Per una politica estera comune (IV)

, di Stefano Rossi

Per una politica estera comune (IV)

All’indomani delle affermazioni di Bush a Riga, l’Europa si deve porre una domanda molto chiara: aderire o meno al progetto di evoluzione del Patto atlantico prospettato e incoraggiato dagli Stati Uniti. Non si può negare che un dibattito sia necessario all’interno di ogni Paese membro dell’Unione, ma vi sono alcune ragioni per cui sarebbe più auspicabile un confronto comunitario sul tema.

La presenza dei Paesi europei nelle zone calde del pianeta sta risentendo, specie in Italia (ma anche in Spagna, Germania, ecc.), di uno scarso livello di stabilità per quanto concerne l’opinione pubblica interna circa i problemi internazionali. I sistemi politici ormai sempre più bipolari creano una situazione in cui uno Stato, anche nel giro di pochi anni, rivede e a volte rivoluziona totalmente i termini del suo impegno internazionale. Il terrorismo, il problema energetico, i “paesi canaglia”, si sono rivelati temi piuttosto sensibili e il loro impatto sulla popolazione spesso induce i governi a dover interrompere o procrastinare le soluzioni fino a quel momento intraprese. In quest’ottica, si può ben capire uno dei motivi per cui gli Stati Uniti detengono oggi una certa preminenza nella risoluzione delle controversie internazionali.

gli Stati Uniti detengono oggi una certa preminenza nella risoluzione delle controversie internazionali

Riuscendo, infatti, ad assicurare una stabilità quantitativa e qualitativa nel fronteggiare tali problemi, data da una certa omogeneità nell’opinione pubblica, possono, di fatto, rivendicare un diritto maggiore di altri paesi di occuparsi di essi. Basta pensare a come ha reagito la popolazione americana all’idea di intraprendere le missione militare in Iraq o in Afghanistan: la percentuale di consensi era straordinariamente alta e rappresentava un fronte compatto su cui si è potuto appoggiare la politica estera americana anche dopo i primi fallimenti. Per citare i dati, il 74% degli americani nel 2003 giudicavano la guerra in Iraq una guerra giusta, e la percentuale è calata assai di poco nell’anno seguente, quando si iniziavano a capire le contraddizioni di tale missione; a tre anni dall’inizio della missione Enduring freedom, il 70% degli americani era favorevole alle truppe in Afghanistan (Financial times, giugno 2004). Non è questo il luogo per scovare le cause di questo comportamento della popolazione statunitense, ma si dovrà prenderne atto.

Se a questa riflessione, che può sembrare marginale, si aggiunge il grande peso politico ed economico che gli Stati Uniti possono sfruttare per l’approccio alle questioni internazionali, lo spazio per un’azione europea inizia a ridursi drasticamente. Uno Stato membro difficilmente potrà permettersi di intraprendere un progetto internazionale, senza l’avallo, l’aiuto e il controllo del governo americano. Non bisogna insistere eccessivamente per argomentare la scarsa efficacia e forza di un sistema internazionale in cui una nazione (per quanto forte e preparata) sì prende carico di risolvere ogni problema del pianeta e decide unilateralmente come farlo. L’Unione europea può e deve rispondere ai problemi fin qui analizzati, pena la sua progressiva sudditanza nei confronti del colosso americano e una compagine internazionale sempre più grave, tenuto conto della debolezza crescente di un’organizzazione come l’ONU.

Una politica estera comune sembra la via più comoda e conveniente, nonché necessaria

Una politica estera comune sembra la via più comoda e conveniente, nonché necessaria. In primo luogo, infatti, un progetto di politica estera comunitaria metterebbe un’eventuale azione internazionale al riparo dai mutevoli venti dell’opinione pubblica di ogni singolo Paese. Una linea di politica internazionale comunitaria sarebbe quindi più attendibile, maggiormente coerente sul lungo periodo, e comunque rappresenterebbe almeno la maggioranza degli europei.

In seconda battuta, si deve ammettere che una collaborazione più stretta a livello internazionale tra i Paesi dell’Unione, creerebbe un nuovo soggetto internazionale che potrebbe opporsi o comunque interagire da pari con potenze quali Russia e Stati Uniti. La mera somma algebrica delle forze schierate in campo in questo momento da parte dei Paesi membri, rappresenterebbe una forza politica e militare di una certa portata, senza contare la maggiore efficienza di missioni e progetti diretti da un unico organo, rispetto all’attuale dispersione delle risorse militari e logistiche.

Infine non si deve dimenticare che il baricentro (almeno) geografico dell’Unione Europea si sta spostando a est, comprendendo Paesi che facevano parte del blocco sovietico. Nazioni quali Bulgaria e Romania saranno presto membri dell’Unione e la questione della Turchia è tuttora aperta. Se l’Unione europea saprà sfruttare questa preziosa risorsa geopolitica che si trova a dover amministrare, le possibilità di un ruolo determinante dell’Europa sullo scacchiere mondiale si faranno più concrete e accessibili.

Una politica estera europea comune non è solo necessaria per la crescita dell’Europa e per il suo maggior peso politico, ma si prospetta come la scelta più conveniente per ognuno dei Paesi europei.

Fonte immagine: Flickr

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