Crescita, crescita, crescita?

, di Tommaso Rughi

Crescita, crescita, crescita?

Circa due settimane fa mi trovavo in Germania, in particolare all’Università di Leipzig per la quarta conferenza internazionale della Decrescita. Non che questo possa interessare più del dovuto i lettori di Eurobull: la cosa essenziale è che, seppur con analisi e ricette talvolta in contrasto tra di loro, ho avuto l’impressione di parlare di problemi un po’ più concreti di quelli che si affrontano al momento nella maggior parte dei dibattiti pubblici. In fondo, la soluzione che più fa tendenza in questo periodo è: crescita! E’ la ricetta vale per ogni situazione, per ogni paese, ad ogni latitudine e longitudine, come una sorta di panacea dei nostri tempi di crisi, specialmente nell’acciaccato continente europeo.

So che in molti non si troveranno d’accordo con la mie prossime parole, ma fatemi essere chiaro.

Non è così.

E passo a spiegarmi, come è dovuto.

Un po’ per dovuta semplificazione, un po’ per pigrizia, un po’ per effettivi buoni risultati, un po’ per puro dogma, nella maggior parte delle teorie economiche appartenente al paradigma dominante (chiamatelo mainstream o neo-classico, se volete)si ha una chiara relazione tra PIL e benessere di una Nazione, anche grazie al risultato di “leggi” empiriche (sarebbe più corretto chiamarle correlazioni) che presentano livelli accettabili di informazione (come la “legge di Okun” che ha osservato come in genere ad un punto di crescita del PIL corrisponda un mezzo percentuale di crescita dell’occupazione, o la curva di Phillips nella relazione tra inflazione, salari reali e livello occupazionale). Il legame proficuo tra crescita del PIL e benessere è generalmente ritenuto così scontato che praticamente ogni libro di testo di Macroeconomics usato generalmente in un corso di Economics (Economia Politica), assume questo legame come assioma auto evidente (invito, per semplice curiosità, a sfogliare l’introduzione di un libro come “Economic Growth” di R.J. Barro, X Sala-i-Martin o anche “Introduction to modern Economic Growth” di D. Acemoglu, etc…): in poche parole, il problema (che sta fagocitando tutti gli altri) dell’Economia moderna è rispondere alla domanda “come è possibile favorire la crescita del PIL?”.

Complichiamo un po’ le cose.

1)Si ricordi innanzitutto che un aumento del PIL, ossia un aumento delle transazioni economiche all’interno di una regione (generalmente Stato Nazione) considerata, tranne erratiche e rarissime eccezioni, significa un aumento assoluto delle risorse materiali smosse per tale aumento di produzione.

Non ci si lasci ingannare dal pubblicizzato fenomeno del decoupling o smaterializzazione dell’economia. E’ sì un fenomeno reale, ma di natura relativa: ciò che significa che per produrre, ad esempio, un computer, servono (in genere) molti meno materiali di prima, soprattutto a parità di potenza di calcolo! Ma per quello che in letteratura è famoso come rebound effect o paradosso di Jevons, un metodo di produzione più efficiente porta generalmente ad un abbassamento di costi, ad un aumento della domanda e un finale aumento assoluto consistente nella produzione, ossia guai per il mantenimento di determinati equilibri della biosfera. (E anche ai servizi sono legati forti flussi di materia nascosti). E credo non occorra ricordare quanto la questione ambientale, nel lungo periodo, sia cruciale per i destini della civiltà mondiale della razza umana, soprattutto in un modello di crescita e sviluppo basato sull’uso massiccio di fonti fossili

2)Tralasciando per un attimo l’enorme e cruciale questione ambientale, la stessa relazione tra PIL e benessere è meno lineare della vulgata odierna.

Già nel 1974 l’economista Easterlin aveva gettato in crisi questa relazione, denunciando che oltre un certo livello di reddito, ad un aumento della ricchezza non corrisponde un aumento della felicità percepita. Perché? Le risposte possono essere molteplici: l’aumento del reddito è divorato per “spese protettive” dovute a un maggiore livello di degradazione ambientale; il reddito diventa uno status, che definisce in quanto tale la posizione in contesto sociale, invece di rispondere ad affettive necessità di acquisto; talvolta l’accumulazione di maggior reddito è la conseguenza della degradazione di relazioni sociali, politiche e affettive in una comunità, così che l’individuo tende a lavorare di più proprio per compensare, in qualche modo, questo sfilacciamento di relazioni, etc…

3) Il PIL è un indicatore molto complesso, contenente troppe spese differenti per poter essere preso come indicatore di sintesi per felicità e progresso.

Potrei dire molte cose, ma Robert Kennedy, in un discorso del 1968, ha usato parole che, sull’argomento, sono praticamente immortali. Invito i lettori a leggere (o rileggere) quel discorso (basta digitare su qualunque motore di ricerca “Kennedy discorso sul PIL” o espressioni simili).

In brevissimo: nel PIL c’è la spesa per gli armamenti (giusto per ricordarlo: è noto il fatto che l’Italia sia uno dei più grandi produttori di mine?), il numero di medicine (che significa più gente malata o presunta tale), le spese che servono per le varie emergenze ambientali (spesso provocate da una gestione dissennata del territorio e del paesaggio), etc… Alla luce di questo appaiono folli le nuove linee guida Eurostat per l’incameramento di economia sommersa, prostituzione e droga nel conteggio del Pil: in primis vorrei capire secondo quale misterioso criterio il traffico di droga o il fenomeno della prostituzione dovrebbe risultare di qualche aiuto per il benessere e la salute delle persone o per la prosperità di una Nazione; inoltre le economie sommerse, per definizione, sfuggono alla possibilità di regolamentazione e di tassazione, ossia mancate tutele e finanze che dovrebbero appartenere ad una comunità politica nel suo complesso.

Che fare dunque? Tanto: dobbiamo (ri)pensare a come far funzionare determinate pratiche economiche, dobbiamo riorganizzare spazi (città e territori), produzione, modelli di convivenza…

Più concretezza? Supponete che si attivi una legislazione e una pressione di gruppi di consumatori che lottino conto il fenomeno dell’obsolescenza programmata: questo significherebbe prodotti di durata ben superiore che richiederebbero meno consumi e produzione (ossia una vera riduzione assoluta di materiale! Per quanto piccola…). Ok, ma meno consumi e produzione, significa meno profitti, più rischio per le imprese di chiudere e quindi maggiore disoccupazione… Vero: ma in parte questo trend potrebbe essere scongiurato semplicemente con un ripensamento del business di queste imprese (oltre che a produrre, si occuperebbero dei servizi di riparazione ed, eventualmente, smaltimento); inoltre nel frattempo potrebbe essere stata attivata una politica di reddito di disoccupazione universale garantito (o semplicemente di cittadinanza, magari europea?), da fondi sbloccati da disinvestimenti in arsenali militari, a sua volta permessi dall’organizzazione di una Difesa comune europea (economie di scala). E poi ancora pensare a pratiche come il car sharing, la creazione di spazi pubblici comuni, la creazione di orti urbani…

Le possibilità sono molte e il risultato sul Pil di queste manovre, nel complesso, risulterebbe incerto. E si tornerebbe a parlare di politica in senso vero, di cosa da fare. Con un occhio al Pil, ma senza ossessione…

Crescita, crescita, crescita?

L’immagine ritrae un classico paradigma che mette in relazione creatività -> innovazione -> produzione -> crescita. Fonte

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