The best is yet to come

, di Simone Vannuccini

The best is yet to come

Da poche ore Barack Obama è di nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Serie storiche alla mano, quasi tutti i Presidenti uscenti sono stati rieletti dopo il primo mandato (a parte Carter e Bush senior), dunque il risultato non giunge come una sorpresa assoluta; in ogni caso, dall’altro lato del’Atlantico (quello europeo), fa tirare un sospiro di sollievo ed accende un sorriso di soddisfazione.

Mai come questa volta il dibattito elettorale ha mostrato come la prima - ma vacillante - potenza mondiale si componga al contempo di conservazione e dinamicità. La società americana cambia continuamente, sottoposta sia a sollecitazioni esterne che interne: in questi anni ingenti risorse sono state investite per chiudere i conti con una guerra in Iraq dai costi miliardari e per evitare un’indecorosa conclusione dell’impegno afgano, mentre nuove forze conservatrici, prima fra tutte quella del Tea party, emergevano come alternativa alla politica tradizionale, una tendenza tutt’altro che straniera anche nel Vecchio continente. Allo stesso tempo, le grandi direttrici della politica americana sono rimaste le stesse: più o meno welfare state, più o meno isolazionismo internazionale, più o meno regolazione fiscale e delle libertà economiche. Tutto questo, immerso nel grande affresco di fondo della crisi economica.

Gli americani hanno iniziato a pensare ai limiti del loro modello di sviluppo e ad immaginare nuove scenari di indipendenza energetica (guidati prevalentemente da considerazioni di profitto, più che di morale - ma questa è un’altra storia); hanno iniziato a farsi una ragione del ruolo sempre meno protagonista giocato dal dollaro nel sistema monetario internazionale e - parallelamente - a considerare l’ascesa di nuove potenze globali senza azzardare «colpi di coda» da iperpotenza in declino. Nonostante ciò, non tutte le leadership si equivalgono: con un piccolo esperimento «controfattuale», quali azioni avrebbe messo in campo un Presidente repubblicano? Più attenzione alle tematiche interne che a quelle mondiali, forse, ma anche meno vincoli alle tendenze conflittuali fra l’alleato israeliano e la minaccia iraniana, per esempio, aumentando il rischio di far saltare la «polveriera» mediorientale.

In poco più di un decennio le aspettative mondiali sono passate dal possibile conflitto di civiltà con l’Islam globale alla Great Recession internazionale; una transizione non da poco, non c’è che dire. Ma Barack Obama è riuscito ad interpretare correttamente i cuori e le menti degli americani e di gran parte dei cittadini del mondo, parlando al Cairo, conquistando gli europei, dialogando con la Cina. Rinunciando alla retorica sui «campioni nazionali» è riuscito a salvare Detroit e l’industria automobilistica, un’altra lezione importante per il nazionalismo metodologico imperante in Europa. Il piano americano anti crisi, capace di mobilitare più di seicento miliardi di dollari, ha certamente spinto agli estremi la dinamica dell’indebitamento statunitense, ma ha anche dimostrato le potenzialità di un sistema federale nel combattere gli shock economici, simmetrici o asimmetrici.

Il sistema americano ha resistito ai venti della crisi e ai fallimenti delle banche «too-big-to-fail», ma oggi il suo stato di salute in termini di debito, deficit pubblico, saldo della bilancia dei pagamenti, è peggiore di quello dell’Europa dell’austerity nel suo complesso. L’unità politica aiuta però a tenere insieme i pezzi della società e ad evitare di scivolare nei paradossi e nelle contraddizioni che invece smantellano giorno dopo giorno le potenzialità del grande (ed incompleto) esperimento dell’integrazione europea. La tenuta del sistema americano è certamente strutturale, ma è dipesa anche dall’opera del suo Presidente. Per questo motivo la rielezione è un fatto positivo. Nel bel mezzo della transizione globale verso un sistema multipolare ed - auspicabilmente - verso un governo mondiale multilivello, però, gli Stati Uniti non possono essere lasciati da soli ancora una volta, a disegnare l’ordine nel disordine del mondo. Al governo Obama II servirà un alleato forte e affidabile, un’Europa fatta Stato federale.

Qualcuno ha scritto recentemente che quattro anni fa Obama è stato votato con il cuore; svanito l’amore a prima vista, questa volta è stato votato con la testa. Forse è vero, ma da oggi le aspettative si fanno grandi di nuovo. E mentre il cuore torna a battere per la politica che ispira sogni e grandi progetti, il mondo continua a correre sulla via del cambiamento. Chiuse le elezioni americane, si apre il momento del rinnovo del partito comunista cinese, un evento che potrebbe rivelarsi ancora più rilevante di quanto è accaduto oggi negli USA. Cosa ci aspetta nei prossimi quattro anni in cui Barack Obama sarà al governo non possiamo saperlo con certezza. Ciò che possiamo sperare, però, è che the best is yet to come.

Fonte dell’immagine: Flickr

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