La guerra al terrorismo non si vince con la guerra

, di Francesco Premi

La guerra al terrorismo non si vince con la guerra

Torri Gemelle, Londra, Madrid, Sharm, Nassirya e l’ultimo attacco contro gli alpini in Afghanistan: dall’11 settembre sono passati 5 anni, migliaia di morti, due guerre “punitive - preventive”. Eppure, gli attentati continuano, e riemerge nella sua tragica attualità la domanda che ha diviso opinione pubblica e forze politiche in tutta Europa: può una guerra fermare un’ “altra” guerra, diversa e forse ancor più subdola e feroce dei conflitti a cui il mondo era abituato? Forse qualcuno giudicherà l’argomento fuori moda: eppure, ad ogni attentato, diventa più scottante che mai.

Il punto è: possiamo ritenere la guerra convenzionale politicamente (Von Klausewitz considerava la guerra come continuazione della politica con altri mezzi) efficace contro il terrorismo? “L’efficacia di questo tipo di risposte - sostiene il generale italiano Fabio Mini in un suo saggio - è limitata, specialmente se rimane il solo tipo di risposta”. La guerra, in un contesto come quello attuale, è tanto più inadeguata contro il terrorismo quanto più è diverso il “metro” utilizzato per valutare la realtà dall’una e dall’altra parte in conflitto; generalizzando, quanto più è diversa la “forma mentis “occidentale” da quella “orientale” o, per semplificare al massimo, “islamica”.

La distinzione tra oriente ed occidente è soprattutto una divisione culturale, le cui discriminanti sono le diverse concezioni di Vita e Morte, Spazio e Tempo. Se nel sistema di riferimento occidentale “la guerra è uno strumento della potenza umana, nell’altro è un dovere verso il trascendente e la comunità. In uno ha un inizio ed una fine razionali, nell’altro non c’è un inizio e quindi non c’è fine; in uno l’uomo fa la guerra con i mezzi di cui dispone, nell’altro l’uomo si mette a disposizione della guerra: è lui lo strumento”(F. Mini). Il fil rouge che unisce il terrorismo dei kamikaze, le bombe di Sharm, le mine in Afghanistan non potrebbe essere più chiaro: il terrore “è ciò che induce a reazioni abnormi. In molti casi lo scopo dei terroristi è proprio quello di provocare reazioni eccessive.

Il terrore è dunque ciò che provoca l’incapacità d’azione sociale e politica”. Anche culturale, aggiungerei, utilizzando l’aggettivo nel suo senso più ampio: quello che è mancato in questi cinque anni, da parte degli occidentali ma soprattutto degli europei, è stata infatti un’elaborazione culturale e successivamente politica del problema. L’unica risposta è stata la “demonizzazione” tout-court dell’altro, che fosse il terrorista o l’avversario politico che non la pensava allo stesso modo sulla guerra: da un lato chi consapevolmente e orgogliosamente esortava tutti gli occidentali di buona volontà a combattere la “barbarie” che veniva dall’Oriente; dall’altro chi bruciava bandiere americane e tentava maldestramente di giustificare i kamikaze paragonandoli a martiri contro gli occidentali imperialisti.

Non tenendo conto però che parole come imperialismo “sono di conio occidentale non perché l’Occidente abbia inventato quelle piaghe, ma perché le ha riconosciute, ha dato loro un nome e le ha condannate come mali, e perché le ha combattute con furia per ridurne la presa ed aiutarne le vittime. Se la cultura occidentale dovesse ‘finire’, imperialismo, razzismo e sessismo non finirebbero con lei. A morire sarebbero più probabilmente la libertà di denunciarli e gli sforzi per metter loro fine” (B. Lewis). Se è vero, come sostiene R. Girard, che “nessun altra cultura, almeno finora, ha imparato a mettersi in discussione come quella occidentale”, è arrivato il momento di riprendere questa abitudine, di cercare di cambiare la convinzione per cui la guerra al terrorismo si vince con la guerra, convinzione su cui ci siamo fossilizzati ma che finora non ci ha portato verso un mondo più pacifico.

Se per battere il terrorismo bisogna “esportare” la democrazia, ci possiamo stare: come sosteneneva Churchill, la democrazia è forse il peggior sistema politico, ma solo dopo tutti gli altri. Il problema è che la democrazia non si esporta con lo stile dei cowboys e con le granate di cannone. La democrazia si esporta nel modo che l’Europa sta utilizzando (con tutti i suoi limiti) da cinquant’anni, l’unico modo che finora la Storia non ha condannato: praticandola.

Photo: United Nations (cc) Bastian

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