La Presidenza Obama e l’agenda globale

, di Roberto Palea

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La Presidenza Obama e l'agenda globale

Il coraggioso discorso di seconda investitura del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama di fronte al Congresso (State of the Union Address) e il discorso programmatico di John Kerry, neo-Segretario di Stato, presso la storica Università della Virginia (istituita da uno dei Padri fondatori, Thomas Jefferson) illustrano le linee della futura politica estera americana e la posizione degli Stati Uniti nei confronti del resto del Mondo.

Ne emerge un quadro da cui risulta il chiaro rifiuto degli Stati Uniti di rinchiudersi in se stessi, in una posizione isolazionistica, e la volontà di svolgere un ruolo da protagonista nelle sfide globali, considerate come “opportunità” per la crescita civile ed economica del Paese.

Il Presidente Obama conferma il proprio impegno a ritirare nel 2013 anche le restanti truppe americane dall’Afghanistan, pur assicurando di continuare il proprio supporto alle forze di sicurezza afghane.

Egli si impegna a contrastare, con le armi della diplomazia, la diffusione nel mondo delle armi di distruzione di massa e a rappresentare un faro per tutti quei popoli che si battono per la libertà nel presente momento di storici cambiamenti.

Per combattere radicalmente il terrorismo, il Presidente Obama intende agire sulle cause profonde dello stesso, impegnando gli Stati Uniti, assieme ai propri alleati, a sradicare la povertà estrema nei prossimi vent’anni, valorizzare il ruolo delle donne, dare ai giovani nuove opportunità di lavoro e di istruzione, aiutare le comunità locali a provvedere alla nutrizione e alle cure dei cittadini, salvando i bambini del mondo dai rischi di decesso prematuro e realizzando le premesse per una generazione libera dalla sciagura dell’AIDS.

La sua proposta di completare le negoziazioni per una Trans Pacific Partnership viene affiancata dalla nuova proposta di dar vita a una Transatlantic Trade and Investment Partnership con l’Unione europea, allo scopo di incrementare gli scambi attraverso l’Atlantico ma anche di affrontare congiuntamente la politica degli aiuti allo sviluppo dei Paesi in difficoltà.

Questa responsabilità globale nei confronti del resto del mondo viene ulteriormente affermata da John Kerry il quale, tra le sfide comuni dei Paesi sviluppati, include “il drammatico cambiamento climatico, l’incremento demografico, il riconoscimento dei diritti umani e la sicurezza e la stabilità globali”.

Tra i molti elementi di riflessione, mi paiono particolarmente significativi quelli in cui Kerry:

 ricorda l’attuazione del Piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale e propone che gli Stati Uniti adottino la stessa visione di allora, assistendo i Paesi in via di sviluppo che si trovano in condizioni analoghe a quelle degli Stati distrutti dalla guerra nell’Europa occidentale;

 afferma l’attualità dei Millennium Development Goals dell’ONU, rileva che il budget federale destina solo l’1% agli aiuti allo sviluppo e dichiara che il suo sogno è quello di aumentare tali stanziamenti fino al 10% del budget federale (obiettivo oggi velleitario, stante la fase di “Sequester” del Bilancio statale);

 sostiene la necessità di affrontare la sfida climatica mondiale insieme agli altri Stati inquinatori, il che dimostra una più matura presa di coscienza dei caratteri globali della sfida ambientale e un approccio più efficace e realistico ai problemi della “governance mondiale”.

In tema di problemi ambientali globali, sta riscuotendo notevoli successi un’iniziativa lanciata qualche anno fa dall’ONU, denominata UN Sustainable Energy for All Initiative (SE4All). E ssa si propone tre obiettivi: consentire l’accesso universale alle moderne fonti energetiche; raddoppiare la percentuale di energia prodotta nel mondo tramite le fonti energetiche rinnovabili; raddoppiare il tasso di incremento dell’efficienza energetica entro il 2030.

Più di 50 Paesi sviluppati stanno operando per conseguire i tre obiettivi sopra indicati, nella convinzione che lo sradicamento della povertà, lo sviluppo sostenibile e il graduale abbandono dei carburanti fossili procedano di pari passo.

Rimane tuttavia necessario e imprescindibile un accordo globale, vincolante, tra i Paesi inquinatori, sul controllo delle emissioni di gas climalteranti.

Il fondamento di questa necessità lo troviamo, tra l’altro, nella riflessione sulla “asimmetria della globalizzazione” del celebre storico e politologo britannico Eric Hobsbawm, in una intervista rilasciata pochi mesi prima di morire, nella quale sosteneva: “Certe cose sono globalizzate, altre superglobalizzate, altre non sono state globalizzate. E una delle cose che non lo sono state è la politica. Le istituzioni che decidono la politica sono gli Stati territoriali. Rimane quindi aperta la questione come trattare problemi globali senza uno Stato globale, senza un’unità globale. E questo riguarda non solo l’economia, ma anche la più grande sfida dell’esistente, quella ambientale”, basata sull’esaurimento e l’inquinamento delle risorse naturali quali l’acqua, l’aria e i suoli.

Il federalismo è anche una teoria e un metodo che consente qualche possibilità in più sia di comprendere la complessità del mondo globalizzato e le sfide globali, sia di affrontarle, con metodi democratici, al livello di volta in volta più adeguato di “governo” e nell’interesse della generalità dei cittadini del mondo.

1. Questo articolo è stato inizialmente pubblicato (in data 6 marzo 2013) come commento dal Centro Studi sul Federalismo

2. Fonte immagine Commons.wikimedia

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