Paradiso perduto

, di Michele Ballerin

Paradiso perduto

L’opinione pubblica, la classe politica e i mezzi di informazione alimentano un forzato ottimismo sulle prospettive dell’economia, narrando il mito della ripresa come ritorno a una condizione di crescita. La realtà sembra essere diversa: prima della crisi le economie occidentali erano immerse in un problema di crescita strutturalmente rallentata, e tornare a quella situazione significherebbe ripiombare in uno scenario drammatico. Per rilanciare lo sviluppo e l’occupazione occorre evidentemente qualcos’altro: investimenti produttivi che in Europa possono essere attuati solo a livello federale.

Il pubblico si sta accorgendo che qualcosa è cambiato nella narrazione mediatica della crisi. Gli annunci dell’imminente “uscita dalla crisi” che si sono susseguiti negli scorsi mesi a ogni minimo accenno di rialzo sulle borse vanno scemando, sono anzi ormai scomparsi. Un imbarazzato silenzio ha preso il posto degli isolati soprassalti di ottimismo che hanno tenuto incrociate tante dita in ogni angolo di Europa e Stati Uniti. Comincia a farsi strada un orribile sospetto: che sia arduo immaginare una “ripresa” senza occupazione, che difficilmente l’Italia potrà rilanciare le proprie esportazioni mentre milioni di Americani mangiano con i buoni–pasto del governo e che la ricchezza bruciata in pochi mesi non potrà essere recuperata per un motivo molto semplice, terribilmente semplice: perché non è mai esistita.

Forse siamo alle soglie di un cambiamento drastico, rivoluzionario del nostro atteggiamento verso l’intero problema economico, e la prima rivoluzione sarà linguistica: bisognerà rivedere le categorie con cui ci ostiniamo a pensare questa crisi. Può darsi che per tale via si arrivi alla conclusione che il termine stesso di “crisi” non è in fondo il più corretto per descrivere la situazione in cui ci troviamo. La parola “crisi” evoca l’idea di un equilibrio che si spezza improvvisamente, un corso regolare che d’un tratto si interrompe o si scompone. Evoca perciò al tempo stesso l’implicita prospettiva di una parentesi che, come si è aperta, dovrà anche chiudersi: l’idea che presto o tardi la normalità sconvolta possa e in fondo debba tornare a ripristinarsi. Il concetto di “crisi” è quindi un concetto ottimistico, un esorcismo: nasce per metterci in condizione di pensare immediatamente, automaticamente al superamento della difficoltà, al “dopo”; rientra – come il concetto gemello di “emergenza” – nel novero delle armi psicologiche con cui cerchiamo di affrontare la spinosa realtà.

Quanto a quest’ultima (la realtà) può anche permettersi di ignorare i nostri stratagemmi linguistici e proseguire incurante per la propria strada: ed è forse quello che sta avvenendo adesso. Archiviati i segnali di ottimismo con i botti di Capodanno, assistiamo all’ultimo tentativo di tenere alto il morale dell’opinione pubblica: quella che potremmo chiamare la retorica del “pre–crisi”. Ora il punto luminoso a cui indirizzare le nostre migliori speranze è la prospettiva del ritorno alle “condizioni pre–crisi”. Da lì veniamo, e lì bisogna tornare. Ci vorrà tempo, ci vorranno sacrifici, ma siamo diretti lì e ci arriveremo: allora la crisi sarà davvero finita. È, si potrebbe dire, l’ultima puntata dell’enorme psicodramma collettivo a cui stiamo assistendo, affacciati al balcone di casa (non avendo niente di meglio da fare: ad esempio un lavoro).

Ma anche questa interpretazione rischia di essere ingannevole. Noi non abbiamo motivo di augurarci un ritorno alle condizioni “pre–crisi”, e per una ragione cristallina: le condizioni pre–crisi – come il termine stesso vorrebbe insinuare – sono le condizioni che hanno condotto alla crisi, che ne avevano in sé i germi e le premesse obiettive. Non si tratta di “tornare a crescere”, perché prima del 2008 non si cresceva affatto, o almeno non abbastanza da garantire a europei e nordamericani il tenore di vita a cui erano abituati. Lo stato che ha preceduto la crisi, e verso il quale si vorrebbero ora sospingere le masse smarrite, è lo stato nel quale i cittadini americani hanno fatto un ricorso scriteriato alle carte di credito e ai mutui bancari per frenare l’irresistibile declino del loro tenore di vita, alimentando così la bolla finanziaria che poco dopo è esplosa in faccia al mondo.

Questo è il paradiso perduto che nuovi e vecchi predicatori ci additano, la terra promessa in fondo a tanto deserto – il “pre–crisi” che si vorrebbe rapidamente convertire nel “dopo–crisi”. Quindi noi non presteremo troppa attenzione alle sirene di oggi, dopo essere stati delusi dalle sirene di ieri. Non vorremo credere che esiste un paradiso dal quale siamo stati ingiustamente cacciati e nel quale sia in qualche modo possibile rientrare in fretta.

Recentemente un economista di Harvard ci ha informato che “studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della morte di un congiunto”. È sempre consolante vedere fino a che punto si è spinta la ricerca nei laboratori di Harvard. Forse il prossimo Nobel all’economia andrà a chi saprà dimostrarci, dati alla mano, che chi non mangia muore di fame. Intanto la “fame” si avvicina. Presto sarà chiaro a tutti – anche ai maghi di Harvard, Wall Street, Washington, Cambridge e della City – che non si tratta di “uscire dalla crisi” ma di entrare nell’era dell’economia reale, dello sviluppo possibile e delle aspettative realistiche. Sarà chiaro che l’occupazione non è un prodotto accessorio e tutto sommato facoltativo del mercato ma ne è il primo presupposto, che però si ottiene investendo nell’economia produttiva, non in obbligazioni, futures o pietrificando il capitale in seconde e terze case.

Chiarito questo, si chiarirà anche che finché non si avranno grandi capitali da investire e grandi, lungimiranti, efficaci progetti di investimento soltanto una politica redistributiva – una politica che sposti concretamente risorse dalla finanza speculativa all’economia produttiva, e che lo faccia subito – potrà consentire alla macchina di funzionare. Ancora un passo... e avremo finalmente riconosciuto che capitali e investimenti all’altezza del cimento potranno essere soltanto europei, cioè federali. Ci sono tasche troppo piene – inutilmente piene – e troppe tasche troppo vuote: ecco la semplice, banale aritmetica della crisi. E ora il pallino torna a Harvard e a Washington.

Immagine: un paradiso in terra. Fonte: Flickr

Tuoi commenti
  • su 19 gennaio 2010 a 20:19, di erik In risposta a: Paradiso perduto

    Il problema non è l’interpretazione perché quello che dici è condiviso, spesso tacitamente, da tutti. Preso atto che un sistema non funziona occorre cambiarlo, solo che nessuno ha la minima intenzione di accollarsi i costi umani, materiali e sopratutto politici del cambiamento. Ancora una volta la parola chiave è «lungimiranza», concetto che nessuna classe dirigente europea sembra oggi in grado di fare proprio.

  • su 4 febbraio 2010 a 20:02, di secretx In risposta a: Paradiso perduto

    Il vero problema è capire quanto l’economia reale riesce a sopperire il gap creato dall’economia speculativa di questi anni. Abbiamo creato risorse fantomatiche e finchè non ci sarà il pareggio tra fantomatico e il reale ne pagheremo le conseguenze in maniera drammatica. Nella gente ormai vi è rassegnazione e la realtà che è all’orizzonte non sara benefattrice

  • su 5 febbraio 2010 a 15:48, di erik In risposta a: Paradiso perduto

    Bene, ma intanto occorre mettere mano alle regole del «gioco»: se il sistema si presta a speculazioni e non ha meccanismi di controllo andremo per sempre incontro a crisi come quaesta. Cosa fanno i governi nazionali? Cosa fa l’Unione? Dopo tante chiacchere su nuove regole e controlli non si è ancora realizzato nulla e da tante parti si vede il riprendere di cattive abitudini.

  • su 19 febbraio 2010 a 17:55, di ? In risposta a: Paradiso perduto

    Sono d’accordo. E non so risponderti in modo più completo che rimandandoti al mio blog, dove mi sono occupato a fondo della questione («Quaderno III»):

    http://quaderniriformisti.blogspot.com/

    Cordialmente

    Michele Ballerin

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