Il rapporto Gallois e i limiti della politica industriale francese

, di Nelson Belloni

Il rapporto Gallois e i limiti della politica industriale francese

Il 5 novembre è stato pubblicato in Francia il rapporto stilato dal Commissario generale agli investimenti Louis Gallois, che era stato incaricato dal governo di analizzare lo stato di salute dell’industria del suo paese. Sulla base di questo rapporto, intitolato Patto per la competitività dell’industria francese, il governo ha poi adottato una serie di misure per cercare di rilanciare il settore industriale. Il rapporto è utile sia perché fornisce un’analisi completa della condizione in cui versa un paese europeo importante come la Francia, sia perché mostra i limiti delle politiche economiche e degli obiettivi di uno Stato nazionale che, in quanto tale, risponde esclusivamente al proprio elettorato.

Innanzitutto, l’eco che questo rapporto ha suscitato in Francia, e il fatto stesso che sia stato commissionato, sono un ulteriore prova del fatto che, rispetto alla logica dominante prima della crisi, il futuro dello sviluppo economico non è più pensato in termini di ampliamento del settore dei servizi, in particolare di quelli finanziari, considerati fino a poco tempo fa assolutamente prioritari, ma si cerca di perseguire un rafforzamento del settore industriale. Si torna a capire che la produzione manifatturiera comporta anche una serie di ricadute importantissime per il sistema-paese, a partire dall’accesso alle tecnologie più avanzate e sofisticate, e che (come dimostrano la Cina e la Germania) è strategico sviluppare la propensione alle esportazioni e alla creazione di alto valore aggiunto.

Il rapporto parte da un’analisi dei dati macroeconomici che fanno stimare a Gallois che la Francia si trovi in condizioni prossime ad una soglia critica, superata la quale diventerebbe reale una minaccia di destrutturazione dell’apparato industriale. La Francia è infatti passata da un rapporto tra PIL industriale e PIL globale di 18% nel 2000 a poco più del 12,5% nel 2011 e si colloca al 15° posto nell’eurozona. I paesi europei migliori, sotto questo profilo, sono la Germania (26,2%), la Svezia (21,2%) e l’Italia (18,6%). Complessivamente la Francia ha perso due milioni di posti di lavoro nel ramo industriale che nel 2000 rappresentava il 26% degli impieghi mentre oggi rappresenta il 12,6%, cioè la metà. Queste cifre mostrano che c’è, anche, un problema di mentalità che si è venuta a creare: uno dei luoghi comuni che occorre sfatare è che il lavoro nel settore industriale oggi sia meno redditizio rispetto a quello nel settore dei servizi. Il governo si trova quindi con il problema di dover cercare di incentivare il numero degli ingegneri, dei tecnici, degli operai, dei ricercatori, ecc.

La Francia è passata dall’essere un paese esportatore nel 2000, sebbene con una eccedenza lieve rispetto alle importazioni, all’essere diventata un paese importatore con un consistente deficit di 70 miliardi nella bilancia dei pagamenti. L’eurozona è il maggior mercato di sbocco per i francesi, ma, nonostante ciò, la Francia rappresenta solo il 9% (12% nel 2000) delle esportazioni interne all’eurozona mentre ad esempio la Germania rappresenta il 22% (20% 2000).

Quali sono le ragioni della perdita di quote di mercato così ampie? La Francia sembra schiacciata da un lato dal modello tedesco, il cui settore industriale è posizionato su un segmento di gamma superiore meno sensibile al fattore prezzo ed è sostenuto da una politica economica che permette un contenimento dei costi (anche per effetto dei bassi salari nei servizi, inconcepibili in Francia) che avvantaggiano ulteriormente le imprese, i cui margini di profitto superiori favoriscono la crescita degli investimenti.

Dall’altro lato, dai paesi emergenti che hanno costi unitari di produzione ancor più bassi e che al tempo stesso sono sempre più in grado di produrre beni di valore aggiunto sempre maggiore e con contenuto tecnologico sempre più elevato.

La reazione dell’industria francese rispetto a questa duplice concorrenza è stata quella di cercare di preservare la competitività dei prezzi a discapito della sua competitività globale: i margini di guadagno si sono così abbassati dal 30% al 21% nel periodo 2000-2011, mentre nello stesso periodo in Germania crescevano del 7%. Di conseguenza il tasso di autofinanziamento è crollato dall’80% al 65%, quando in Europa è vicino al 100%. Gli investimenti per aumentare la produttività e l’innovazione del processo di produzione sono calati drasticamente e le imprese francesi, fatti salvi alcuni settori di punta, hanno perso terreno rispetto alle migliori industrie europee.

Il primo settore su cui la Francia deve intervenire per invertire il trend negativo è dunque quello della ricerca, dell’innovazione e della formazione. La spesa statale francese in R&S è tra le più alte in assoluto (2,24% del PIL), ma allo stesso tempo è bassa la quota degli investimenti privati (solo l’1,4% del PIL, ossia la metà rispetto ai paesi scandinavi e alla Germania e molto inferiore in generale alla media dell’eurozona). Inoltre, mentre in Germania il 5,4% delle imprese tedesche ha beneficiato di finanziamenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo, in Francia ciò è accaduto solo per l’1,4%. delle aziende Questo significa che la spesa statale francese in R&S è poco orientata al sostegno del settore industriale, che così somma le due difficoltà, quella ad ottenere finanziamenti statali e il basso tasso di autofinanziamento.

Il rapporto prosegue con un lungo elenco di criticità del sistema francese, che include la mancanza di medie imprese (il sistema è polarizzato tra grandi gruppi a vocazione internazionale e imprese troppo piccole per riuscire a svilupparsi e ad essere competitive sul mercato internazionale); una scarsa capacità di fare rete da parte delle imprese e un cattivo funzionamento delle filiere; una scarsa solidarietà territoriale; un’eccessiva delocalizzazione che ha fortemente destrutturato ampie filiere industriali; un mercato del lavoro che necessita di essere meglio organizzato per eliminare rigidità che pesano in taluni settori mentre in altri vige una totale mancanza di protezione. E cerca di evidenziare i vantaggi del paese su cui far leva per cercare di far ripartire il settore industriale, che vanno dalle eccellenze nazionali, ad un buon sistema di infrastrutture e servizi pubblici, ad un basso prezzo dell’energia elettrica, ad un’alta qualità della vita e ad una produttività oraria del lavoro ancora tra le più alte in Europa.

Sulla base di questi punti di forza, e con l’obiettivo di andare a correggere le debolezze, il rapporto indica una serie molto dettagliata di proposte di riforme ed interventi che suggerisce al governo di avviare. Il quadro europeo, in questo contesto, è citato solo nella prospettiva di rafforzare le politiche comunitarie già in essere, concepite in un’ottica di coordinamento e cooperazione intergovernativa.

Nessun riferimento, quindi, al dibattito in corso sul bilancio per l’eurozona, sull’ipotesi di un piano di sviluppo europeo, sulle quattro unioni e sopratutto sull’unione politica, oltre che su parziali condivisioni del debito o progetti di partnership euro-mediterranea. Le proposte restano meramente nazionali, con tutti i limiti che le caratterizzano: ad esempio, sulla questione dell’energia, il rapporto tiene a sottolineare che lo sviluppo delle risorse rinnovabili non deve mettere a repentaglio il basso costo dell’energia, tant’è che gli investimenti suggeriti in campo energetico riguardano soprattutto il settore degli scisti bituminosi e del gas naturale, che sono idrocarburi. Non ci si pone quindi il problema di prevenire un effetto collaterale, il maggiore consumo energetico, legato all’auspicato aumento della produzione industriale, sacrificando così l’obiettivo di lungo periodo del risparmio energetico (strategico sotto molti punti di vista) in nome della competitività nel breve periodo. In questo senso basta fare un paragone con paesi come la Cina, l’India e il Brasile che possono permettersi di tutelare i propri interessi anche di lungo periodo investendo largamente nel settore delle energie rinnovabili e sostenibili (basti pensare che la Cina è il paese che investe maggiormente per le rinnovabili al mondo).

Più in generale, il rapporto, nel momento in cui affronta la questione di quale politica economica favorire tra la demand side economy e la supply side economy, rende evidente come il fatto di usare esclusivamente il criterio nazionale per valutare i vantaggi e gli svantaggi dei due modelli, impedisca un’analisi razionale. Poiché si considera “importazione” anche ciò che proviene dagli altri paesi dell’Unione e si pone la questione che in un mercato unico i vantaggi del sostegno alla domanda interna ricadono anche sugli altri partner commerciali, la scelta deve per forza ricadere sulla supply side economy, e di conseguenza si suggeriscono misure per il sostegno alle imprese e all‘esportazione. Le risorse devono essere reperite con un mix di tagli alla spesa pubblica e aumento delle imposte, con l’obiettivo di raccogliere in brevissimo tempo 30 miliardi di euro, che rappresentano l’1,5% PIL. L’ambizione di un grande piano di sviluppo si riduce, quindi, ancora una volta, alla decisione di puntare a tagli alle imprese e conseguenti aumenti della tassazione.

Questo è il modo di ragionare più o meno in tutti i paesi europei. E visti gli insuccessi che si accumulano, sempre più si conferma il fatto che il vero confronto non è tra austerità e investimenti per la crescita, ma tra piani di sviluppo nazionali e piani europei, capaci di avere l’impatto e il respiro all’altezza dei grandi competitor del XXI secolo.

Fonte immagine Flickr

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