Ormai da qualche tempo è in atto una campagna di profonda revisione del significato, della natura e del senso della Resistenza, lanciata dai microfoni di numerosi parlamentari e dai megafoni, resi roboanti dalla propaganda on-line, di molti populisti.
La stessa Anpi ha redatto un comunicato stampa nel tentativo di richiamare all’ordine la politica da questo suo appropriarsi degli ideali della Resistenza per utilizzarli come arma per la bagarre (vedi gli scontri alla Camera dei Deputati il 29 gennaio scorso u.s., degenerati anche in cori da tifoseria, contrapponendo “Bella Ciao” e l’Inno di Mameli). Ma davvero si può ridurre a questo il mito della Resistenza? Com’è possibile essere arrivati fin qui senza che l’opinione pubblica si scandalizzasse?
Chiaramente si tratta di un argomento eccessivamente complesso per poter esser affrontato in poche righe, ma occorre almeno tentare di comprendere alcuni punti che non possono esser spiegati limitandosi alla dialettica partitica nazionale. Le azioni politiche nel nostro Paese sono sempre più caratterizzate da atteggiamenti apertamente antiparlamentari o antidemocratici, connotati da una propaganda violenta e anticulturale. Non si cerca più di capire la complessità delle cause dei problemi sociali, né esiste una memoria storica profonda di ciò che è stato; se così fosse si comprenderebbe l’importanza dell’eredità di quelle guerre scoppiate esattamente a partire da un secolo fa (1914), e dopo le quali si è ricostituito in Europa il più lungo periodo di pace e prosperità mai vissuto. Ci siamo assuefatti all’incapacità di rispondere alle nostre istanze da parte della politica, accettando risposte populiste e/o semplicistiche.
Quando si parla di Resistenza non ci si può limitare al ricordo dell’esperienza bellica dell’antifascismo: senz’altro è stata il frutto di mesi di guerriglia, di resistenza attiva e passiva condotta eroicamente, di cui la popolazione europea fu coraggiosamente capace, ma non è stata solo questo: c’è molto di più!
Il fascismo non ha soltanto rappresentato una deviazione dello stato nazionale da cui pensiamo di esserci liberati e contro cui i partigiani si sono armati: è stato il frutto dell’oppressione di interi popoli divisi, è stato l’annientamento della cultura della diversità e della pace, ha rappresentato il tentativo di sottomettere l’Europa sotto un giogo totalitario. Questo è avvenuto anche e soprattutto perché, dopo la crisi economica del ’29, è risultato evidente che la dimensione dei mercati dei singoli Paesi europei non erano più sufficienti a sostenerne la stabilità politica ed economica. La vera forza del fascismo è derivata così dall’incapacità delle forze e delle istituzioni democratiche nazionali di risolvere i problemi di fondo della politica interna e della politica internazionale, di garantire cioè l’espansione economica e la sicurezza (anche sociale) dei propri cittadini.
Eppure l’Europa non si è ancora davvero unita e rimane tutt’ora in balìa delle degenerazioni politiche che già una volta la portarono al fascismo. Da quando la Costituzione italiana è entrata in vigore, crediamo di aver messo al sicuro il nostro sistema democratico. Dobbiamo comprendere invece che esso non rappresenta un valore assoluto, ma un processo per cui occorre continuamente lottare affinché non crolli. Si tratta di un sistema imperfetto se preso a sé stante: questo avevano compreso le forze antifasciste, cercando di fondare il muro contro la dittatura e la guerra sistemica tra gli stati europei (che sin da quando si erano costituiti nel “sistema degli stati”, nel1648, non hanno mai conosciuto una pace duratura) su ideali europeisti e federalisti, cioè nell’unico modo capace di garantire una pace istituzionale tra gli stati e il superamento del problema dell’anarchia internazionale.
Oggi stiamo tristemente scivolando in una logica fondata su di una corsa al ribasso di propaganda, e prese di posizione sempre più populiste e squadriste. Ciò avviene perché la nostra classe politica non è assolutamente in grado di risolvere i problemi diventati ormai pienamente sovranazionali (dalla gestione della crisi economica al rilancio dello sviluppo fino alla necessità di una politica estera internazionale credibile in un mondo dominato da stati-continente): non ne ha gli strumenti.
In questo contesto, i veri progressisti sono solo coloro che si inseriscono nella lotta per completare la Resistenza, dunque per la costruzione di una democrazia europea, federale, seguendo la via tracciata da Altiero Spinelli. Come scriveva infatti Luciano Bolis (partigiano e antifascista) «Spinelli è la Resistenza così come continuerà ad esserlo il federalismo». Tutto il resto non è che flatus vocis; solo sul piano europeo esistono gli strumenti per risolvere i nostri problemi nazionali.
Adesso comprendiamo perché la Resistenza non possa definirsi assolutamente compiuta: il reale obiettivo della guerra al fascismo, cioè la realizzazione di uno stato europeo capace di garantire stabilità politica e sociale, nonché la solidarietà tra tutti i popoli, non è stato ancora realizzato. La Resistenza non è un valore che si possa utilizzare come una bandiera da imbracciare all’occorrenza, ma rappresenta un’ideale di lotta oggi più attuale che mai, un obiettivo che dovrebbe esser portato a compimento: è questo che dovrebbero comprendere i politicanti italiani.
Concludo,dunque, citando le splendide parole di Mario Albertini nella prefazione al libro “Resistenza ed Europa”, sicuramente efficaci per comprendere la necessità storica di continuare questa battaglia per il nostro futuro, oltre ogni populismo o neo-nazionalismo:
“È vero che la Resistenza non è finita perché i suoi grandi valori – la pace, la libertà e l’eguaglianza- sono ancora in pericolo. Ed è vero che la Resistenza e l’Europa sono strettamente collegate perché solo con una Europa libera e indipendente ci si può battere per il superamento dei blocchi e dell’imperialismo, cioè per la pace e l’eguaglianza di tutti i popoli. Dobbiamo dunque ricordare che questo collegamento, prima di esser un imperativo della ragion politica, è stato, nel tempo dell’Europa senza frontiere della Resistenza, un fatto di vita vissuta, testimoniato in modo indimenticabile dalla raccolta di lettere della Resistenza italiana e della Resistenza europea pubblicate in Italia da Einaudi. E dobbiamo tener presente che il fatto che la resistenza non è ancora finita si riflette in modo particolare nella formazione politica e culturale dei giovani. Ai giovani bisogna dire proprio questo: che la Resistenza non è finita.”
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