Riflettiamo sul ruolo dei social media nella costruzione delle democrazie contemporanee

Democrazia alla prova del click

, di Davide Emanuele Iannace

Democrazia alla prova del click

Anche quest’anno Eurobull aderisce alla campagna della JEF-Europe, #DemocracyUnderPressure, che denuncia l’attacco alla democrazia in Europa e che sostiene la formazione di una nuova coscienza civica democratica.

La settimana di DemocracyUnderPressure è quel momento dell’anno in cui vogliamo focalizzare la nostra attenzione sui rischi che la democrazia contemporanea corre. Nel corso del XIX e XX secolo abbiamo costruito i pilastri per la democrazia liberale. I diritti hanno conquistato pian piano aree più vaste della società, si è visto un generale arricchimento della popolazione, un miglioramento delle aspettative di vita. Nonostante questa premessa sostanzialmente positiva, la democrazia come la concepiamo e conosciamo ha affrontato numerosi alti e bassi. La Seconda guerra mondiale ha spazzato via gran parte degli stati democratici europei almeno fino alla vittoria degli Alleati, quando comunque metà del territorio continentale è finito nell’orbita dell’Unione Sovietica. All’estero, fuori dai confini del Vecchio mondo, spesso la democrazia viene avvicinata più a un modello occidentale, di colonizzazione e imposizione economica, che a un possibile effettivo stato di cose.

La democrazia non è quindi scontata, per quanto possa apparire in questa forma ai nostri occhi. Non è scontata fuori l’Unione europea, non è scontata al suo interno. Non sono in pochi gli attori che farebbero a meno della democrazia, se la cosa giovasse al loro portafoglio o alla loro ideologia, o a entrambi. Colpire la democrazia non è complicato, per nulla. Per un sistema che si basa di fatto sulle aspettative che tutti giochino a questo gioco seguendo le regole che si è auto-imposti, basta decidere di violare le regole per far saltare il tavolo. Non si può non notare che la pressione ha cominciato a pesare sempre di più sul sistema democratico contemporaneo.

In un mondo normalmente di pesi e contrappesi, la bilancia di questi due elementi porta ad un contenimento del rischio dovuto a possibili atti ostili. Eppure, i social media hanno aperto a loro volta una frattura nel mondo democratico, una frattura che ha messo in luce tutte le storture sociali, educative, economiche, se non psicologiche, che le società occidentali avevano sedimentato sotto il peso delle proprie strutture e sovrastrutture, mascherandole e nascondendole, incanalandole in media tradizionali quali la radio, la televisione, i giornali di partito e non.

Si leggeva il popolo non come popolo, ma come qualcosa visto dall’esterno, da una élite più o meno culturale e acculturata, sedimentata nelle scuole di partito, nei binari delle accademie e delle università. Era facile parlare per il popolo, almeno finché il popolo non esplodeva nelle piazze, improvvisamente, nelle strade e nelle rivolte. Poi, il mondo è cambiato. Abbiamo avuto cellulari, internet, social media, social network, piattaforme indipendenti e corporazioni dell’informazione.

Improvvisamente, la democrazia ha dovuto scoprire che nella realtà la gente ha opinioni. Non sempre quelle opinioni sono aperte alla democrazia stessa, non sempre le opinioni seguono la fattualità del momento, le prove, i discorsi logici. Sono istintive, emozionali, possono diventare violente, possono essere false.

Citando Schopenhauer, i social media hanno squarciato il velo di Maya. Voglio andare contro un pensatore più grande di me, contro Umberto Eco, nel dire che i social non hanno dato parola a legioni d’imbecilli, quanto piuttosto hanno permesso agli impulsi di espandersi nel mondo della parola, il filtro è caduto. È comparso sulle foto, ma è sparito dai testi. Ci ritroviamo così che i social si riempiono delle idee e delle ideologie, qualunque esse siano, qualunque cosa vogliano dire.

I sentimenti, letteralmente, hanno invaso lo spazio della comunicazione pubblica e politica, prendendo piede nei loro termini tanto positivi quanto negativi. Abbiamo da un lato le campagne di mobilizzazione per difendere i diritti di paesi lontani; l’organizzazione di proteste per difendere il diritto all’aborto o lo stato di diritto; abbiamo i Fridays for Future focalizzati sul rimettere al centro della discussione il problema ambientale.

D’altro lato, abbiamo governi totalitari che fanno loro i dati dei propri cittadini-sudditi, catalogano, schedano, tracciano, uccidono, anche tramite gli strumenti social; abbiamo l’odio che si esprime in rete sotto la falsa forma di libertà d’espressione.

I social han dato parola a tutti, e proprio per questo la democrazia ha cominciato a soffrirne, ha cominciato a non sapere come reagire alla quantità di pensieri e parole libere. Non perché fosse di per sé un problema. No, anzi, idealmente l’ampliamento della base parlante sarebbe dovuta essere una grande vittoria per la democrazia, per i sistemi liberali. La possibilità che tutti parlino, dicano la loro, in potenza è la massima aspirazione possibile per i sistemi democratici.

Cosa succede quando però le parole vengono private virtualmente della loro responsabilità? Cosa accade quando falso e vero si confondono e le scelte vengono prese non per il bene comune ma per quello individuale o delle micro-collettività che formano il tessuto sociale contemporaneo? Cosa accade quando milioni di persone confuse finiscono nella rete, spesso senza cognizione di quel che davvero stanno facendo, trattati come se fossero la voce più importante del mondo?

La risposta semplicemente è il 2021, il mondo che guardiamo oggi da dietro gli schermi, in case in zone rosse e arancio (bianche, per qualche per ora fortunato). È un mondo complesso, confuso, in cui decidere quale vaccino usare, come e dove, quando vietarlo e bandirlo, viene deciso al ritmo dello sciacallaggio politico e della mala informazione, delle esagerazioni da click bait e dai presunti espertiche si tacciano per tali.

In un mondo in cui tutti possono dire tutto, la fiducia crolla. Se crolla la fiducia, di per sé crolla la democrazia stessa. La pressione a cui la campagna #democracyunderpressure fa riferimento non è solo spinta dai regimi autoritari, non solo da chi è interessato nel vedere la democrazia compromessa ma da quelle forze inconsce che trovano la loro forza nel caos, che lo alimentano con lo scopo di sopravvivere in un mondo che cambia, minuto dopo minuto.

I social media di per sé non sono che lo specchio della società. Non sono un mondo distorto, né alternativo, né parallelo. Sono contenitori che tutti noi abbiamo riempito con quello che pensavamo, con quello che odiavamo ed amavamo, con i messaggi che volevamo promuovere o rifiutare. Le teorie del complotto sulla Terra piatta, sugli alieni che prendono il posto dei leader del pianeta o sul 5G usato per aumentare o meno la temperatura del corpo a comando, non prendono piede dai social, ma lì trovano un nuovo riscontro e nuovi adepti.

L’errore è pensare che il social network sia il danno alla democrazia, o alla capacità dei media di parlare, alla politica di essere fattuale. I social network sono la scusa e lo scudo con cui diamo un senso e una forma agli errori e alle storture sistemiche che, semplicemente, trovano una nuova risonanza. La democrazia non è sotto pressione perché un paio di troll russi in una lontana città dell’ex-Unione Sovietica spacciano fake news su Hillary Clinton o su Barack Obama, su Angela Merkel o su Mario Draghi. Sono un problema di politica internazionale. Il problema della democrazia si annida in chi preferisce credere alle informazioni false piuttosto che a quelle comprovate, che dubita della realtà perché non riesce a distinguere vero e falso.

Non è esistita educazione alla democrazia, e non parliamo solo di senso civico, ma della capacità di vivere a pieno il processo democratico, sfruttando tutti i suoi angoli e tutte le sue sfumature e affrontandone anche le debolezze. Un sistema democratico è naturalmente fallace, proprio perché fallace è la natura umana delle sue componenti. Un sistema autoritario è certo, efficiente nella natura in cui controllato predilige una ed una sola strada, ma soffoca la libertà, la creatività, la capacità umana di adattarsi. Non è questo il posto dirimere la questione su quale sia il sistema migliore. È soltanto indubbio che la democrazia non può essere una passività della vita politica dell’individuo, ma ha bisogno di costante riflessione.

Non scadiamo nell’elitismo affermando che questo non sia possibile, perché pensare ai gruppi umani come a branchi di pecore è quanto di più sbagliato sia possibile. Si vuole ridurre la pressione sul sistema democratico? Ciò che va fatto è lavorare all’interno delle pareti del sistema, affrontando le incertezze e le sicurezze del sistema, fare in modo che ogni crisi economica non diventi anche una crisi sistemica.

Vero è che l’essere umano, di sua natura, predilige la sicurezza e la certezza rispetto al caos dell’incertezza, ma l’abilità dell’uomo politico e non del populista è nel rendere le cose difficili non facili, ma comprensibili e affrontabili, pur con tutti i loro rischi. Confido, nella realtà in maniera ottimistica, che i social media possano diventare un veicolo della comprensione, non tanto del caos e della disinformazione. Come? Tramite la più grande delle banalità, ovvero l’educazione al loro uso. Ci saranno sempre persone che vorranno credere alle proprie verità, questo è indubbio, quanto è vero che una fiamma accesa sui social può scatenare un grande cambiamento politico e nazionale, permettere l’affermarsi di grandi battaglie ideologiche o aprire quanto meno al dialogo e, perché no, al dibattito e allo scontro (metaforico, si intende). La democrazia ha bisogno di questo, ha bisogno di riscoprire il gusto del dibattito e della battaglia di idee, del diverso che si affronta non nell’odio dell’altro ma nell’apprezzamento che in ogni idea vi è un margine per portare avanti la grande casa comune. I social, in parte, per la loro struttura sono diventati un luogo dove il dibattito è sterilizzato e reso una mera ostilità. Riportiamo la capacità di dibattito nei suoi meandri e inizieremo a togliere un altro tassello della pressione esercitata sui nostri sistemi democratici: quello dell’apparente instabilità. Il dibattito, a dispetto di quello che si può credere, crea la stabilità, perché nel dibattito regolato, preciso, puntuale, si genera empatia e la capacità di rispettare le posizioni altrui, quanto di più necessario al mondo democratico.

C’è molto da fare affinché lo stato di diritto, la democrazia, aumentino di nuovo il proprio spazio di manovra e tornino a conquistare l’arena pubblica, rafforzandosi. L’esito della crisi sistemica che stiamo vivendo in questi anni Venti del XXI secolo potrebbe portare o alla scomparsa dei sistemi democratici come li conosciamo o a un loro rafforzamento verso strutture più solide. Il come, dal punto di vista di chi vuole vedere al mondo dei social come un contenitore e specchio di quello reale, è in parte presto detto. Bisogna trasformare la realtà digitale, imparare a navigarla perché diventi uno spazio di crescita e di non caos fine ad altro caos.

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