Per chi nell’ultima settimana si fosse preso una pausa dai social, ecco brevemente cosa è accaduto: Aurora Leone e Ciro Priello, membri dei the Jackal, collettivo comico partenopeo, erano stati ufficialmente convocati per prendere parte alla partita del cuore, una partita di solidarietà e sostegno alla ricerca contro il cancro, organizzata e promossa dalla Nazionale Cantanti. Alla cena delle squadre, Aurora veniva “invitata” a cambiare tavolo da tale Gianluca Pecchini, referente della Nazionale Cantanti. No, non aveva sbagliato tavolo: era semplicemente del genere sbagliato per prendere parte alla partita. “Non farmi dire perché non puoi stare qua…il completino te lo metti in tribuna, da quando in qua le donne giocano a calcio?”, queste le dichiarazioni di tale personaggio, davanti alle quali Aurora e Ciro, dopo aver reagito, venivano allontanati dall’hotel e non prendevano parte all’evento.
Su questo episodio veramente triste vorrei poter non dire neppure una parola. Vorrei poterlo catalogare come l’ennesimo “caso isolato” e andare avanti con la prossima notizia (come sembra aver fatto l’intero sistema di informazione italiano, peraltro). Ma non posso, per due motivi: il primo è che sono, da sempre, una grande appassionata di calcio, e ho “respirato” troppo di questo ambiente per poter far finta di nulla; il secondo, come dicevo, è che l’episodio in sé, oltre al dispiacere, non mi ha affatto stupita. E vorrei spiegare il perché.
Il fatto è che sono abituata, ormai da anni, a sentire questo tipo di frasi nei più svariati contesti, dal campetto dell’oratorio fino a un livello più o meno istituzionale. Il calcio è uno sport che, nell’immaginario collettivo, è essenzialmente maschile. Come se le gambe e i piedi per colpire la palla li avessero solo gli uomini. È quasi patrimonio di virilità, tale per cui ogni bambino/ragazzo/uomo DEVE avere la sua squadra del cuore: non può prendere le distanze da un mondo che, semplicemente, non può non interessargli e appartenergli. Una donna, invece, è meglio che stia nel suo.
E, se proprio deve tifare, che lo faccia in maniera discreta. Lo faccia per solidarietà con i membri maschi della famiglia, con i fratelli, con il partner. Guai a simpatizzare per una squadra diversa. Guai, soprattutto, a voler esprimere un’opinione tecnica sul gioco.
Io sono tifosa della Juventus, e vi assicuro che, in certi ambienti, dirlo è stato un problema. Spesso mi capita di esprimere un’opinione sul modo di giocare di quel giocatore, sulle sostituzioni di quell’allenatore, sul perché il tale acquisto per quella squadra non è funzionale. Opinioni di una tifosa qualsiasi che, però, spesso ricevono un feedback del tipo “torna in cucina”, “il calcio non è per te”, fino ad insulti a sfondo sessuale e sessista che evito di riportare. Perché? Semplicemente, in quell’ambiente, la mia opinione vale meno di quelle degli altri. Perché sono una ragazza. Lo trovo paradossale, tra l’altro in un momento storico in cui chiunque sia in possesso di una connessione internet si sente in diritto di dire la sua su qualsiasi cosa.
In Europa, le cose sono molto diverse. Lo sanno bene Elena Linari (ora rientrata in patria, con la maglia della Roma), Tatiana Bonetti e soprattutto Alia Guagni, stella indiscussa della Nazionale, che hanno deciso di lasciare l’Italia per cimentarsi in un’avventura all’estero. Guagni, soprattutto, dopo una vita passata da leader e capitano della Fiorentina Women, ha sposato il progetto dell’Atletico Madrid femenino, dove, al netto degli infortuni, si è ritagliata un ruolo da protagonista.
I maggiori top club europei (oltre all’Atletì, ad esempio, Barcellona, Chelsea, Manchester United, Lione, Paris Saint Germani) hanno investito da tempo nel calcio femminile, ottenendo risultati straordinari, non solo in termini sportivi: negli incontri di calcio femminile spagnolo, specialmente quelli della prestigiosa Copa de la Reina, gli stadi registrano puntualmente il “tutto esaurito”.
Il calcio femminile è ancora più prestigioso negli Stati Uniti, dove, al contrario che nel nostro paese, il calcio (soccer) è uno sport tipicamente femminile. Alex Morgan, Megan Rapinoe e compagne sono considerate idoli assoluti nel nuovo continente, ben più famose e vincenti dei colleghi uomini. La nazionale statunitense ha vinto ben quattro campionati mondiali (un record), di cui l’ultimo in Francia due anni fa, e le sue giocatrici sono ormai icone dello sport mondiale, vincendo ogni premio individuale disponibile. Anche queste ragazze, oggi, lottano per rivendicare equità salariale rispetto agli atleti uomini, ma hanno una fanbase popolare assolutamente dalla propria parte.
In sintesi: nessuno, fuori dall’Italia, oserebbe dire ad una donna che il calcio non fa per lei.
Questo codice machista è, al contrario, tipicamente italiano: una sorta di regola non scritta che pone i calciatori e gli appassionati maschi in una posizione di naturale superiorità rispetto a soggetti che, per natura, non possono farne parte. È l’ennesima polarizzazione e stereotipizzazione di genere: i maschietti giocano con la palla e le femminucce con le bambole. Un ragazzo la sera va a calcetto, una ragazza prepara la cena: mai che accada il contrario. E quando ci sono le partite, care signore, non rompete i coglioni: portateci la birra sul divano e arrivederci.
Quando smetteremo di dividere il mondo in base al genere? Gli uomini e le donne che aderiscono, anche inconsciamente, a questo sistema culturale finiscono per esserne naturali vittime, dal momento che continueranno ad esistere cose che possono fare solo gli uni e cose che possono fare solo le altre. Ad esempio, è opinione comune, come un senatore della Repubblica ha recentemente affermato, che le donne siano naturalmente più adatte per i “ruoli di accudimento”: ebbene, cari papà, questo è il motivo per cui, molto probabilmente, in caso di separazione o divorzio, vostra moglie otterrà la collocazione permanente dei vostri figli e la conseguente assegnazione della casa familiare. In quanto uomini, per natura, non sarete mai dei genitori migliori delle donne. Fa male, eh?
Ciò che è successo ad Aurora non è un episodio. Non è un malinteso, come lo ha definito la stessa Nazionale Cantanti. È il risultato di una discriminazione di genere che avviene sistematicamente nel mondo del calcio italiano, ai danni delle donne. Delle donne tifose, ma anche, in maniera ancora più grave, delle donne che vivono di calcio.
Provate a nominare a un tifoso dell’Inter il nome Wanda Nara. Non esiterà a darle della “poco di buono” (e sono stata gentile) in meno di due secondi.
Wanda Nara è una showgirl argentina sposata con Mauro Icardi, ex capitano dell’Inter, ora in forza al Paris Saint Germain. Fino a qui tutto bene: donna bellissima, moglie di un calciatore di successo, lavoro in linea con l’aspettativa sociale. Ottima per fare la comparsa nelle foto su Instagram e alle cene di Natale della società.
Wanda Nara, però, è anche procuratrice di suo marito. Ne cura gli interessi professionali nel rapporto con il club di appartenenza. Così, quando Maurito si rifiuta di rinnovare il contratto, vuole un aumento di ingaggio o vuole cambiare squadra, la colpa è di Wanda Nara: una seduttrice infida che punta solo ai soldi a scapito degli interessi del marito, ignara vittima.
Probabilmente, se fosse un uomo, diremmo che è una professionista che fa il suo lavoro. Ma tant’è.
C’è un altro motivo per cui non mi sono stupita davanti all’ignoranza del signor Pecchini: le donne sono ignorate dalla quasi totalità delle istituzioni calcistiche nazionali. Soprattutto le donne che giocano. Vengono “tollerate”, le lasciano fare per non sembrare troppo oscurantisti, ma in fondo le guardano come se fossero uscite dal laboratorio di Frankenstein. E sempre a condizione che non se ne parli troppo.
Correva l’anno 2015 quando tale Belloli, presidente della Lega Nazionale Dilettanti, apostrofava le calciatrici italiane come “quattro lesbiche”, così motivando il diniego di investimenti economici nel settore calcio femminile. L’allora numero uno della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Carlo Tavecchio, era pure noto ai media, ben prima di diventare presidente della Federazione, per dichiarazioni dello stesso tenore: nel 2014, nel corso di un’intervista, parlò espressamente di “donne handicappate nel calcio sulla resistenza, sul tempo ed espressione anche atletica”. Come osano chiedere sostegno e visibilità?
E anche in questa occasione, se ad Aurora Leone non è mancato il sostegno di tantissimi personaggi dello show business, è stato assordante il silenzio dei calciatori uomini, soprattutto dei componenti della Nazionale di calcio. A parte l’ex capitano Gigi Buffon, nessuno dei calciatori in attività ha scritto o detto una parola di solidarietà. Coincidenze? Io non credo.
Eppure, le ragazze giocano. E giocano bene.
Quest’anno la Juventus Women ha vinto il quarto campionato italiano di fila, vincendo 22 partite su 22. Quasi nessuna delle maggiori riviste sportive ha dedicato più di un trafiletto a questa impresa sportiva. Paradossale, se si pensa ai risultati deludenti della squadra maschile in questa stagione.
Nel 2017, la Nazionale maschile, guidata da Giampiero Ventura, falliva la qualificazione ai campionati mondiali da disputare in Russia l’estate successiva, dopo una partita senza reti contro una Svezia non irresistibile.
Nel 2018, la Nazionale femminile, guidata da Milena Bertolini, si qualificava per la prima volta nella storia ai campionati mondiali, arrivando poi tra le prime otto squadre del torneo. Nel corso della competizione, le azzurre hanno battuto corazzate come Australia, Brasile e Cina, e sono state eliminate soltanto ai quarti di finale dall’Olanda, poi seconda classificata.
Nonostante i risultati sportivi obiettivamente straordinari, soprattutto alla luce della scarsità di investimenti economici nel settore da parte delle istituzioni preposte, queste ragazze continuano ad essere ignorate. Al punto che, ancora oggi, per il calcio italiano sono delle dilettanti: non hanno lo status di atlete professioniste. La Federazione Italiana Giuoco Calcio ha programmato l’approdo al professionismo nel 2023: meglio tardi che mai, intendiamoci, ma è un altro segnale di assoluta incoerenza rispetto ai risultati che le donne raggiungono sul campo ogni domenica.
Le calciatrici, quindi, non guadagnano milioni come i colleghi uomini, nonostante si allenino esattamente come loro. Cristiano Ronaldo, capocannoniere in carica della Serie A maschile, guadagna 31 milioni di euro netti l’anno; Cristiana Girelli, capocannoniera in carica della Serie A femminile, guadagna circa 40.000 euro lordi l’anno.
Fino a pochi anni fa, il calcio femminile era un investimento a fondo perduto da parte di pochissime società, in mano a magnati “illuminati” e lungimiranti: oggi, molti club di Serie A hanno investito e creato, accanto alle squadre maschili, la sezione femminile. Questo significa, per le atlete, possibilità di allenarsi a livello professionale, con preparatori adeguati e adeguata assistenza medica e fisioterapica in caso di infortunio. Ma non sono comunque delle professioniste.
Molte di loro sono laureate o seguono corsi di istruzione avanzata che portano avanti “nel tempo libero”: un’eccezione nel mondo maschile, la normalità nel calcio femminile. E non perché la passione calcistica sia marginale, nella loro vita, ma perché un infortunio più grave del previsto può costringerle al ritiro in qualsiasi momento. E senza garanzie professionistiche ciò può significare non sapere di che vivere dall’oggi al domani. Un’altra strada va preparata.
Uno degli infortuni più critici nel mondo del calcio, la rottura del legamento crociato, è, secondo recenti studi, il doppio/il triplo più frequente nel calcio femminile, rispetto al calcio maschile. Questo significa che, in una stagione, ogni squadra femminile sa che, da un momento all’altro, potrebbe non contare su atlete fondamentali: è successo alla Juventus con Rosucci e Salvai, alla Fiorentina con Adami e alla Roma con Hegerberg. Oggi queste atlete possono godere dell’assistenza medica dei club maschili di appartenenza: fino a pochi anni fa, questi infortuni potevano interrompere la loro carriera.
Qualche settimana fa, ha fatto scalpore la notizia che Barbara Bonansea, colonna della Juventus e della Nazionale, è entrata a far parte degli atleti rappresentati dal procuratore Mino Raiola, noto “squalo” del settore per via dei trasferimenti shock realizzati con i suoi assistiti nel corso della carriera. Nonostante il Lione sembrasse molto interessato, la Bonansea non lascerà la Juventus a fine stagione, essendosi vista rinnovare il contratto: essere rappresentata da Raiola significa, comunque e con molte probabilità, ottenere una miglior situazione tanto economica che di ruolo. È un’opportunità, ma è anche un segnale: le donne sanno giocare a calcio e, soprattutto, i soldi sono gender neutral (quanti milioni di commissione riceverà Raiola a seguito del rinnovo di Bonansea?).
Le donne non hanno nulla da dimostrare al mondo del calcio, ma devono pretendere di essere considerate motore di questo sport, di potersi sedere a quella tavola e anche, giustamente, condividerne i guadagni. Mi vengono in mente le “quote rosa”, tanto avversate perché costituiscono “discriminazione al contrario”: la verità è che non puoi vincere ad un gioco al quale non partecipi. Non puoi prendere la parola ad una tavola alla quale non sei invitata. E questo significa sempre meno visibilità e meno attenzione: in ultima analisi, meno diritti.
Per questo è importante, davanti a fatti come quello accaduto ai danni di Aurora Leone, parlarne e prendere posizione. Non solo per non avere la coscienza sporca, ma per segnalare quanto profondamente iniquo sia ancora oggi il mondo che viviamo per una bambina, ragazza, donna. E quanto lavoro c’è da fare, prima che nella legislazione, nella cultura e nella mentalità di ciascuno di noi, per costruire una società, nello sport così come negli altri settori, che sia portatrice di valori sani: uguaglianza, inclusività e pari opportunità.
P.S.: alla fine, il primo tempo della partita del cuore si è giocato tra Nazionale Cantanti e Juventus Women. Dopo dieci minuti, le ragazze vincevano già due a zero.
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