Guerra e Pace (I)

Quale ruolo per l’Europa?

, di Michela Costa

Guerra e Pace (I)

Le elezioni americane di mid-term hanno segnato l’inizio di una parabola discendente per l’Amministrazione Bush? Ipotizziamo per un istante che la vittoria dei Democratici al Congresso sia il preludio di un’inversione di tendenza alle prossime presidenziali. Cambiare rotta significherebbe per l’America dover ammettere che le teorie e le visioni del mondo prevalenti dall’11 settembre ad oggi siano non soltanto scarsamente condivise, ma soprattutto sbagliate.

I punti cardine della visione Neo Con, come è noto, si basano sulla teoria della guerra preventiva contro le formazioni terroristiche nemiche degli Stati Uniti e contro gli ‘Stati canaglia’ accusati di ospitarle e finanziarle. Guerra preventiva ovvero autodifesa anticipata, contraria a quanto previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, dove è chiaramente stabilito che un paese possa difendersi con la forza solo se vittima di un attacco armato (cap. VII, articolo 51). Ma è ormai chiaro che la guerra al terrorismo assomiglia un po’ alla notte in cui tutte le vacche sono nere. Così l’opinione pubblica americana è stata persuasa dell’esistenza di un nesso tra al Qaeda e Saddam Hussein, mentre i legami fra l’ex dittatore del Golfo e Bin Laden, così come i suoi presunti piani di attacco nucleare all’occidente, si rivelavano una semplice congettura sostenuta da dossier fasulli.

Ma è ormai chiaro che la guerra al terrorismo assomiglia un po’ alla notte in cui tutte le vacche sono nere

La scarsa aderenza al diritto internazionale non è un vizio esclusivamente americano, e a ben riflettere gli Stati Uniti non sono mai stati completamente isolati nelle ultime scelte di politica estera. Contingenti militari europei sono tuttora coinvolti nelle zone calde del pianeta, teatro dei più recenti conflitti internazionali: Kosovo, Afghanistan, Iraq. Da qualche tempo, si è aggiunta la missione ONU in Libano. Di fronte all’ultimo intervento delle Nazioni Unite, il popolo della pace si è diviso fra coloro che appoggiano l’invio dei Caschi Blu e chi invece insiste nel ribadire un pacifismo ‘senza se e senza ma’: rifiuto della guerra in ogni sua forma e ritiro immediato dei contingenti italiani da tutte le missioni estere, senza distinzioni di sorta. La domanda sorge spontanea: la soluzione può essere davvero tanto semplice? Vi è il sospetto che esista un criterio distinto, e più complesso, per valutare la questione dell’uso della forza nelle relazioni internazionali.

Per prima cosa, può essere utile una distinzione fra guerra legale e guerra giusta. La prima è una categoria giuridica, pressoché inoppugnabile. La seconda è una definizione morale, politica e filosofica, e dunque soggettiva e priva di soluzioni definitive. Per poter stabilire se una guerra è giusta sarebbe necessario decretare un confine fra bene e male, fra verità ed errore: un’impresa tutt’altro che priva di risvolti ideologici. Per stabilire se un conflitto è legale basta invece richiamarsi alla Carta delle Nazioni Unite, unico criterio inconfutabile. Una guerra è legale se costituisce l’ultimo, inevitabile strumento per il mantenimento della pace a livello internazionale; può essere dichiarata dal Consiglio di Sicurezza oppure costituire un ricorso all’autodifesa, ma con limiti chiarissimi previsti dal testo.

Possiamo concordare sulla scarsa democraticità e sui vari difetti delle Nazioni Unite: non è certo il migliore dei mondi possibili. Ma rappresenta l’unico embrione di democrazia internazionale attualmente presente, che forse sarebbe più astuto tutelare (nell’attesa di riformarlo) anziché distruggere per purismo ideologico. Dopotutto all’interno di uno Stato accettiamo la presenza delle forze di polizia, gestori della violenza legittima; come possiamo sperare che invece il sistema internazionale, ben più turbolento, si mantenga spontaneamente in equilibrio, pace e serenità? Il requisito della legalità dell’azione militare è per il momento il miglior criterio utilizzabile, a meno di non voler ridurre il discorso ad una sterile polarizzazione fra pacifismo ingenuo e realismo guerrafondaio.

Il tutto si chiarisce pensando a casi reali: dal punto di vista del diritto internazionale, le guerre in Kosovo, Afghanistan ed Iraq hanno violato i criteri di legalità, per quanto siano giunte delle legittimazioni a posteriori con la creazione di missioni internazionali sotto l’egida delle Nazioni Unite (UNMIK e ISAF). Un esempio di intervento in una zona di guerra promosso in modo legittimo è invece fornito dall’invio dei Caschi Blu europei in Libano; un’operazione non soltanto legale, ma anche pienamente consona allo sforzo intrapreso dalla comunità internazionale per mantenere la pace in una delle zone più esplosive del pianeta.

Ciò nonostante, una strategia di politica internazionale che si limitasse a questo genere di interventi sarebbe gravemente semplicistica. Se vogliamo concepire un ordine internazionale fondato sulla legalità, ad oggi dobbiamo immaginare un nuovo soggetto capace di confrontarsi con gli Stati Uniti in posizione di parità, e di esercitare un’influenza politica. Ipotizziamo che questo soggetto sia l’Europa. Non certo l’Europa attuale, pronta a scomporsi nelle sue componenti nazionali ad ogni avvisaglia di conflitto, ma un’Europa forte, che abbia superato le magagne del veto in politica estera e che voti a maggioranza. È plausibile un ritorno ad un mondo bipolare, anche senza resuscitare la vecchia cortina di ferro? O forse gli Stati Uniti otterrebbero semplicemente un nuovo compagno di giochi, ansioso di mettere le mani sulla sua fetta di torta? In altre parole, dobbiamo chiederci se esista una qualche specificità europea in materia di politica estera su cui basarci per affermare con certezza che si tratterà di un soggetto pacifico, stabilizzatore e democratico.

La risposta può essere reperita nella struttura stessa dell’Unione. Un organismo dotato di così tanti pesi e contrappesi, prodotto della fusione di culture politiche diversissime, basato sulla concertazione e sul voto di 25 (presto 27) paesi distinti non potrà mai divenire un super Stato guerrafondaio. Pur ammettendo che sussista un margine di rischio è evidente che, nel dotarsi del potere di influenzare il mondo, l’Europa dovrà sancirne anche i limiti e le regole.

È tempo di politica e diplomazia; il ritiro dall’Iraq non è più un problema di se, ma di quando. Vi sono diverse opzioni plausibili: uno Stato unitario forte, un federalismo blando o addirittura la secessione. Quel che è certo è che il paese, abbandonato a se stesso, scivolerà ulteriormente nel caos. Servirebbe un potere super partes che si incarichi di mettere attorno ad un tavolo di negoziato le parti combattenti di quella che è ormai una guerra civile, e che compia ogni tentativo utile per il raggiungimento di una soluzione concertata.

Il mondo ha bisogno di Europa almeno quanto l’Europa ha bisogno di recuperare la sua credibilità nel mondo

Ma l’Iraq non è che una tessera del domino. Manca una visione globale per l’intero Medio Oriente, nonostante sia ormai chiaro che il conflitto israelo-palestinese, con i suoi effetti travolgenti per il Libano e i paesi limitrofi, non potrà risolversi senza un impegno internazionale. E soprattutto senza un attore autorevole – e meno partigiano degli Stati Uniti - disposto a condurre i negoziati. L’Europa è l’unico soggetto potenzialmente in grado di intervenire: non certo l’America di George Bush, non certo la Russia, la Siria, l’Iran o la Cina. Il mondo ha bisogno di Europa almeno quanto l’Europa ha bisogno di recuperare la sua credibilità nel mondo; gli Stati del vecchio continente non possono più permettersi di giocare alle grandi potenze, avventurandosi in conflitti illegali e fallimentari, mentre la miccia mediorientale si accorcia di giorno in giorno.

Fonte immagine: Flickr

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