Ai Giochi olimpici, i migliori atleti e i peggiori opinionisti

, di Cesare Ceccato

Ai Giochi olimpici, i migliori atleti e i peggiori opinionisti
Foto da rawpixel, CC0 License

Imprese sportive, momenti indimenticabili e un diluvio di polemiche: così l’Italia ha vissuto la trentatreesima edizione dei Giochi Olimpici. Tra una cerimonia di apertura considerata profana, liti con arbitri e giudici, dibattiti sul valore del quarto posto e controversie sull’identità di genere di un’atleta, l’attenzione si è spesso spostata su temi lontani dallo spirito olimpico, oscurando a tratti l’essenza della competizione stessa.

La gioia di Novak Djokovic, solitamente noto per il suo autocontrollo e il suo sorriso anche nelle situazioni più critiche, che vive un momento di pura emozione dopo aver finalmente conquistato la medaglia d’oro olimpica, l’unico titolo che ancora mancava al suo leggendario palmarès, e frena il tremore solo dopo l’abbraccio della sua famiglia.

Il gesto di Manizha Talash, atleta afghana della squadra olimpica dei rifugiati, che terminata la sua performance nel breaking, espone in mondovisione un drappo con la scritta «liberate le donne afghane», in risposta al regime talebano che ha comportato la sua impossibilità a partecipare ai Giochi sotto la propria bandiera.

E ancora l’uomo in costume floreale che, con estrema naturalezza, si tuffa nella piscina olimpica per recuperare una cuffia smarrita durante una batteria del nuoto, spezzando la tensione della competizione e ricordando a tutti che, anche nell’eccellenza dello sport, c’è spazio per un po’ di leggerezza. Il suono di Imagine di John Lennon, lanciata dal DJ presente sul campo di beach volley, capace di riappacificare le atlete di Brasile e Canada in lite nel corso dell’accesissima finale che stavano giocando.

I momenti che lascia al mondo la trentatreesima edizione dei Giochi olimpici, svolti a Parigi e terminati domenica 11 agosto, sono tanti e spaziano dalla commozione ai brividi, dal divertimento alla serenità, emozioni che, con ogni probabilità, sono il motivo per cui sono sempre la competizione più sportiva più attesa e seguita. La rappresentativa italiana rientra da oltralpe con quaranta medaglie al collo, lo stesso numero conquistato nel 2021 a Tokyo. Un bottino ancora più ricco dello scorso, tenendo conto dei due ori in più, e altrettanto memorabile, con le straordinarie vittorie della nazionale femminile di pallavolo, delle tenniste Sara Errani e Jasmine Paolini e della ginnasta Alice D’Amato che non fanno rimpiangere i trionfi in Giappone di Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi rispettivamente nei cento metri e nel salto in alto.

Ma perché limitarsi a godere delle prestazioni ed esultare delle vittorie quando si può “pisciare controvento"? Questo devono essersi chiesti giornalisti e opinionisti italiani, ponendo il focus innanzitutto sulle non vittorie.

L’Italia è infatti risultata prima per quarti posti ottenuti a queste Olimpiadi, un dato che può essere inteso in due modi. Come un’eccezionale capacità degli atleti azzurri nel saperci fare in ogni disciplina, cosa che pensa il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha voluto invitare al Palazzo del Quirinale, per la classica cerimonia casalinga post-olimpica, non solo i vincitori ma anche tutte le “medaglie di legno”. Oppure come una sconfitta, un fallimento, un risultato che non può suscitare altro che delusione, cosa che pensa l’ex schermitrice Elisa Di Francisca.

Presente a Parigi in qualità di ambasciatrice del CONI, Di Francisca si è resa protagonista di un duro commento nei confronti della nuotatrice Benedetta Pilato e delle sue esternazioni a seguito della finale dei cento metri rana, in cui ha mancato la medaglia di bronzo per un centesimo. Pilato, diciannovenne alla prima finale olimpica della sua carriera, si è presentata in lacrime al microfono della giornalista Rai Elisabetta Caporale, lacrime di gioia per un risultato insperato che ha reso la giornata della gara la “più bella della sua vita”. La nuotatrice si era infatti qualificata con il settimo tempo su otto disponibili e non era in odore di risultato fino a quando non è entrata in vasca e ha messo in scena una performance da applausi. Eppure Caporale, come il resto della troupe in studio, è sembrata delusa dall’atleta. “Dici veramente? Qui tutti ci aspettavamo una medaglia” ha detto abbastanza scocciata la giornalista. “Tutti tranne me” ha risposto prontamente Pilato.

In serata, ascoltando per la prima volta quelle parole, Di Francisca ha risposto con tono quasi beffardo, chiedendosi se la giovane ci fosse o ci facesse. Per lei, l’unica reazione possibile per un’atleta che manca una medaglia è la rabbia; ciò che conta è vincere, non semplicemente dare il massimo o sfidare se stessi. Lette le critiche che le sono state rivolte sui social, Di Francisca ha chiesto scusa a Pilato “se avesse in qualche modo urtato la sua sensibilità”, dimostrando di agire per dovere e non per una reale riflessione.

Che sarebbe stata un’edizione dei Giochi olimpici scandita in Italia dalle polemiche era intuibile già nel corso della cerimonia di apertura. Il comitato organizzatore francese, facendosi lustro di essere patria del fondatore dei Giochi moderni Pierre de Coubertin, ha impostato la classica manifestazione di introduzione ai Giochi con concerti, balli, esibizioni nel centro di Parigi richiamanti tanto i valori patriottici quanto quelli olimpici, oltre a liberté, egalité, fraternité, figuravano sportivité, festivité, solennité. Tanti opinionisti hanno storto il naso, vedendo in tale celebrazione solo lo sfarzo della capitale francese che andava a discapito degli atleti in sfilata lungo la Senna.

Qualora si fosse inteso davvero questo aspetto, si sarebbe potuto rimediare dando il giusto spazio agli sportivi nei giorni successivi, eppure gli stessi giornalisti critici hanno preferito insistere per giorni sulla cerimonia, arrivando ad attaccarla per una presunta offesa alla religione cattolica, a causa di una rappresentazione troppo «stravagante» dell’Ultima Cena. Da notare come la carica più importante al mondo a reputarsi offesa non sia stata quella del Papa, rappresentazione di Dio in Terra, ma quella del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano, a testimonianza di come la polemica fosse fatta - per restare sul francese - giusto “pour parler”.

Sarebbe bello fermarsi qui. Pensare che al di là di questi episodi le Olimpiadi siano state raccontate come la grandiosa manifestazione sportiva che sono. Invece, i commenti si sono dilungati su dettagli ben lontani dallo spirito olimpico: dalla residenza «green» degli atleti priva di aria condizionata, alla mensa ritenuta insufficiente, fino alla scelta - indubbiamente scellerata - di organizzare le gare di nuoto in acque libere nella Senna, tutt’altro che limpida. Per giorni che sono apparsi interminabili poi, l’attenzione si è concentrata sugli arbitraggi.

È vero, come spesso accade in ogni sport, alcuni giudizi risultano discutibili e talvolta gli arbitri non sono all’altezza della situazione. È successo a Filippo Macchi nella finale maschile di fioretto, persa di un punto contro Cheung Ka Long, anche a causa di una decisione arbitrale controversa, probabilmente influenzata dal clima infuocato dell’arena, piena di francesi che tifavano per l’atleta di Hong Kong, allenato da un loro connazionale. Stessa sorte è toccata alla nazionale maschile di pallanuoto, eliminata ai quarti di finale ai rigori dall’Ungheria dopo che, nella stessa azione, le era stato annullato un gol regolare ed era stato ingiustamente espulso il giocatore Francesco Condemi. L’Italia ha fatto ricorso alla World Aquatics chiedendo che la partita venisse ripetuta, la federazione ha riconosciuto gli errori arbitrali e revocato la squalifica di Condemi, ma ha comunque respinto il ricorso.

Come segno di protesta, durante la finalina per il quinto posto contro la Spagna, l’Italia ha scelto di voltare le spalle ad arbitri e giuria durante l’esecuzione degli inni nazionali e, al primo pallone, ha fatto auto-espellere Condemi. Questa mossa ha suscitato reazioni contrastanti, prevalentemente favorevoli, ma ha sollevato una questione irrisolta: ci sarebbe stato lo stesso comportamento se la partita fosse stata valida per una medaglia? «Rigore è quando arbitro fischia» diceva Vujadin Boskov, storico allenatore del mondo del calcio. Cinque parole contro ore di polemiche sterili, che forse sarebbe il caso di adottare non solo quando rigore è a nostro favore.

Dulcis in fundo, arriva quella che può essere definita la polemica delle polemiche, che ha un nome e un cognome. Un nome che gli opinionisti italiani hanno menzionato talmente tanto da dimenticare quello di alcune atlete di casa, come Rossella Fiamingo - oro nella spada a squadre con Alberta Santuccio, Giulia Rizzi e Maria Navarria, e portabandiera del tricolore nella cerimonia di chiusura di queste Olimpiadi - diventata per Repubblica “l’amica di Diletta Leotta”. Si parla ovviamente di Imane Khelif.

La pugile algerina, già presente agli scorsi Giochi olimpici di Tokyo, dove venne sconfitta ai quarti di finale dall’irlandese Kellie Harrington, si presentava a Parigi come una delle favorite della categoria pesi welter, sebbene il suo score non fosse straordinario. Khelif aveva infatti subito in stagione lo stesso numero di sconfitte dell’azzurra più promettente nel torneo, Angela Carini.

Poco prima dell’incontro tra le due agli ottavi di finale, scoppia il putiferio. Il Presidente dell’International Boxing Association, Umar Kremlev, afferma che la squalifica che aveva colpito Kherif ai campionati mondiali di pugilato dilettantistici del 2023 era avvenuta per un test del DNA che mostrava come Khelif non possedesse i cromosomi femminili XX bensì i maschili XY. Di risposta, il Comitato Olimpico Internazionale nega tale narrativa e parla di un alto livello di testosterone riscontrato nel sangue, comunque conforme al regolamento olimpico. Parte l’indagine, ne emerge che Khelif è donna a tutti gli effetti, non emergono nemmeno prove che l’atleta sia intersex, e cioè rientri in quella piccola percentuale di persone che hanno variazioni innate che riguardano cromosomi o ormoni sessuali, ma i peggiori complottisti della teoria gender iniziano a darle addosso: per loro, l’atleta è transessuale.

Tralasciando l’aspetto più ovvio, ossia che la legge penale algerina prevede la transessualità come contraria alla religione musulmana e pertanto punibile con la detenzione e che sarebbe quindi allucinante vedere una persona trans competere ai Giochi olimpici sotto la bandiera dell’Algeria, davvero è ipotizzabile che un ente come il Comitato Olimpico, il più fermo e drastico garante della giustizia nello sport mondiale, si sia concesso un’eccezione simile? Sarebbe più accettabile indagare sull’International Boxing Association, con una storia di scandali amministrativi, sportivi e finanziari che l’hanno portata a essere non più riconosciuta dallo stesso Comitato Olimpico dallo scorso anno. Lo sarebbe per chi non vuole spargere benzina sul fuoco.

Invece la polemica dilaga, specialmente dopo che Angela Carini abbandona il match contro Imane Khelif dopo soli quarantasei secondi. Per chi ha avuto la briga di guardarli quei quarantasei secondi è evidente come dietro l’abbandono non vi sia alcuna ragione morale, ma la limitata reattività dell’atleta azzurra nel parare i colpi della rivale. Duri, come consuetudine che siano nel pugilato.

Khelif arriva alla finale, dove sconfigge la tailandese Janjaem Suwannapheng e vince la medaglia d’oro. Scesa dal ring, rilascia un’intervista alla televisione americana, che purtroppo non è stata ripresa da quella italiana. Ci avrebbe fatto bene sentire le seguenti parole: “rivolgo un appello a tutte le persone del mondo, rifiutate il bullismo su ogni atleta, ha conseguenze pesanti. Può distruggere le persone, uccide i pensieri, lo spirito e la mente e può dividere i popoli. Rispettate i principi dei Giochi, quelli contenuti nella Carta olimpica”.

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