Politica, occasioni e saggezza: per un futuro “verde”

, di Federico Premi

Politica, occasioni e saggezza: per un futuro “verde”

La politica sarebbe una faccenda abbastanza semplice se dietro le parole non si nascondessero altre parole e altri significati. Ma cosa spinge un Governo, un Partito o un Ministro a “giocare” con le parole in modo da poter parzialmente oscurare la verità? Probabilmente la paura, e in particolar modo, la paura di fronte alle proprie responsabilità.

Quando il commissario europeo per l’ambiente, il popolare greco Stavros Dimas, collega di partito del ministro Prestigiacomo, ha aperto la grande diatriba delle cifre, la danza di dichiarazioni, numeri, correzioni e illazioni ha avuto inizio. Per prima cosa, però, l’Italia ha preso una posizione netta, affermando: «noi non siamo soli». «Con noi – ha aggiunto Berlusconi – ci sono altri nove paesi». È davvero così? Formalmente sì, ma sostanzialmente no. E quella che conta, nel mondo decisionale, è ancora la sostanza. Ai media, si sa, si tende a lasciare le briciole, cioè la forma, con evidenti reazioni a catena che sempre aprono la strada a fraintendimenti.

Sul pacchetto 20-20-20 la posizione dei paesi dell’Est è opposta a quella dell’Italia

In quanto a richieste di rinvio o revisione del «pacchetto 20-20-20», la posizione dei paesi dell’Est, pilotati dalla Polonia, è diametralmente opposta a quella dell’Italia. Questi paesi – come hanno scritto, su un articolo molto puntuale apparso su Repubblica il 20 ottobre, Andrea Bonanni e Antonio Cianciullo – «si battono tenacemente per mantenere come livello di riferimento nello stabilire il tetto delle emissioni, gli standard del 1990, e non quelli del 2005. II motivo è semplice. Nel90 questi Paesi erano ancora inseriti in un’economia paleoindustriale di tipo sovietico e avevano livelli di emissioni tossiche elevatissimi. Dopo la caduta dei regimi comunisti ebbero un tracollo nella produzione industriale da cui cominciarono lentamente a riprendersi solo agli inizi del nuovo secolo. Per loro, dunque, ridurre le emissioni rispetto a quelle già basse del 2005 comporta un onere molto superiore che se dovessero prendere come riferimento le emissioni molto elevate del 1990». L’Italia invece si batte per riportare la pietra di paragone delle emissioni al 2005, al periodo, cioè, culmine dell’escalation negativa del nostro paese, quanto ad emissioni di gas serra. Il nuovo pacchetto proposto dalla Commissione che ci chiede di tagliare i nostri gas del 13 per cento entro il 2020, «lo fa partendo dal livello delle emissioni del 2005 e non del 1990. Poiché lItalia è uno dei pochi paesi che, nonostante Kyoto, hanno aumentato le loro emissioni, ci troviamo dunque decisamente favoriti. Emeglio infatti avere un tetto pari all87 per cento di un volume di emissioni elevato, come quello del 2005, che un volume più basso, come era quello del 1990».

Si tenga conto, infatti, che i costi che l’Italia si trova ora a pagare sono costi che potevano essere evitati: l’esame di coscienza va fatto dunque dai governi che hanno, dagli anni novanta ad oggi, amministrato il nostro paese e le sue politiche ambientali. Entro il 2010 dovremmo infatti pagare cifre ingentissime alla Comunità Europea, in quanto – in controtendenza con gli altri paesi dell’Unione – l’Italia, invece di diminuire le emissioni del 6,5 % come da impegni presi con la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, le ha aumentate del 7%. Ci troviamo, dunque, fuori del 13,5%.

quello che non ci riguarda nell’immediato presente sembra ininfluente nelle scelte. Il futuro sembra non appartenerci

Stiamo dando prova, in sintesi, di scarsa saggezza: quello che non ci riguarda nell’immediato presente sembra ininfluente nelle scelte politiche, sociali ed esistenziali. Il futuro sembra non appartenerci. Così abbiamo pensato negli anni Novanta, e così ci ostiniamo a pensare ancora oggi. I costi di queste scelte estemporanee (fuori, cioè, dal tempo della storia) saranno sicuramente maggiori, tra due, quattro o otto anni, di quelli che ci impone il «pacchetto 20-20-20».

Non solo: l’Italia, adottando una strategia che fa leva più sulla paura che sulla voglia di investire e rinnovarsi in vista di un rilancio economico, in un periodo di stagnazione come quello attuale, di fatto rischia di fare da zavorra per il mondo industriale che invece vede nel green businness la molla in grado di far ripartire il sistema. Non siamo di fronte ad un momento passeggero, congiunturale, ma – come suggerisce Jeremy Rifkin, economista autore dell’importantissimo libro «Il sogno europeo» – ad un passaggio tra due ere. Crisi del sistema redditizio, crisi energetica e crisi innescata dal global warming si trovano oggi incastrate l’una nelle altre, e sono la forma patologica della fine della seconda era industriale.

Crisi, ma anche occasione per addentrarci nella Terza rivoluzione industriale

Crisi, dunque, ma anche “occasione” per ripartire ancor prima di fermarsi (ché significherebbe davvero il collasso) nel saper leggere l’opportunità di addentrarci per primi nella Terza rivoluzione industriale. Questo obiettivo, condiviso per altro dal commissario europeo dell’industria, è lo slancio per rimettere in moto l’economia globale, creando occupazione dal settore primario al terziario. L’alternativa è una recessione violenta in un presente molto vicino.

Non solo il settore industriale e commerciale, però, hanno la fortuna di leggere, in questo momento di crisi, una possibilità di cambiamento. Ogni singolo cittadino ha l’occasione di mettersi in gioco e, come vorrebbe un buon apparato democratico, contare davvero qualcosa: le scelte etiche, d’ora in poi, avranno un peso tanto più grande quanto più saranno condivise dalla massa, rispettando, in altre parole un principio cardine del federalismo: quello della sussidiarietà. Il farsi avanti di valori che leggano la realtà come una rete ecologica, sistemica e olistica, valori diversi, quindi, da quelli imperanti (espansione illimitata, consumismo fine sé stesso, sfruttamento incosciente delle risorse basato sul “prendere finché ce n’è”, senza tenere conto degli esiti di un tale agire), possono orientare non solo il mercato, con la scelta di prodotti che rispettino il nostro futuro, ma possono anche trovare nuove forme ad un benessere che, fino ad oggi, ha identificato erroneamente (e i fatti lo dimostrano) la crescita illimitata con la felicità.

Qualità della vita e PIL sono “misure” talvolta distanti tra loro

Il PIL, questo mostro sacro da cui sembra dipendere il nostro umore quotidiano (ma che in realtà relega il cittadino a sfondo di un teatrino orchestrato da pochi) dovrà trovare il modo di aprirsi anche alla computazione delle risorse ambientali, degli sprechi, della salvaguardia degli ecosistemi. Paradossalmente un disastro ecologico (come la rottura di una petroliera) nell’immediato produce PIL, alla stessa stregua di un incidente stradale, ma i costi del “dopo”, per ripristinare situazioni originarie, su chi ricadono?

Qualità della vita e PIL sono dunque “misure” talvolta distanti tra loro. Mentre le risorse naturali (del tutto dipendenti dal clima e dal buon funzionamento degli ecosistemi, da cui il termostato planetario dipende), una volta compromesse irreversibilmente, faranno apparire nient’altro che tragicomiche le concezioni che antepongono l’economia all’ambiente, vista la dipendenza della prima dal secondo: e le difficoltà in cui versano le agricolture mondiali la cui produttività, in zone determinanti del pianeta, si dimezza da un anno all’altro per un pluridecennale ed erroneo sfruttamento del suolo, sono solo il primo chiaro segnale di questa interdipendenza.

l’Europa sarà in grado di imporsi come leadership mondiale, comprendendo la portata della situazione che si trova “fortunatamente” a gestire?...

Insomma, è proprio vero: «il futuro o sarà verde, o non sarà affatto». L’avvicinarsi di un green new deal non solo è auspicabile, ma è l’unica soluzione concreta che economisti, sociologi, scienziati e politici di tutto il mondo vedono profilarsi: verde è l’unico consumo che può far ripartire il motore degli scambi e della produzione slegandosi definitivamente dai costi di produzione che incrementano in quanto nel contempo diminuiscono le risorse primarie. Il progresso è alle porte, e la decrescita può essere la soluzione economica quanto etico-valoriale.

...Prossimi appuntamenti: conferenze di Poznan e di Copenhagen

L’occasione forse più ricca di tutte, infatti, sarà proprio il trovare finalmente – a livello sociale ed individuale – un punto di incontro che abbatta definitivamente le ideologie (di destra e di sinistra) in favore dello sforzo comune nel tentativo di garantirci un futuro degno di questo nome. Lo spazio della politica può essere ripensato, perché nessuno è esente dalle sfide che minano le basi (climatico-ambientali) del nostro sistema produttivo, da sempre forniteci gratuitamente dalla natura. I prossimi appuntamenti – l’imminente conferenza di Poznan e quella di Copenhagen nel 2009 – saranno la cifra di paragone per valutare se l’Europa davvero sarà in grado di imporsi come leadership mondiale, comprendendo la portata della situazione che si trova “fortunatamente” a gestire.

Fonte immagine: Flickr

Parole chiave
Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom