Brexit: il significato di un voto

, di Roberto Castaldi

Brexit: il significato di un voto

Il Regno Unito uscirà dall’Unione europea. Il voto britannico può essere analizzato da molte prospettive e avrà implicazioni da molti punti di vista a diversi livelli di analisi.

Dal punto di vista storico abbiamo forse assistito in diretta all’esperimento del suicidio politico di un intero Stato. Nel momento in cui esce dall’Unione, il Regno Unito probabilmente si avvia a smettere di essere tale. In Scozia e in Irlanda del Nord ha prevalso nettamente il Remain. La prima ministra scozzese ha già dichiarato l’intenzione di convocare un nuovo referendum per l’indipendenza e la permanenza nell’UE. La Scozia avrebbe un grande interesse a figurare come Stato successore del Regno Unito senza dover aprire un complesso negoziato per l’adesione. E insieme all’Irlanda potrebbe attirare molte imprese che avevano scelto l’Inghilterra come propria base dentro al mercato unico europeo anche per ragioni linguistiche. L’idea di ripristinare i confini tra Irlanda e Irlanda del Nord potrebbe portare a un ritorno della violenza in un contesto particolarmente fragile, da parte degli indipendentisti irlandesi, in nome della riunificazione dell’isola nel quadro dell’UE.

Il Regno Unito aveva un enorme interesse politico ed economico a rimanere nell’UE. Tutte le organizzazioni internazionali, i think tanks, i centri studi segnalavano costi significativi e conseguenze nefaste in caso di Brexit. Boris Johnson ha risposto semplicemente “fidatevi, si sbagliano”. La Modernità si è fondata in larga misura sulla fede nella ragione. Nella post-modernità della ragione si diffida. Ma si sbaglierebbe a pensare semplicemente che ha prevalso la “pancia” sulla “testa”. Ha prevalso una “pancia” educata da secoli nel quadro di una cultura politica e di un senso di identità dominanti, che non sono più nemmeno percepiti come “una cultura”, ma come un fatto naturale: il nazionalismo. La campagna del Leave è stata incentrata sull’attacco ai migranti (europei), sull’orgoglio nazionale e il richiamo ad una sovranità assoluta di stampo ottocentesco, sulla sollecitazione delle pulsioni alla chiusura, sul “noi” contro gli altri – come ai bei tempi della Seconda Guerra Mondiale, in “the finest hour”. E nel richiamo bellicoso dell’esaltazione del “noi” contro gli altri, chi la pensa diversamente può finire per essere considerato un traditore, come riteneva l’assassino di Jo Cox - e come sostengono i “no-euro” italiani che intendono creare dei tribunali speciali contro i traditori della patria una volta giunti al potere.

Oggi passa alla storia David Cameron, che rischia di venir ricordato come l’ultimo primo ministro del Regno Unito nella sua composizione attuale, l’uomo che in un colpo solo ha avviato la distruzione del Regno Unito e dell’Unione Europea. Vittima dei sondaggi e dell’interazione sempre pericolosissima tra politica nazionale e politica europea. Per tenere unito il partito conservatore prima delle politiche – che non pensava affatto di vincere – ha promesso il referendum contando di governare con i liberali che gli avrebbero impedito di tenerlo. Invece ha vinto e ha dovuto indirlo, costruendo da solo il palco su cui sarebbe stato impiccato. E dopo aver sparato contro l’UE per anni e negoziato un accordo speciale per il Regno Unito si è improvvisamente accorto di dover fare campagna per il Remain, e dover difendere la stessa UE che aveva usato come capro espiatorio per anni. Impresa difficile, specialmente considerato che il Regno Unito è sempre stato un membro riluttante dell’UE – entrò perché economicamente non se ne poteva fare a meno - e fallita.

L’Unione riceve un ulteriore colpo alla sua credibilità. Dopo 66 anni in cui gli Stati si sono sempre e soltanto aggiunti, passando da 6 a 28, ora uno Stato decide di uscire, mostrando che l’UE è percepita sempre più come parte del problema invece che della soluzione. L’UE è un progetto incompiuto. Non è (ancora?) una vera federazione, ma è già un sistema di governo multi-livello. Vincola gli Stati membri, ma non offre adeguate politiche federali. È l’unico livello di governo a cui si potrebbero affrontare le grandi sfide epocali con cui dobbiamo confrontarci – terrorismo, sicurezza, stabilizzazione del vicinato, rilancio dell’economica, sfida ambientale – ma non dispone in realtà dei poteri e delle competenze necessarie, e quindi alimenta aspettative che vengono frustrate nei fatti.

Ma in concreto con la Brexit cambia poco. Il Regno Unito era già fuori da quasi tutto con opting out specifici – dalla moneta unica, dalla Carta dei diritti fondamentali, dalla giustizia e gli affari interni, e in parte da Schengen - e in sostanza partecipava solo al mercato unico come Norvegia e Svizzera, che sono fuori dall’UE, ma sono obbligate a rispettarne le norme e a contribuire al bilancio dell’UE. Se vorrà continuare a partecipare al mercato unico il Regno Unito dovrà fare un accordo analogo paradossalmente. Invece di essere più indipendente e autonomo, lo sarà meno, dovendo implementare regole che non avrà contribuito a scrivere, e dovendo continuare a contribuire all’odiato bilancio comunitario – che è un misero 0,9% del pil europeo! L’UE ha interesse a offrire al Regno Unito degli accordi fotocopia rispetto a Norvegia e Svizzera, o peggiori, per evitare di creare incentivi all’uscita. E la Gran Bretagna si troverà presto nella condizione di dover rinegoziare da una posizione di debolezza accordi commerciali con tutto il mondo, visto che non le si applicheranno più quelli dell’UE. I cittadini britannici rischiano di pagare un prezzo assai salato per la loro scelta in termini economici. I cittadini europei che vivono nel Regno Unito potranno avere dei contraccolpi – al termine del negoziato per l’uscita – e lo stesso per i cittadini britannici nei Paesi europei.

Gli Stati meno favorevoli all’integrazione hanno oggi perso il loro leader e la loro posizione è paradossalmente indebolita dal successo euroscettico di Farage e Johnson. Lo UKIP ha vinto la sua battaglia e perso la sua ragion d’essere, e difficilmente potrà sopravvivere come forza autonoma nel lungo periodo. Per Olanda, Danimarca, Ungheria, Polonia era possibile fare fronte comune dietro la leadership britannica, ma ora sarà molto più difficile.

Gli Stati più europeisti hanno perso il loro alibi. Non potranno più dire “vorremmo più integrazione ma il Regno Unito frena”. Renzi, Merkel e Hollande hanno fatto spesso grandi discorsi sul “rilancio dell’integrazione”, sull’unione politica, sulla visione di Spinelli. Tutti dicono che l’UE va cambiata. Ora si vedrà se erano solo chiacchiere. Hanno una straordinaria finestra di opportunità per trasformare una crisi di rigetto di questa Unione incompleta e imperfetta, nell’avvio di un percorso per renderla più completa e perfetta – che era il compito che gli americani si diedero nella Convenzione di Filadelfia.

A breve vedremo se saranno i governi nazionali degli Stati maggiori o le istituzioni sovranazionali europee, a partire dal Parlamento, a prendere l’iniziativa politica di rispondere a questa crisi di consenso dell’Unione. Il rischio più grande è che tutti cerchino rapidamente di rimuovere il problema e tornare al “business as usual”. Sarebbe la dimostrazione che in Europa non vi sia più una leadership politica in grado di prendere l’iniziativa al riguardo. E giocando solo sulla difesa di uno status quo insoddisfacente aprirebbero la strada all’affermazione dei populismi in tutte le salse. Il processo di crisi della civiltà europea moderna – testimoniato dalle pulsioni alla chiusura di stampo xenofobo e nazionalista, di cui l’omicidio di Jo Cox è un esempio eclatante – ne risulterebbe accelerato. Perché nel mondo globale contano solo gli Stati di dimensione continentale – come USA, Cina, India, Russia, tutti più grandi dell’intera UE – e la scelta per gli europei continua ad essere “unirsi o perire” come ricordavano tra gli altri i britannici Lord Beveridge e Toynbee.

1. Articolo pubblicato originariamente sul blog Noi, Europei

2 Fonte immagine Publicdomainpictures

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