Dall’Unione europea aiuti e armi all’Ucraina

Il nuovo volto della solidarietà europea

, di Filippo Mario Vito Ferraiuolo

Dall'Unione europea aiuti e armi all'Ucraina

Eurobull.it, in partnership con il Centro Einstein di Studi Internazionali, pubblica di seguito un articolo realizzato come attività di ricerca all’interno del CESI Internship Research Project, http://www.centroeinstein.eu/.

La guerra scatenata dall’invasione delle truppe russe del territorio ucraino lo scorso 24 febbraio ha segnato un momento storico per l’Unione europea. Lo scontro fra due Stati indipendenti così vicini alle porte dell’Unione, e il rischio di un coinvolgimento diretto dei suoi Stati membri e della Nato, hanno riportato l’odore del sangue e il fragore delle bombe nelle narici e nelle orecchie dei cittadini europei.

In un primo momento la reazione delle Istituzioni europee e dei Governi dei suoi Stati membri si è limitata alla condanna del gesto, seguita dall’instaurazione di aspre sanzioni economiche e restrizioni finanziarie nei confronti della Russia e del suo establishment. Numerosi sono stati anche i tentativi, ancora oggi in corso, di stabilire un canale diplomatico che potesse portare a una rapida conclusione del conflitto cercando così di evitare la tragedia per i cittadini ucraini di una guerra prolungata e di una sua rischiosa escalation.

Tuttavia domenica 27 febbraio, il rapido deteriorarsi delle relazioni fra le parti coinvolte e gli insuccessi degli sforzi diplomatici hanno portato la presidente della Commissione europea ad annunciare una decisione storica per l’Unione: fornire direttamente armi e altri aiuti militari per un valore di 500 milioni di euro all’esercito ucraino impegnato nella resistenza contro l’aggressione russa, aggirando il divieto imposto dai trattati costitutivi dell’Unione di utilizzare il budget annuale per finanziare operazioni militari.

Questa decisione è stata possibile perché le risorse provengono dal fondo dedicato all’European Peace Facility (EPF), strumento creato dal Consiglio degli Affari Esteri dell’Unione europea nel marzo del 2021 per finanziare le missioni e le operazioni del Common Security and Defence Policy (CSDP) grazie a un budget di 5 miliardi di euro stanziato per il periodo 2021-2027 attraverso i contributi dei singoli Stati membri. Andando parzialmente a sostituire ATHENA, meccanismo che gestisce il finanziamento dei costi comuni delle operazioni militari dell’UE limitato geograficamente al continente africano, l’EPF permette di allargare il raggio d’azione e, quindi, di finanziare operazioni militari di pace e assistenza in tutto il globo, autorizzando l’invio di equipaggiamenti e aiuti militari.

In realtà l’EPF era già entrato in azione nel dicembre del 2021 coinvolgendo, insieme a Georgia, Moldavia e Mali, proprio l’Ucraina, attraverso una serie di misure assistenziali volte a rafforzare le capacità militari e difensive dei beneficiari. Per l’Ucraina erano previsti 31 milioni di euro, distribuiti su un periodo di 36 mesi, per finanziare unità mediche militari, ospedali da campo, unità mobili e logistiche e sostegno alla cybersicurezza. Tutto questo fino alla decisione del 27 febbraio. In quella data, per la prima volta l’Unione europea si è impegnata a fornire direttamente aiuti militari e armi letali a un Paese in guerra.

L’EPF permette così all’Unione europea di mettere, per certi versi, in secondo piano la sua capacità d’azione concentrata sull’impiego esclusivo del “soft power”, elemento costitutivo della sua frammentaria, e frammentata, strategia di politica estera. Questo cambio di rotta, per quanto possa apparire improvviso e circoscritto ai più recenti sconvolgimenti geopolitici, ha in realtà radici e conseguenze molto più profonde.

La decisione di intervenire in questa maniera a sostegno dell’Ucraina in un momento così delicato appare in aperta contraddizione con gli ideali di pace e non violenza che l’Unione ha sempre promosso e che ne costituiscono il DNA.

La decisione di usare l’EPF per l’Ucraina è stata presa attraverso una votazione del Consiglio europeo a cui, sebbene avrebbe dovuto esprimersi all’unanimità, è stata concessa la possibilità di un’astensione costruttiva, così da evitare un blocco dell’iniziativa da parte degli Stati che avessero voluto mantenersi neutrali.

La spinta interventista dell’Unione non è però arrivata da sola. Insieme a questa, nei giorni immediatamente successivi o precedenti, anche altre importanti posizioni storiche degli Stati membri sono state abbandonate a favore della resistenza ucraina. Da Istituzione sovranazionale promotrice di pace e democrazia, propensa a far fronte ai conflitti e alle avversità tramite la diplomazia e strumenti pacifici, in questa occasione l’Unione sembra presentarsi agli occhi della comunità internazionale nelle vesti attore regionale disposto ad aggirare le proprie stesse regole e principi, destabilizzato dalla paura e da una generalizzata retorica interventista.

Un intervento di tale portata rischia di avere conseguenze nefaste nel breve e lungo periodo per la stessa Unione europea. Nel caso in cui abbandonasse quasi definitivamente il suo ruolo di mediatore e garante super partes, vi è il rischio di un’escalation. Agli occhi di una Russia bloccata sul piede di guerra e priva di vie di uscita, l’Unione potrebbe apparire come un nemico, un attore ostile disposto persino a imbracciare le armi, piuttosto che cercare di perseguire la strada del dialogo e dei negoziati per la pace.

Sotto certi punti di vista, appare quasi che la decisione dell’UE sia stata presa senza ricordare le conseguenze di azioni simili già intraprese in passato. Così facendo, infatti, l’Europa inasprisce e allunga la durata del conflitto; non fa i conti con la possibilità che le armi fornite possano venire disperse o passare in mano al nemico; non sembra preoccuparsi della possibilità che, una volta terminato il conflitto, queste possano essere utilizzate in altri scenari e da attori diversi, non grado di suscitare la stessa empatia che la resistenza ucraina ha saputo scatenare. La questione diventa ancora più rilevante se si considera che proprio l’Ucraina, al disciogliersi dell’Unione Sovietica, è diventata una delle piazze di scambio più grandi in Europa e nel mondo per la compravendita degli ex armamenti sovietici, finiti nelle mani di guerriglieri, insorti e della criminalità organizzata di tutto il mondo.

La decisione dell’Unione europea appare improvvisa e dettata dalle necessità, ma in realtà è mossa da ben più di un semplice moto solidale nei confronti di una popolazione resistente. Arriva infatti dopo anni in cui le lobbies degli armamenti europee hanno aumentato la loro influenza e consolidato la propria posizione di vicinanza agli organi decisionali dell’Unione, e dopo una serie di decisioni che hanno portato all’espansione degli strumenti militari a disposizione delle sue Istituzioni.

La spesa annuale per il lobbying in Europa dei dieci produttori di armi europei più grandi è raddoppiata fra il 2012 e il 2017; sono stati 37 gli incontri nel breve periodo fra il 2013 e il 2016 della “Direzione Generale della Commissione europea per il mercato interno, l’industria, l’imprenditoria e PMI” e l’industria delle armi; inoltre, l’organo consultivo che nel 2015 ha aiutato a impostare l’agenda per il programma di ricerca militare dell’UE era formato per più della metà dei suoi membri dalle più grandi industrie di armamenti d’Europa. Non va poi dimenticato che, secondo il Sipri, Francia, Germania, Italia e Spagna sono tra i più grandi esportatori mondiali di armi, e hanno visto un considerevole incremento delle proprie esportazioni nel quinquennio 2015-2020.

L’insieme di questi fattori ha portato a un considerevole aumento del budget dedicato alla ricerca e sviluppo di armamenti e progetti di difesa, alla presentazione del Piano d’Azione per la Difesa Europea nel 2016, all’istituzione del Fondo per la Difesa Europea nel 2017, e al già citato EPF. Quest’ultimo in particolare, fin dalla sua istituzione, aveva già suscitato diversi dubbi riguardo la sua adeguatezza rispetto alla dichiarata volontà di risolvere e gestire in maniera pacifica i conflitti. A questo proposito OXFAM e ad altre 39 organizzazioni società civile già nel novembre del 2020 avevano firmato una dichiarazione congiunta per mettere in guardia l’Unione europea in merito alle conseguenze che azioni di questo tipo potrebbero avere per la popolazione civile e la stabilità internazionale.

Sicuramente una maggiore integrazione e cooperazione militare all’interno dell’Unione, così come una sua capacità di intervento autonoma, sono punti fondamentali su cui riflettere e verso i quali essere disposti a evolvere. Tuttavia, è fondamentale che questo avvenga attraverso un processo politico democratico e non soggetto alle influenze delle lobbies dell’industria militare; che sia il frutto di una decisione volontaria e ragionata; e che non sia dettato dalla paura o dall’empatia nei confronti di cause impellenti, in grado di farci dimenticare da dove si viene e su quali pilastri si è deciso di fondare il cammino europeo.

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