Ancora una volta, nella breccia!

, di Davide Emanuele Iannace

Ancora una volta, nella breccia!

Questo titolo iniziale, tratto dall’opera “Enrico V” di Shakespeare*, potrebbe apparire come il prologo di un elogio all’azione. All’azione di guerra, di violenza. Un elogio all’azione però lo vuole essere questo testo, solo che non dentro le mura fisiche di qualche città, piuttosto verso quelle morali ed etiche, che tanto si infrangono contro il senso della realpolitik moderna.

La decisione della Turchia di invadere la Siria, pochi giorni dopo la decisione del presidente americano Trump di ritirare le sue truppe dalla zona controllata dei curdi, non è nella realtà qualcosa di così insospettabile. Già da anni la Turchia mantiene un atteggiamento ostile verso le formazioni curde in Siria, anche in contemporanea alla lotta con il famigerato ISIS, e nel XX secolo PKK e forze di sicurezza turche si sono sanguinosamente confrontate.

Potremmo dire che forse era solo questione di tempo prima che Erdogan, alle prese con problemi interni di varia natura, decidesse di rilanciare la solita vecchia carta del “Curdo nemico” verso cui orientare la sua azione. Azione che non arriva dal niente, sia chiaro. Trump voleva portare via le truppe già un anno fa ed è solo per una serie di contrattazioni e scambi con la Turchia e le potenze regionali che ciò non è successo prima.

Ma cosa ci mostra, soprattutto, questa nuova esplosione di violenze? Da un lato una Turchia che, in preda alle sue fantasia neo-ottomane più varie, punta a imporsi come attore egemone lì dove le vecchie potenze russe e americane cominciano lentamente a ritirarsi, per prepararsi allo scontro con attori quali Israele, l’Iran e l’Arabia Saudita. Una Turchia che, esternalizzando i propri problemi, decide che è ora di invadere una delle poche sacche di stabilità nella regione, per ammortizzare i suoi tre e più milioni di profughi e dare nuova benzina nella macchina dell’ISIS, sempre pronta a esplodere. Una Turchia che sa di poterlo fare perché, come membro NATO, mantiene un piede in due scarpe, come ha dimostrato l’acquisto degli S-400 di produzione russa e che forse gli costeranno l’esclusione dal programma F-35 americano. Come dimostra anche l’azione nella zona di Cipro, dove vi è in corso la sfida tra Francia e Italia, tramite Total e Eni, e la Turchia per il grande giacimento di gas rivendicato sia dalla piccola isola mediterranea che da Ankara.

I migranti usati come merce di scambio e l’affiliazione NATO tenuta come bastone con cui colpire ora gli americani, ora gli europei, sono due degli strumenti con cui Erdogan prova a mantenere la sua corda stabile mentre avanza, spavaldo, contro i curdi.

L’altro lato di questa rinnovata violenza? La debolezza europea nel rispondere unilateralmente e decisivamente alla situazione corrente. Francia e Germania hanno deciso di vietare l’esportazione di equipaggiamento militare alla Turchia. La Spagna ha parlato di ritirare il suo contingente nel territorio turco a difesa delle basi NATO della stessa. Molti paesi, come anche l’Italia, hanno o convocato l’ambasciatore o son rimaste nel silenzio, impassibili, o meglio, spaventati, dinanzi la minaccia di perdere i soldi dei contratti militari e di doversi vedere “invadere” dai migranti che la Turchia minaccia di mandare verso le frontiere europee.

Quindi è questo che si è diventati? Degli ingordi spaventati da miserabili in fuga da un conflitto che, ironicamente, andiamo alimentando con la nostra inettitudine? Perché la visione, l’unica, che si può avere dell’Europa e dell’Unione oggi è questa. Un gruppo di inetti che, dinanzi una crisi dall’altra parte del cosiddetto “Mare Nostrum”, preferiamo chiuderci in un silenzio che sa di connivenza. Erdogan sta abilmente fingendo di tenere il coltello dalla parte del manico, ma è un animale più ferito che altro. La Turchia è in crisi, con problemi di stabilità interna, politica ed economica. Nonostante i suoi tentativi, Erdogan non è ancora riuscito a rispondere a molte delle problematiche che attanagliano la sua nazione. A livello estero si va isolando sempre di più, specie ora che la Russia inizia a vedere incrinare il suo sistema e l’Iran avanza spedito in Medio Oriente nel suo perenne confronto contro l’Arabia Saudita.

L’Europa ha tutte le ragioni del mondo per cominciare a colpire più duramente la Turchia. Vogliamo parlare pragmaticamente? I grossi giacimenti ciprioti potrebbero essere la perfetta soluzione alla dipendenza europea dai canali africani e russi di importazione energetica. Acquisirli vorrebbe dire diversificare e rendersi più indipendente da partner commerciali come la Russia.

Sempre pragmaticamente, la Turchia di Erdogan si comporta come un bisonte impazzito diretto verso una cristalleria. Se la Turchia un tempo era membro NATO anche in funzione di un ragionamento antisovietico, forse, nonostante la Russia esista e possa ancora essere considerata una minaccia (termine su cui, in un mondo non più bilaterale, forse bisogna tornare a riflettere), oggi il suo ruolo deve essere riconsiderato. Certamente non va buttata fuori, ma non è nemmeno nel loro interesse uscirne. La Turchia è un attore regionale consistente solo perché fa parte di un ombrello più grande.

Ma non parliamo di pragmatismo, parliamo anche solo di semplice umanità. L’attacco contro i curdi è gettare paglia in un focolare, vicino una fonte di benzina. La pace in Siria è sempre stata un obiettivo molto distante, ma non per forza impossibile. Trovare nuovi modi di organizzare la vita politica e culturale in quella regione allo stesso tempo è uno sforzo considerevole, che i curdi hanno provato a fare. La benzina, l’ISIS che è lì pronta a esplodere, avrebbe conseguenze molto più gravi per tutti. Sarebbe una rinnovata spinta di violenze a spirale nella zona, che sicuramente finirebbe per coinvolgere anche noi di nuovo.

Distruggere tutto questo vuol dire allontanare ancora di più delle possibili soluzioni per una zona troppo a lungo martoriata da guerra e morte. È vero che non è responsabilità nostra di imporre la pace e di imporre delle soluzioni, ma allo stesso tempo sforzarsi di fare in modo che le cose non peggiorino, mentre chi è lì trova le sue soluzioni, forse questo è qualcosa che possiamo fare, come europei.

L’Unione, questa volta, non deve muoversi separata. Deve prendere tutto il suo peso economico, politico e morale, e imporre alla Turchia la scelta di non proseguire. Non deve tergiversare, deve imporsi, senza paura, sui turchi per imporre la fine delle loro operazioni. Sanzioni economiche, ma anche semplicemente proibire il flusso turistico verso e dalla Turchia. Ogni soluzione che possa aumentarne la pressione è valida.

Non reagire vuol dire essere conniventi. Gli europei non sono giudici, questo è vero. Non sono i decisori della politica mondiale né devono esserli. Allo stesso tempo, però, che sia per pragmatismo o che sia per una scelta morale, questa volta si deve mettere un punto finale all’ennesima escalation di violenza, ora almeno che è ancora possibile.

Ne va del nostro senso come esseri umani. La breccia è in una fortezza, ma è la fortezza della nostra identità di europeisti, di europei, di eredi delle teorie illuministe e romantiche dei secoli scorsi. Quella breccia va riempita. Va rinnovata con la difesa del valore del diritto a vivere dei curdi, del diritto dei locali a cercare le loro soluzioni, non nostre né turche, né russe né americane, ma solo loro. È un po’ utopico, ma se non si puntasse all’utopia non sarebbe nemmeno possibile arrivare a metà strada.


* Enrico V, Atto Terzo, William Shakespeare.

Fonte immagine: Wikimedia.

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