Della guerra di Libia si è detto di tutto. Essa non è la rivoluzione sociale e politica condotta dal popolo libico contro il dittatore, ma – in uno Stato che non ha mai conosciuto l’unità nazionale – lo scontro tra tribù e clan che quaranta anni di dittatura non hanno saputo unire. Lo Stato libico si è dissolto per dar vita a due entità politiche in stato di guerra. La rivolta è cominciata in Cirenaica sotto la spinta di gruppi da sempre ostili al dominio tripolino. Il rischio che la Libia diventi come la Somalia e l’Afghanistan, se mancasse il ruolo stabilizzatore di una potenza esterna, è reale.
L’Egitto post-Mubarak non è un’incognita politica come la Libia: esso è – e rimane – un alleato americano, che da un decennio lo rifornisce di armi e aerei da combattimento. La rivolta popolare ha ottenuto l’effetto che lasciasse la sua poltrona Mubarak, ma non ha intaccato i poteri e gli interessi delle élite socio-economiche. In una situazione gattopardesca il potere di fatto è in mano all’esercito che controlla parte dell’economia del paese. Però, a differenza della Libia, in Egitto le istituzioni sono più stabili e possiedono ancora un margine di manovra per disinnescare la bomba sociale costituita da milioni di giovani senza prospettive, a patto che dall’esterno ci sia il sostegno politico-economico per attuare tali riforme.
Quanto sta accadendo in Nord Africa e nel Vicino e Medio Oriente rappresenta il risvolto politico della crisi economica iniziata nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers. La crisi finanziaria ed economica globale ha messo in luce le debolezze dell’economia statunitense (ed europea) e ne ha incrinato il primato, accelerando la rincorsa dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). In questo quadro le priorità geo-strategiche americane hanno iniziato a cambiare rapidamente. Se gli USA si sono fatti carico per decenni dell’equilibrio e della pace mondiale (mantenendo fuori dai propri confini basi militari, flotte, e intervenendo militarmente nell’ultimo decennio in Iraq e Afghanistan, allo scopo di controllare l’area petrolifera più grande del mondo e di stabilizzarla intorno all’Arabia Saudita, unico paese al mondo che può aumentare la propria produzione petrolifera in caso di improvviso calo di produzione in altri paesi), oggi questo impegno ha un costo insopportabile per l’economia americana: il debito pubblico sta raggiungendo la soglia limite autorizzata dal Congresso di 14.600 miliardi di dollari, diventando ogni giorno che passa più insostenibile agli occhi dell’opinione pubblica.
Questa è la nuova era “post-americana” (come l’aveva definita Fareed Zakaria), l’era del declino dell’influenza americana sull’area nordafricana e mediorientale. La crisi dell’apparato strategico USA viene ammessa dallo stesso Segretario alla Difesa Gates, che il 25 febbraio scorso, davanti ai cadetti di West Point, ha dichiarato: “Qualsiasi futuro ministro della Difesa che consigliasse il Presidente di inviare ancora una grande armata di terra in Asia o nel Medio Oriente dovrebbe ‘farsi esaminare il cervello’, come il generale Mac Arthur osservò con tanta accuratezza” [1]. Tradotto: gli USA rinunciano a realizzare grandi interventi terrestri (come in Iraq e Afghanistan) e sono disposti solo ad intervenire con attacchi mirati e circoscritti fondati sulla loro superiore tecnologia militare. Quindi non possono e non vogliono mettere a rischio ulteriori uomini e risorse in nessun altro teatro bellico fuori dalle loro aree strategiche.
A trarre vantaggio da questa situazione sono la Turchia e l’Iran, dal punto di vista regionale, e la Cina, come nuovo attore, per ora non-protagonista, sulla scena mondiale.
E in questo scenario di grandi cambiamenti, come si colloca l’Europa? La sua assenza è veramente drammatica. Ma occorre fare una precisazione doverosa: quando i governi dei singoli Stati e la società civile chiamano a gran voce l’intervento dell’Europa, cosa stanno chiamando?
L’Unione europea è una sofisticata organizzazione internazionale che ha permesso la creazione di un mercato europeo con una moneta unica (per 17 paesi su 27). In tale organizzazione vi è persino un elemento di democrazia rappresentativa, il Parlamento, e di legalità sostanziale, la Corte di Giustizia. Ma manca la cosa più importante: non esiste una volontà politica europea, una politica estera europea, un esercito europeo, bensì 27 politiche nazionali prigioniere della visione nazionale. Per questo motivo l’Europa sembra chiudersi a riccio di fronte a ogni nuovo problema di grande portata: all’interno di una Europa divisa in politica estera e in cui il quadro di riferimento politico resta quello nazionale, è ovvio che ogni Stato tenda a considerare i problemi dell’immigrazione, della guerra in Libia e del salvataggio dalla crisi del debito pubblico di un altro paese, come una questione nazionale e non europea. Non esiste alcun organo in Europa che si occupi, con un potere legittimato dagli europei, di badare agli interessi di tutti nei fondamentali campi della politica estera, di sicurezza ed economica. Il Consiglio europeo è nella sua essenza un sofisticata conferenza diplomatica.
Per tale motivo l’Italia crea un allarme mediatico contro i nascenti flussi migratori clandestini dalla Tunisia e dalla Libia, accusando un’Europa (senza poteri) di mancanza di solidarietà. La Francia apre le frontiere con il contagocce dopo aver iniziato una guerra in Libia senza sapere come e quando finirla, per volere di un Sarkozy in perdita di consensi. La Germania della Merkel non interviene in un’area che non è di suo interesse, dovendo già giustificare agli elettori il sostegno finanziario ai paesi europei in difficoltà con il loro debito pubblico. Poi avanza il fronte dei partiti dichiaratamente euroscettici nei piccoli paesi che proprio dall’appartenenza all’Unione dovrebbero trarre più vantaggi: in Finlandia, Austria, Olanda, Ungheria e Romania.
Un’Europa divisa può solo essere destinata alla rovina. Per unirla è necessario che i paesi europei trovino il coraggio politico di perdere la propria sovranità nazionale per ricrearla in una dimensione europea attraverso la fondazione di uno Stato federale europeo, anche a partire da un’avanguardia di Stati che apra la strada per ridare un futuro di progresso al nostro continente.
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