Emergenze umanitarie/Intervista a Gianni Rufini

L’aiuto umanitario oggi

Il ruolo delle ONG e l’Unione europea in Chad. Il dott. Rufini ci spiega il mestiere dell’operatore umanitario

, di Marta Semplici

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L'aiuto umanitario oggi

Nei conflitti attuali non ci sono solo due eserciti contrapposti ma anche tante organizzazioni che cercano di alleviare le sofferenze delle popolazioni che in mezzo ai combattenti si trovano. Siamo andati a intervistare chi fa l’operatore umanitario di professione per capire meglio.

Dott. Rufini. lei ha una lunga esperienza nel mondo delle ONG in tanti Paesi di diversi continenti. Tuttavia non ha l’aspetto di un Rambo muscoloso e impavido che salva vite umane. Forse, l’idea che si ha dall’esterno del vostro lavoro è fuorviante. Ci potrebbe spiegare allora chi è un operatore umanitario e che cosa fa oggi?

Diciamo quel che potrebbe essere l’operatore umanitario visto che in alcuni ambienti il mito del Rambo sopravvive. Certo, un minimo di fisico ci vuole perché si lavora in paesi e climi difficili e perché il nostro lavoro comporta ancora una buona dose di manualità. Vero è che oggi l’operatore umanitario è diverso da quello che ci siamo immaginati. L’operatore umanitario è una figura che deve esprimere buon senso, saggezza, piedi per terra, capacità di mantenere il sangue freddo in situazioni che possono anche essere molto pericolose. Deve essere una persona sensibile, dotato di apertura culturale e mentale, attenzione per il prossimo. Insomma, non è una persona dura e cinica ma qualcuno che sappia coniugare sensibilità e capacità di operare in situazioni difficili. Per fare questo bisogna essere preparati, anche dal punto di vista psicologico ma soprattutto dal punto di vista tecnico e scientifico. Non possiamo permetterci di sprecare risorse o di trascurare cose importanti da cui dipende la qualità della vita delle comunità che assistiamo, addirittura la loro sopravvivenza. Tutto questo richiede agli operatori umanitari di essere dei professionisti sofisticati, multidisciplinari. Non è affatto facile!

L’operatore umanitario deve esprimere buon senso, saggezza, piedi per terra e una buona dose di manualità

Nonostante la complessità di questo lavoro, l’intero settore degli aiuti umanitari ha avuto un sensibile aumento negli ultimi decenni. Anche l’Unione europea si è mossa in questa direzione, accrescendo il suo contributo finanziario è diventata uno dei maggior donatori internazionali. Le risorse messe a disposizione, secondo Lei, sono impiegate efficientemente?

L’efficienza del sistema è gravemente condizionata da alcuni fattori, prima di tutto l’imprevedibilità degli scenari. La necessità di intervenire in alcuni casi in situazioni di emergenza. Attenzione, però, a non identificare l’aiuto umanitario con l’emergenza: la maggior parte dell’aiuto umanitario non è aiuto d’emergenza, ma è un aiuto che interviene in zone dove esistono delle crisi che si trascinano da tempo. Intervenire in situazioni di emergenza significa affrontare una crisi senza sapere quello che troveremo sul terreno e questo aumenta al possibilità di sprechi. Posso partire, ad esempio, con cinquemila dosi di vaccino ma se le persone da vaccinare sono di meno o addirittura non v’è la necessità di farlo, ahimè le dosi di vaccino andranno sprecate. Ma se non le avessi portate e si fosse verificata un’epidemia, sarebbe stato ben peggio. Sul medio periodo, l’aiuto diventa molto più efficiente perché siamo in grado di identificare meglio i bisogni. Anche lì, naturalmente, si verificano delle perdite dovute in particolare alla presenza nei contesti dove operiamo di delinquenti o gruppi armati che ce le sottraggono. Notevoli livelli di inefficienza si verificano quando l’aiuto è destinato a grandi organizzazioni internazionali, che ne devono trattenere una buona parte per i loro costi di gestione. Questo rischio si riduce moltissimo quando parliamo di organizzazioni non governative, che hanno dei margini fissati dai regolamenti finanziari e in genere per le loro spese di gestione viene destinato circa il 5% dei fondi. Un’altra forma di inefficienza è rappresentata dal numero eccessivo di personale espatriato. Spesso, lo stesso lavoro può essere fatto da personale locale che ha le stesse capacità e costa di meno.

Attenzione a non identificare l’aiuto umanitario con l’emergenza

Esiste qualche forma di coordinamento tra Istituzioni e ONG?

A questo livello si sono fatti notevoli progressi, specialmente dopo il Ruanda dove mancò totalmente il coordinamento. Ora si cerca di farlo tra ONG. Anche le istituzioni si coordinano tra loro. L’Interagency Standing Committee dell’ONU ha proprio questo compito. All’interno della Commissione europea, invece, sono sempre mancati degli anelli di congiunzione tra le attività di assistenza umanitaria che si svolgono in piena crisi e quelle che si occupano della ricostruzione e della riabilitazione al termine di una crisi. Ci dovrebbe essere continuità. Purtroppo, questa continuità manca perché a livello istituzionale sono organismi diversi che si occupano di questi due aspetti e che non riescono a coordinarsi tra loro in modo efficiente.

Per venire all’attualità. Grazie alla buona volontà del Ministro degli esteri francese, Bernard Kouchner, l’UE manderà 3000 uomini in Chad per proteggere gli sfollati e i rifugiati della guerra del Darfur e di conseguenza anche gli stessi operatori internazionali che lavorano laggiù. La giudica un’iniziativa positiva?

Assolutamente. Negli anni ’90 abbiamo sperimentato molte volte quanto le forze militari possano contribuire alla sicurezza delle operazioni, alla sicurezza delle vittime, e anche al sostegno logistico delle operazioni. Però esistono delle condizioni ben precise perché questo avvenga. Le forze militari devono essere forze neutrali, non devono essere parte del conflitto, devono anzi essere il più lontano possibile dalle forze combattenti e devono avere un incarico ben preciso di interposizione. Questo, purtroppo, negli ultimi anni è avvenuto sempre di meno come in Afghanistan, per non parlare dell’Iraq, dove i militari hanno avuto il ruolo di forze belligeranti, cosa che ha reso impossibile la collaborazione con le organizzazioni umanitarie. Laddove questa collaborazione è avvenuta, nonostante l’impossibilità di carattere tecnico-giuridico abbiamo avuto delle conseguenze molto negative perché anche le organizzazioni umanitarie sono state percepite come espressione di una parte e non come forze neutrali.

Le forze militari devono essere forze neutrali...in Iran e Afghanistan questo è venuto meno

E in Chad, quali sono le prospettive?

C’è molto bisogno di proteggere gli sfollati e i rifugiati probabilmente però la forza messa in campo dall’UE sarà troppo esigua su un territorio così sterminato. Dispiegare una forza di tremila uomini significa che sul terreno ce ne sarà solo qualche centinaio per il meccanismo dei turni e dei riposi, dell’addestramento. Qualche perplessità mi nasce dal fatto che siano i francesi a farsi promotori di questa iniziativa. Sono un ex potenza coloniale che ha mantenuto alcuni interessi nel continente e questa non è una condizione ideale per una forza di peacekeeping. L’abbiamo visto in diverse occasioni, penso al caso del Belgio in Ruanda, come l’avere avuto un ruolo di potenza coloniale non sempre giochi a favore delle truppe sul terreno.

C’è molto bisogno in Chad però la forza messa in campo dall’UE sarà troppo esigua su un territorio così sterminato

Insomma, ancora qualche incertezza…

E’ bene che l’UE faccia queste cose. Corrisponde all’evoluzione della politica estera di sicurezza e di difesa comune l’intenzione di dare alla forza europea un mandato di stabilizzazione, di intervento nelle crisi, di prevenzione dei conflitti; corrisponde a ciò che noi come europei e come operatori umanitari abbiamo sempre desiderato. Questo avviene in continuità con una politica europea di cooperazione che è sempre stata la più importante del mondo. L’Europa da solo copre più della metà degli aiuti internazionali in tutti i settori e in particolare quello dell’assistenza umanitaria. Questo ha reso l’Europa un soft power.

Era una cosa che si era persa un po’ negli ultimi anni, specialmente dopo l’11 settembre quando le soluzioni militari hanno avuto la meglio. Voglio sperare che questa sia una delle occasioni con cui dimostrare che l’Europa è tornata al suo ruolo di soft power – come diceva lo studioso conservatore americano R. Kagan – di una Venere contrapposta al Marte americano. Visto che Marte ha dato una tale prova di inefficienza e di incapacità, soprattutto in Iraq, credo sia meglio ricoprire il ruolo di Venere e cercare di conquistarsi con l’amicizia, l’aiuto, la collaborazione un positivo e costruttivo dialogo con i paesi in via di sviluppo.

Gianni Rufini - nato a Roma nel 1954 - è un esperto di aiuto umanitario, già direttore del coordinamento europeo delle ONG umanitarie VOICE, dal 1997 al 2001. Dal 1996 è Associate Fellow della Post-war Reconstruction and Development Unit dell’Università di York. Dal 1985 al 1994, ha lavorato in Ghana, Palestina e Argentina come direttore di progetti di sviluppo ed aiuto umanitario. Inoltre, è stato impegnato in oltre 60 missioni in Africa, Asia, Medio Oriente, Balcani e America Latina, con diverse ONG italiane e internazionali (Relief International, Movimondo, Handicap International, ActionAid, Intersos, NCCI, ReC), ed agenzie delle Nazioni Unite (FAO e UNDP-UNOPS). Già membro del Pearson Peacekeeping Centre (Canada), attualmente è direttore di ricerca per il CeSPI, e coordinatore di corsi presso le università La Sapienza di Roma (Master in Cooperazione) e IUAV di Venezia, nonché per l’ISPI. Insegna anche presso la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, l’ULB di Bruxelles, American University di Washington, John Cabot University, e Legon (Ghana), ed è stato visiting lecturer presso Paris Sorbonne (DESS) e Madrid (Carlos III), Bocconi (Milano). Infine, è direttore della rete di formatori umanitari Fields, e membro del Comitato Direttivo del CeSPI, e degli Editorial Board di Humanitarian Affairs Review (Brussels) e The Humanitarian Times (Washington).

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