetto da quella “politica di potenza” a cui i federalisti riuniti a Hertenstein nel 1946 dichiaravano di voler “rinunciare” in “qualsiasi forma” (Programma di Hertenstein, art. 9).

Che la federazione europea debba essere democratica può ben apparire un’ovvietà. Lo sembra meno se si considera lo svuotamento dei processi democratici e della volontà del corpo elettorale che si è manifestato generalmente dappertutto, ironicamente proprio quando la democrazia celebrava il suo trionfo finale sulle ideologie autoritarie, ma che presenta criticità evidenti soprattutto nelle periferie europee orientali e meridionali, dentro e fuori l’Eurozona. Quindi la richiesta di democrazia europea deve configurarsi come movimento di riappropriazione della sovranità popolare a livello sovrannazionale (che è illusorio pensare di riconquistare a livello nazionale). Ossia un livello di governo responsabile verso i singoli cittadini e determinato da essi, e per cui competano con pari dignità e possibilità due o più indirizzi politici diversi ovvero alternativi. L’assetto costituzionale deve essere ovviamente oggetto di discussione e deliberazione dei cittadini europei; non tocca punto a chi scrive suggerire le varie modalità di democrazia, e neppure il tipo di governo federale (se presidenziale, parlamentare o cosa), e nemmeno il ruolo che spetterebbe a una Camera degli Stati rispetto al parlamento e al governo dell’Unione, e neanche quali materie tocchino al livello federale e quali agli stati. Ma bisogna che la distinzione sia netta e precisa, quando non definitiva. In concreto: uno stato ha tutto il diritto di eleggere un governo di destra e di perseguire una politica fieramente di destra nelle materie di sua competenza pur in presenza di un governo federale di sinistra (e ovviamente viceversa!) – come del resto accade negli Stati Uniti. In ogni caso non deve più accadere che qualcuno blateri: “ce lo chiede l’Europa” per perseguire la sua propria nazionalissima agenda o per imporre politiche decise in consessi a porte chiuse. La lotta per l’Europa federale e la democrazia europea è quindi in questa prospettiva la riaffermazione dell’autodeterminazione politica contro i mille aspetti dell’attuale degrado democratico. Cosa pensano Reding e Barroso?

Un principio centrale di una federazione europea democratica è l’uguaglianza dei suoi membri. In teoria nell’Unione europea siamo tutti uguali; di fatto, specie dall’allargamento del 2004, ma forse anche da prima, dalle discussioni sull’Unione Economica e Monetaria, si venuta sempre più accettando l’idea di gerarchie, esclusioni, eccezioni che toccano anche la sfera della cittadinanza in base principalmente alla performance economica. Non che prima si performasse tutti allo stesso modo, ma anche quando alla testa della Commissione della CEE c’era un liberale di destra come Walter Hallstein l’approccio poneva più l’accento sull’integrazione comune. Altra destra, altro liberalismo, altra visione dell’Europa, vien da dire. Significativamente inoltre, per i federalisti democratici che avevano vissuto le guerre mondiali, la cessione della sovranità nazionale al livello federale rappresentava in primo luogo il modo per scongiurare il perseguimento della politica di potenza da parte degli stati più grandi o più forti; ora la cessione della sovranità nazionale nell’attuale UE è diventata principalmente roba da PIIGS.

Tale rovesciamento di prospettiva non può che condizionare tutte le politiche europee – sono tante le voci che chiedono un cambiamento di rotta rispetto all’austerità, sull’esempio degli Stati Uniti dove si è verificata una ripresa dell’economia. In realtà le politiche di austerità in Europa non sono lì per caso, ma derivano da disuguaglianze, gerarchie e rapporti di forza che si sono imposti senza tollerare dialettiche, punti di vista, soggetti diversi, oltre che da una perversa visione politica ed economica che lega cittadinanza, diritti e distribuzione di risorse al rendimento economico, e di cui auspicabilmente un giorno ci vergogneremo. Ovvero: l’austerità è la soluzione più ovvia in un continente di disuguali, e la più conveniente per i più forti. Semplicemente opporvisi rischia di essere poco incisivo, se non si accompagna alla lotta per rapporti egualitari tra i soggetti dell’Unione – che peraltro solo una compiuta federazione democratica può pienamente assicurare.

Ma non c’è solo l’integrazione “in verticale” di un Paese all’interno di una compagine europea. Esiste anche un tipo di integrazione “in orizzontale”, transnazionale, che coinvolge i vari soggetti sociali specialmente dal punto di vista della loro mobilità attraverso i confini. Il suo aspetto più “glamour” per l’opinione pubblica è forse rappresentato da programmi come l’Erasmus; meno noti sono invece i diritti legati alla cittadinanza europea introdotta dal Trattato di Maastricht, le cui premesse risalgono tuttavia ai decenni precedenti. Sono proprio questi diritti a essere negli ultimi tempi sotto l’attacco dei governi, come testimoniano le espulsioni, annunciate o effettuate, di rom e/o romeni da parte di Italia e Francia, o, nei giorni scorsi, il tentativo di Germania, Regno Unito, Olanda e Austria di porre all’ordine del giorno del prossimo Consiglio UE la questione dell’immigrazione interna con il pretesto (non motivato, secondo lo stesso Commissario europeo competente) del “turismo da welfare”.

Generalmente si tende a sottovalutare la gravità dei colpi inferti in questo modo al progetto europeo; li si rubrica tutt’al più a banali concessioni a un’opinione pubblica nazionale esasperata o ostile. Invece così si riduce l’integrazione europea alla sola dimensione “verticale”, impoverendola, immeschinendola, e soprattutto riportandola indietro a quanto si poteva concepire nel periodo tra le due guerre (se pure), con società relativamente poco permeabili che potevano provare ad aprirsi e ad integrarsi verso l’alto. Insomma, un’Europa dei governi e delle classi dirigenti, non certo dei popoli. Questi sono i termini della questione e non serve girarci attorno: o si sceglie l’“Europa delle élite”, che governeranno secondo le loro visioni e i loro interessi (e in questa prospettiva la transnazionalizzazione dei diritti e della cittadinanza non è per nulla indispensabile, al di là di quel che richiede la gestione efficiente di soggetti economici, specie se comporta antipatici inconvenienti), oppure si sceglie l’“Europa dei popoli”, rafforzando la dimensione civile e politica di una realtà che è in larga parte già presente nelle nostre società.

Un libro recente dal titolo Pioneers of European Integration ha invero per oggetto non, come ci si potrebbe attendere, i “padri fondatori” dell’Europa unita bensì la migrazione e le questioni di cittadinanza [2] . È da qui forse che passa un modo nuovo di pensare la nostra avventura europea: l’Europa sono, la fanno, anche gli studenti Erasmus, i giovani che tentano un futuro migliore fuori dal loro paese e sfidando gli ostacoli posti dai governi dei paesi ospitanti, i vecchi immigrati italiani in Germania e quelli nuovi romeni in Italia, gli operai della FIAT in Polonia che tentano di interagire con i loro colleghi in Italia o in Serbia, i bambini stranieri nelle scuole d’Europa, i rom in quanto “senza patria”, e i cosiddetti “extracomunitari” perché mettono il dito sulle contraddizioni dei nostri meccanismi “europei” di inclusione, ossia l’Europa oggi è, si fa, dovunque un’esperienza di vita al di là del proprio stato nazionale venga condizionata dalla presenza o dall’assenza di un diritto riconducibile all’integrazione europea, oppure contribuisca a creare una pratica di cittadinanza “transnazionale”. Dipende da quanto questi soggetti saranno coinvolti, non solo in prima persona, ma anche e soprattutto nel cambiamento in positivo della loro vita se la federazione auspicata anche ai vertici dell’UE rappresenterà una svolta concreta o sarà solo una versione europea del gattopardesco “cambiare perché nulla cambi”.

1. Articolo pubblicato originariamente sul blog de Linkiesta Giovine Europa Now

2. Fonte dell’immagine: Flickr

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