Facundo Alvaredo, Lucas Chancel, Thomas Piketty , Emmanuel Saez (Coordinated by) WORLD INEQUALITY REPORT 2018 World Inequality Lab, 2017
Obiettivo del Rapporto, dedicato alla memoria di Tony Atkinson, è di colmare un vuoto democratico fornendo misure recenti, complete, sistematiche e trasparenti al dibattito pubblico sulla disuguaglianza. Non è quello di mettere tutti d’accordo poiché non esiste una verità scientifica sul livello ideale di disuguaglianza. Questa difficile decisione spetta alla deliberazione pubblica e alle istituzioni politiche, sulla base d’informazioni rigorose sul reddito e sulla ricchezza.
La metodologia seguita consente di mettere in relazione i trends micro-economici della disuguaglianza (redditi individuali, trasferimenti governativi, ricchezza personale e debito) con i fenomeni macro-economici (come le politiche di nazionalizzazione e di privatizzazione, l’accumulazione di capitale, e l’evoluzione del debito pubblico). A tal fine, anche per superare l’indisponibilità di dati ufficiali di alcuni Paesi, gli Autori hanno combinato, in modo sistematico e trasparente, dati provenienti da fonti diverse.
Le serie presentate nel Rapporto si fondano sullo sforzo collettivo di un centinaio di ricercatori, rappresentanti tutti i continenti, che contribuiscono al WID world database.
Le principali indicazioni nuove fornite dal Rapporto sono le seguenti.
La disuguaglianza di reddito varia molto da regione a regione, col minimo in Europa e il massimo nel Medio Oriente. Assumendo come misura la quota del reddito nazionale destinata al 10% più ricco della popolazione, si hanno questi risultati: Europa 37%, Cina 41%, Russia 46%, US-Canada 47%, Africa sub-Sahariana 54%, Brasile 55%, India 55%, Medio Oriente 61%.
Negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata in quasi tutti i Paesi ma con differenti velocità. Ciò segnala l’influenza sulla disuguaglianza d’istituzioni e politiche. Dal 1980 al 2016 la disuguaglianza di reddito è aumentata rapidamente in Nord-America, Russia, Cina e India mentre è aumentata moderatamente in Europa. La divergenza fra i livelli di disuguaglianza degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale, minima nel 1980, si è drammaticamente allargata nel 2016. Le cause principali dell’impennata della disuguaglianza negli Stati Uniti sono da ricercarsi nelle massicce differenze educative, nel sistema fiscale sempre meno progressivo, nella crescita smisurata delle remunerazioni dei top-managers e nel rendimento del grande capitale. La Russia ha risentito del passaggio improvviso dal sistema pianificato a quello de-regolamentato. In prospettiva storica si può costatare ovunque la fine del regime ugualitario del dopoguerra. In Medio-Oriente, Africa sub-Sahariana e Brasile, dove il regime ugualitario non si era mai installato, la disuguaglianza è rimasta stabile a livelli altissimi.
L’aumento del reddito globale registrato fra il 1980 e il 2016 è stato distribuito in modo assai inuguale. La quota riservata all’uno per cento più ricco della popolazione è stata il doppio di quella destinata al 50% più povero, che tuttavia ha avuto un importante incremento di reddito grazie alla crescita della Cina e dell’India. La quota ricevuta dalla classe media, che include tutti i gruppi a basso e medio reddito degli Stati Uniti e dell’Europa, è stata prossima allo zero. Dal 2000 si è registrata una correzione del trend, a livello globale, per effetto della riduzione della disuguaglianza di reddito medio tra i Paesi, mentre la disuguaglianza all’interno dei Paesi ha continuato ad aumentare.
Quota di reddito nazionale Stati Uniti Europa occ. Globale
Top 1%
1980 10% 10% 16%
2016 20% 12% 20%
Bottom 50%
1980 20% 24% 8%
2016 13% 22% 10%
La disuguaglianza di reddito dipende fortemente dall’ineguale proprietà del capitale, privato o pubblico. Il rapporto dimostra che, nel periodo 1970-2015, si sono verificati ingenti spostamenti di ricchezza dal settore pubblico a quello privato in quasi tutti i Paesi. Mentre la ricchezza nazionale (privata e pubblica) è aumentata sostanzialmente, quella pubblica è ora negativa o prossima a zero nei Paesi ricchi. Ciò limita la capacità dei governi di contrastare le disuguaglianze e certamente peggiora la distribuzione della ricchezza fra le persone.
In ordine decrescente di ricchezza privata 2015, per alcuni Paesi, il fenomeno è quantificato come segue.
– In Spagna, la ricchezza privata è cresciuta da 4 volte il pnl nel 1970 a 6,5 volte nel 2015 (con un picco a 7,5 nel 2007), mentre quella pubblica (al netto del debito) è scesa da 0,75 volte a zero;
– nel Regno Unito, la ricchezza privata da 3 volte il pnl nel 1970 a 6,3 nel 2015; quella pubblica da 0,8 a -0,2;
– in Giappone, la privata da 3 a 6 (picco oltre 7 nel 1990), la pubblica da 0,8 a 0,2;
– in Francia, la privata da 3 a 5,9, la pubblica da 0,4 a 0,2;
– negli Stati Uniti, la privata da 3,25 a 5, la pubblica da 0,3 a -0,2;
– in Germania, la privata da 2,3 a 4,3, la pubblica da oltre 1,0 a 0,2.
Grandi incrementi della ricchezza privata si sono registrati anche in Cina e in Russia, per effetto della transizione dal comunismo a economie orientate al capitalismo. I livelli attuali si avvicinano a quelli osservati nei Paesi ricchi. Per contro la ricchezza pubblica si è dimezzata. Le sole eccezioni al declino generale della proprietà pubblica sono i Paesi petroliferi che hanno istituito ricchi fondi sovrani, come la Norvegia.
La disuguaglianza di ricchezza fra gli individui è aumentata dal 1980 a velocità differenti nei diversi Paesi, così come già visto per il reddito, mentre dal 1913 al 1980 si era fortemente ridotta. Assumendo come misura la quota di ricchezza privata detenuta dal primo centile della popolazione, si verificano i seguenti andamenti:
1913 1980 1995 2015
Russia nd nd 21% 43%
Stati Uniti 45% 23% 28% 37%
Cina nd nd 17% 30%
Francia 55% 17% 20% 23%
Regno Unito 67% 18% 17% 20%
Il rapporto proietta le differenze di reddito e di ricchezza al 2050 in due scenari. Nel primo, “business as usual”, la disuguaglianza globale aumenta ulteriormente. Nell’ipotesi, invece, che tutti i Paesi seguano la traiettoria moderata dell’Europa, si può ridurre la disuguaglianza globale ed eliminare la povertà.
In termini di quota della ricchezza globale detenuta dalle diverse classi di reddito, le previsioni del Rapporto – nella prima ipotesi - sono condensate nella tabella seguente (il mondo è rappresentato da Cina, Europa e Stati Uniti).
1980 2016 2050
Business as usual
Top 1% 28% 33% 39%
Top 0,1% 10% 16% 26%
Top 0,01% 3% 8% 17%
40% Global middle class 29% 28% 25%
In questo scenario la concentrazione della ricchezza al top comporta una compressione della classe media, tanto che nel 2050 lo 0,1% più abbiente della popolazione potrebbe detenere una quota di ricchezza superiore a quella del 40% medio.
Se tutti i Paesi seguissero il trend degli Stati Uniti, la quota di ricchezza del primo centile raggiungerebbe il 28% nel 2050, mentre la quota detenuta dal 50% meno abbiente scenderebbe al 7%. Se, invece, seguissero il trend europeo, il primo centile dovrebbe “accontentarsi” del 19% e il 50% meno fortunato salirebbe al 13% della ricchezza globale.
Per capire meglio, in euro (a parità di potere d’acquisto senza inflazione), il reddito medio di un individuo appartenente al 50% inferiore sarebbe, nel 2050, di € 4.500 se tutti i Paesi seguissero il trend americano, di € 6.300 se ogni Paese seguisse il proprio trend e di € 9.100 se tutti i Paesi seguissero il trend europeo.
Contrastare le disuguaglianze di reddito e di ricchezza richiede importanti cambiamenti nelle politiche fiscali nazionali e globali, nelle politiche educative, nella corporate governance, nelle politiche salariali e nella trasparenza dei dati.
La progressività delle imposte è uno strumento efficace per combattere la disuguaglianza, ma essa è stata pesantemente ridotta nei Paesi ricchi e in alcuni Paesi emergenti. Questa tendenza negativa si è arrestata, e in alcuni casi invertita, soltanto dopo la crisi finanziaria globale del 2008.
Anche le imposte di successione sono inesistenti o irrisorie nei Paesi emergenti ad alta disuguaglianza.
Un registro della proprietà delle attività finanziarie sarebbe molto efficace per combattere l’evasione fiscale, il riciclaggio e le crescenti disuguaglianze. Si calcola che la ricchezza nei paradisi fiscali rappresenti più del 10% del pnl mondiale. Per secoli si sono tenuti registri della proprietà terriera e immobiliare, mentre ampie porzioni della proprietà finanziaria non sono rilevate.
Un accesso più paritario all’educazione, quindi a occupazioni retribuite meglio, migliorerebbe le possibilità del 50% più povero della popolazione. C’è un fossato fra il discorso pubblico sulle uguali opportunità e la realtà dell’accesso disuguale all’istruzione. Negli Stati Uniti solo 20-30 ragazzi su 100 i cui genitori appartengono al decile più povero vanno al college, contro 90 su 100 del decile più alto. Sarebbe necessario modificare i sistemi di ammissione e di finanziamento per rendere possibile un accesso più uguale all’educazione.
Neanche l’accesso all’educazione, però, può contrastare la disuguaglianza senza meccanismi che assicurino l’accesso a occupazioni ben retribuite. A tal fine, una migliore rappresentanza dei lavoratori negli organi di corporate governance e salari minimi dignitosi sono strumenti importanti.
Sono necessari investimenti pubblici per l’educazione, la salute e la protezione ambientale, ma i governi dei Paesi ricchi sono diventati poveri e molto indebitati. Perciò occorre ridurre il debito pubblico - secondo il Rapporto - con ogni mezzo, inclusi l’imposta patrimoniale, la ristrutturazione del debito e l’inflazione.
Fin qui i principali risultati del Rapporto, a livello di Executive Summary e Conclusions ma tutto il Rapporto merita una lettura per i numerosi spunti di riflessione che offre. La prima parte illustra la metodologia seguita e le ragioni per cui è stata ritenuta inadeguata la tradizionale misurazione della disuguaglianza con l’indice di Gini. La seconda illustra i trends della disuguaglianza di reddito tra i Paesi (in diminuzione dal 2000 per effetto dello sviluppo di Cina e India) e nei Paesi (in costante crescita) con analisi per ciascuno di essi. La terza illustra le dinamiche d’impoverimento pubblico e di arricchimento privato. La quarta si occupa della disuguaglianza di ricchezza a livello globale e in quattro Paesi: Stati Uniti, Francia, Spagna e Regno Unito. La quinta infine presenta le idee degli Autori sulle azioni di contrasto alla disuguaglianza che dovrebbero essere intraprese.
Formulo alcune osservazioni solo su quest’ultimo punto, trattandosi di opinioni.
La progressività dell’imposta sui redditi sarebbe certamente lo strumento più efficace di redistribuzione, se non fosse - come nota il Rapporto stesso - per l’evasione e per l’enorme patrimonio occultato nei paradisi fiscali. Si può aggiungere che il peso dell’imposta può essere trasferito dai soggetti più forti, che possono fissare il prezzo dei propri prodotti o prestazioni, a quelli più deboli, privi di potere di mercato. L’imposta progressiva rischia così di essere un’ipocrisia, sia quando usata a sinistra, per dimostrare l’intenzione di redistribuire, sia quando usata a destra, per sostenere che, con aliquote più basse, il gettito fiscale sarebbe più alto (Laffer). Resta che un’operazione di redistribuzione implica la tassazione dei ricchi a vantaggio dei poveri ed è ottenibile solo con un’azione concertata degli Stati contro l’evasione e i paradisi, molto più decisiva di un incremento delle aliquote sui redditi più alti. Qualcosa, in questa direzione, è stato fatto in ambito OCSE, col sostegno del Presidente Obama, che tuttavia sembra improbabile possa essere rinnovato dal suo successore.
Anche l’imposta patrimoniale e quella di successione soddisfano l’esigenza redistributiva, ma il solo annuncio in un Paese – senza un’azione concertata a livello mondiale - provocherebbe una fuga di capitali, tanto più ora che i mercati finanziari sono completamente liberalizzati. In caso di loro applicazione sarebbe comunque utile consentirne il pagamento non monetario, con una parte degli assets posseduti. Si eviterebbe così un’ondata di vendite sul mercato.
Una redistribuzione finanziata col debito pubblico sarebbe a carico delle prossime generazioni, non da ricchi a poveri, ma da figli a padri col risultato certo d’impoverire ulteriormente i meno fortunati delle generazioni a venire. La stessa critica si può muovere al finanziamento della redistribuzione mediante inflazione poiché è provato che lo strumento perverso di alterare la lunghezza del metro monetario è pagato dai consumi, dai salari, dai redditi fissi, dal piccolo risparmio, dai soggetti meno dotati di potere di mercato.
Come ha osservato Alfonso Iozzo, una possibile via d’uscita, da approfondire e dibattere, è di accumulare un patrimonio pubblico che consenta, secondo il progetto di James Meade, di “pagare un dividendo sociale esente da imposta come strumento per ridurre le disuguaglianze, incentivare l’assunzione di rischio e l’accettazione delle basse retribuzioni e per semplificare il sistema dell’assistenza sociale”. L’esempio portato da Iozzo è quello del fondo sovrano istituito dalla Norvegia per l’impiego del patrimonio derivante dall’estrazione del petrolio, con l’obiettivo di distribuire alla generazione presente solo una parte del reddito prodotto (nel limite massimo del 4%), mantenere integro il patrimonio e distribuire alle nuove generazioni un “dividendo sociale”. Tra i beni ambientali che possono passare ”da res nullius a patrimonio comune da valorizzare” non c’è soltanto il petrolio, ma la ricerca e tutte le iniziative finanziate con risorse pubbliche.
L’ambiente stesso dovrebbe essere tutelato con una carbon tax il cui gettito consenta: 1) di eseguire gli investimenti pubblici per il ripristino e la tutela ambientale, 2) di compensare le fasce più deboli per l’aumento di costo della vita derivante dall’accisa e 3) di alimentare un fondo pubblico, i cui rendimenti siano destinati alla distribuzione di carbon dividends per le generazioni future. Una proposta simile a quella di Iozzo è stata formulata dai massimi economisti americani (quarantacinque tra premi Nobel ed ex banchieri centrali). Essi prevedono, però, di ridistribuire l’intero gettito ai cittadini, preferendo così i consumi della generazione presente alla sostenibilità intergenerazionale.
In conclusione, non si può pensare di combattere le disuguaglianze - cioè di affermare l’uguaglianza degli esseri umani - senza un pensiero politico attivo di cui Albertini, già nel 1988, vedeva due possibili fonti nelle forze morali: il pacifismo (la guerra è una delle principali cause di miseria, sofferenza, migrazioni e morte; il pacifismo implica l’idea, non ancora sviluppata, dell’organizzazione politica della specie umana) e l’ecologismo (i disastri ambientali hanno conseguenze altrettanto gravi delle guerre; l’ecologismo implica una pianificazione economico-territoriale a livello del pianeta). Il federalismo, come teoria generale dell’evoluzione storica, risponde anche alla domanda che pertiene al nostro tema: il contrasto della disuguaglianza dovrebbe essere gestito da un Leviatano mondiale o non piuttosto da un sistema di governo multilivello, capace di avvicinarsi il più possibile alle singole situazioni di bisogno?
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