Solo Marco Zatterin, su La Stampa, ha ricordato a inizio dicembre il compromesso faticoso raggiunto nella notte fra il 10 e l’11 dicembre 1991 su quello che sarebbe stato il “Trattato di Maastricht” entrato in vigore due anni dopo grazie al sofferto “oui” dei francesi nel referendum promosso da François Mitterrand e al doppio voto danese che fu ottenuto perché i governi concessero alla Danimarca una corposa lista di opting out che si aggiunsero a quelli concessi al Regno Unito in materia di cittadinanza e di moneta unica.
Del Trattato di Maastricht è rimasto nella memoria collettiva solo il successivo “Patto di stabilità” destinato a integrare e irrigidire i criteri legati alla moneta unica e definiti in un protocollo allegato al Trattato sui rapporti tra disavanzo e PIL e debito e PIL.
Molto inchiostro è stato usato per spiegare le ragioni che spinsero i governi ad accettare i vincoli percentuali del 3 e del 60 %, che furono presentati allora e sono stati difesi per anni come la verità assoluta, resa flessibile solo grazie all’intuizione di Guido Carli che ottenne di accompagnare la clausola del 60% con un riferimento al suo carattere tendenziale.
Durante la crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008 quel patto e quei criteri furono usati come un’accetta dalle vestali del rigore e dell’austerità per irrigidire ulteriormente il “patto” con una governance economica fondata sul Fiscal Compact, sul Six Pack, sul Two Pack e sul semestre europeo destinati in parte all’eurozona e in parte a tutta l’Unione europea.
Quel che è avvenuto con la pandemia e con i suoi effetti sulle economie dei paesi dell’Unione europea ha riabilitato l’opinione a lungo minoritaria di chi riteneva che i criteri di Maastricht e del successivo “patto” non potevano essere considerati come la verità assoluta e che i danni provocati dal carattere rigido di quelle regole sono stati a lungo termine maggiori dei vantaggi perché avevano sottovalutato o dimenticato un principio basilare dell’economia legato al suo carattere pro-ciclico o anticiclico.
Ricorderemo il 1° gennaio 2022 come il ventennale della messa in circolazione delle banconote e delle monete in euro e varrà la pena di ricordare, oltre a Guido Carli, anche Carlo Azeglio Ciampi e il suo monito inascoltato sulla zoppia dell’Unione economica e monetaria.
Noi siamo convinti che, se il dibattito fra rigoristi e neo-keynesiani si riducesse alla modifica o al rinnovo del “patto”, perderemmo l’occasione di far eliminare la zoppia fra unione monetaria e unione economica e - ancor di più – all’urgenza e alla necessità di riaprire il cantiere dell’unione politica che è stata richiamata da Mario Draghi nella sua replica al Senato durante il dibattito sul Consiglio europeo del 16 dicembre (che si è concluso, come sappiamo e come avviene regolarmente per l’inefficienza del metodo confederale, con una lunga serie di rinvii) accompagnandola da una critica o meglio da una autocritica sulla rigidità della governance economica dell’Unione europea.
Il dibattito sul “patto” deve concludersi entro il 31 dicembre 2022 poiché la sua sospensione scadrà il 1° gennaio 2023 a meno che il Consiglio europeo e informalmente l’Eurogruppo non forniscano alla Commissione europea dei criteri interpretativi che consentano di superare provvisoriamente l’ostacolo della modifica del protocollo che fu allegato al Trattato di Maastricht e che ha un valore giuridico comparabile a quello del Trattato con la sola differenza che il protocollo potrebbe essere modificato senza ratifiche nazionali.
Noi riteniamo che la riforma della governance economica non possa essere separata a medio termine dalla riforma di tutto il sistema dell’Unione mettendo al centro le questioni della sua sostenibilità sociale e democratica e dunque del follow up della Conferenza sul futuro dell’Europa che deve aprire la strada ad una fase costituente in vista delle elezioni europee nel maggio 2024.
In questo quadro vorremmo presentarvi il nostro punto di vista su tre tesi che sono emerse in questi giorni nel dibattito sul futuro dell’Europa.
La prima è legata all’idea – apparentemente ragionevole e pragmatica – secondo cui la prospettiva impervia di una revisione dei trattati, destinata a passare inevitabilmente da un negoziato intergovernativo, possa essere agevolmente sostituita da alcune “cooperazioni rafforzate” settoriali la cui messa in opera sarebbe stata resa più facile dal Trattato di Lisbona.
Si tratta di un’idea apparentemente rilanciata – con accenti e motivazioni diverse – da Giuliano Amato e da Romano Prodi nel dibattito promosso dalla Associazione “Il Mulino” il 13 dicembre in occasione della presentazione del documento “L’Europa che vogliamo”. A ben vedere e al di là dello strumento delle cooperazioni rafforzate formalmente previsto dai trattati, il discorso di Amato e Prodi sottintende l’esigenza di superare nel suo insieme lo scoglio dell’unanimità e di immaginare ipotesi innovative di integrazione differenziata.
Lo strumento delle cooperazioni rafforzate sottovaluta il fatto che le sfide maggiori di fronte alle quali si trova l’Unione europea nel ventunesimo secolo non possono essere affrontate e non possono trovare una soluzione adeguata con alcune politiche settoriali proposte da un numero ristretto di paesi e accettate “in ultima istanza” e a maggioranza qualificata dal Consiglio con la rilevante eccezione della politica estera che esige invece una decisione unanime.
Le cooperazioni rafforzate non possono risolvere le questioni legate alla capacità fiscale autonoma dell’Unione europea, delle politiche migratorie, dell’attuazione del pilastro sociale, di una politica di investimento europea con particolare riferimento alle infrastrutture sociali, della sua autonomia strategica e – last but not least – del rafforzamento della sua dimensione democratica.
La seconda idea è stata lanciata da un gruppo di economisti e giuristi nell’ambito del centro di ispirazione britannica CEPR sotto il titolo Revitising the EU framework: economic necessities and legal options.
Secondo questo gruppo è necessario assicurare un diverso equilibrio fra la dimensione monetaria e quella fiscale (di bilancio), ampliare il margine di manovra della BCE, adottare una riforma che dia una più grande priorità alla sostenibilità del debito, creare dei margini di manovra per la stabilizzazione e autorizzare delle differenziazioni, creare una capacità di bilancio “contingente” da attivare se necessario. Per il gruppo, tutto ciò può essere realizzato a trattato costante e se ciò non è stato realizzato finora la causa è legata alla mancanza di volontà politica.
La terza idea è legata alla proposta di perennizzare gli strumenti di consultazione delle cittadine e dei cittadini e cioè di mettere al centro della democrazia partecipativa la sua digitalizzazione, ignorando le sue funzioni deliberative ma soprattutto l’esigenza di tradurre l’esito delle consultazioni in politiche, strumenti e atti normativi conseguenti.
Quest’insieme di sfide richiede un superamento del Trattato di Lisbona attraverso un processo di democrazia sostanziale in cui:
- Vengano valorizzati gli orientamenti emersi durante la Conferenza sul futuro dell’Europa che deve concludersi in un tempo adeguato alla complessità del dibattito.
- Venga creato uno spazio pubblico di dialogo fra le forze politiche di maggioranza e di opposizione che esistono nei parlamenti nazionali e nel Parlamento europeo anche durante le fasi che precedono le elezioni legislative nazionali che impegneranno nei prossimi due anni fra gli altri Ungheria, Francia, Svezia, Lettonia, Italia, Estonia, Finlandia, Danimarca, Grecia, Polonia e Spagna.
- Si apra la strada, infine, ad una campagna elettorale europea in cui le elettrici e gli elettori – votando per il Parlamento europeo – siano chiamati a scegliere fra un’Europa sovrana o il ritorno alla divisione del continente in Stati apparentemente sovrani sulla base di una proposta del Parlamento europeo uscente che contenga le due opzioni e dei programmi dei partiti europei.
Così facendo il nuovo Parlamento europeo sarà investito di un mandato sostanzialmente costituente.
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