Dopo le elezioni europee, le nuove sfide dell’Europa

, di Paolo Milanesi

Dopo le elezioni europee, le nuove sfide dell'Europa

Le elezioni europee dello scorso 26 maggio sono state caratterizzate da un importante crescita dell’affluenza al voto (con la notevole eccezione dell’Italia) e un’importante affermazione dei partiti pro-europei, seppur contrastata dall’avanzamento in alcuni Paesi delle forze nazionaliste e sovraniste. La tappa successiva del percorso istituzionale dell’UE prevede la nomina delle cariche del prossimo quinquennio (i Presidenti della Commissione, del Consiglio) e il presidente della BCE. Il Consiglio Europeo del 2 luglio aveva inizialmente proposto Ursula von der Leyen (del Partito Popolare Europeo ed ex ministro della difesa tedesca) come Presidente della Commissione, Charles Michel (del Partito Liberal ed ex primo ministro del Belgio) come presidente del Consiglio e Christine Lagarde (del Partito Popolare, direttrice del FMI ed ex ministra dell’economia francese) alla carica di Presidente della BCE.

La signora von der Leyen è stata eletta alla presidenza della Commissione dal Parlamento Europeo il 16 luglio. Nonostante l’iter che ha portato all’elezione della neopresidente sia stato conforme a quello previsto dai trattati, il risultato ha sollevato qualche critica e perplessità nell’opinione pubblica e qualche malumore tra le fila dei partiti europei. Per iniziare a comprendere le ragioni di questo apparente scollamento tra le istituzioni e il contesto sociale in ambito europeo occorre per prima cosa analizzare con più attenzione il risultato delle elezioni del Parlamento.

Al di là della generale affermazione delle forze pro-europee (che, insieme, controllano più dei due terzi dei seggi), i due partiti tradizionali, i Popolari e i Socialisti, hanno comunque subìto un’emorragia di voti a favore dei Verdi, dei Liberali e della galassia nazionalista. Gli elettori hanno cioè punito i partiti più legati allo status quo (sia perché al governo in quasi tutti i paesi dell’Unione, sia perché hanno sempre espresso il presidente della Commissione e i commissari più importanti) e hanno dato più fiducia a quei partiti che proponevano un cambio di passo in Europa. Un cambiamento sì, ma con quali proposte? Le proposte andavano in direzioni divergenti: la prima, la posizione sostenuta dai nazionalisti, tendeva ad uno svuotamento dei (già pochi) poteri gestiti a livello europeo; la seconda invece sollecitava ancor più l’esigenza di rafforzare ancor più l’integrazione a livello europeo, superando in questo modo quelle condizioni che contribuivano a rendere l’Europa più lontana dagli interessi dei cittadini.

Possiamo però affermare, confortati dal risultato delle urne, che sia stata quest’ultima proposta ad avere riscosso un deciso sostegno a livello popolare. L’aumento dell’affluenza alle urne (+8,36%) e il solo confronto numerico sulla distribuzione dei seggi rispetto al 2014 tra i partiti antieuropei (+8 seggi) e i Verdi e i Liberali (+65 seggi) mostra che i cittadini europei hanno risposto alla sfida posta dai nazionalisti ed, anzi, l’hanno rilanciata schierandosi per la costruzione di un vero potere europeo, controllato democraticamente in grado di confrontarsi con adeguate risorse competitive su questioni di dimensione globale (sui temi della protezione sociale, del cambiamento climatico, della migrazione, del commercio internazionale ecc.).

È stata, quindi, in parte neutralizzata la propaganda antieuropea costruita spesso ad arte amplificando ossessivamente i problemi esistenti all’interno dell’UE, insistendo nell’affermare che l’Europa come tale non solo si rivelerebbe impotente a risolverli, ma che ne sarebbe addirittura la causa e convenendo, di conseguenza, sulla necessità di depotenziare il più possibile (o abbattere) le istituzioni europee colpevoli di limitare, con lacci e lacciuoli, la sovranità degli Stati nazionali e la loro capacità di rispondere prontamente alle richieste dei cittadini.

È importante sottolineare la totale inadeguatezza di questa narrazione, anche se purtroppo essa viene involontariamente supportata dalle dichiarazioni e dalle strizzatine d’occhio verso gli euroscettici da parte dei leader pro-europei, del tipo: “L’Europa ci deve concedere più margine!”. Eppure, il vero problema non è la troppa sovranità ceduta dagli Stati, bensì risiede nel fatto che la sovranità e, quindi, gran parte degli strumenti per governare il presente sono rimasti nelle mani degli Stati e costituisce perciò un intralcio ed un freno all’efficiente esercizio di una sovranità a livello continentale.

Ripercorrendo il processo di integrazione europea a partire dalla CECA fino a oggi notiamo che l’unico momento in cui delle competenze chiave nazionali sono state pienamente trasferite a istituzioni sovranazionali (cioè un gruppo Stati ha messo in comune alcuni ambiti della sovranità nazionale) è stato sostanzialmente uno: l’adozione della moneta unica, l’Euro. Gli Stati che compongono l’Area Euro non controllano direttamente la politica monetaria (le decisioni prese dalle loro banche centrali per influenzare il costo e la disponibilità del denaro nell’economia) che Ë, invece, gestita dalla Banca Centrale Europea. Il governo politico di tutti gli altri settori, benché la varietà dei portafogli dei commissari lascerebbe intendere che tali materie siano in mano della Commissione, Ë in realtà competenza esclusiva degli Stati per cui, quando “l’Europa decide”, si tratta degli stessi capi di stato e di governo che, riuniti nel Consiglio Europeo, prendono decisioni vincolanti solamente a patto che abbiano un consenso unanime.

Il nocciolo della questione è dove risieda il potere, che, in questa Europa, rimane saldamente nelle mani degli Stati. Notiamo già che le argomentazioni antieuropee incominciano a vacillare, dacché sorge spontanea una domanda: se gli Stati nazionali già padroneggiano gli strumenti del potere, come mai non li usano a vantaggio dei loro cittadini e preferiscono scaricano la responsabilità della loro inefficienza sull’Europa? Semplicemente perché, anche se alcune (poche) soluzioni sono effettivamente concertate tra i Paesi dell’Ue, la loro applicazione è demandata alle capacità a alla buona volontà dei Paesi stessi, quando però i problemi da affrontare sono troppo grandi per singoli Stati: non solo per piccoli Paesi come Malta o il Belgio, ma anche per la Francia o la Germania.

I governi dei Paesi dell’UE, forti della legittimazione popolare, hanno storicamente avvertito primariamente la necessità e il dovere di rispondere alle aspettative dei loro elettori, demandando alle istituzioni europee un’azione di controllo. Questo meccanismo ha retto fino a che il perno di questo sistema, il partito politico, non è entrato in crisi. I partiti politici svolgevano un ruolo di mediazione tra le spinte popolari e i bilanciamenti di garanzia propri delle democrazie occidentali e di responsabile dell’avanzamento del processo di integrazione. Nel momento in cui lo spazio di discussione e di soluzione delle problematiche si è esteso oltre i confini nazionali, le risposte dei governi e dei partiti nazionali si sono rivelate sempre più insufficienti, mentre le competenze di controllo europee sono via via aumentate.

Ciò ha provocato una crisi, non ancora risolta, che ha investito i partiti, accusati di essere incapaci o prostrati a fantomatici “interessi europei”, quando in realtà la vera criticità è data dal fatto che il livello europeo, pur investito da problematiche che superano i confini nazionali, non ha le competenze, né la legittimazione per rispondere alle richieste dei cittadini, che solo a questo livello possono essere affrontate.

Abbiamo considerato le problematiche della struttura dell’UE, intrinsecamente intergovernativa, esacerbate dall’inerzia della sovranità degli Stati (tradizionalmente abituati ad essere il più efficiente centro di governo) che ha spesso impedito ogni tentativo di riforma in senso migliorativo. Gli unici tentativi fatti dopo il Trattato di Lisbona (l’ultima grande modifica della struttura europea) di riallineare la politica europea alle necessità del presente sono stati patti informali (come il metodo dello Spitzenkandidat) o meccanismi di stabilizzazione finanziaria (come il MES) inefficaci a causa della loro struttura barocca.

È stata quindi l’accettazione passiva e l’inerzia dello status quo l’aspetto che è stato più punito dagli elettori. È stato anche questo il motivo dello scontento dopo la nomina di van der Leyen. Il Parlamento, unico organo eletto, è stato ancora una volta scavalcato dal Consiglio nella nomina. Come è già stato sottolineato questo è ciò che i trattati prevedono: il Consiglio, “tenuto conto del risultato delle elezioni” propone il nome del presidente che viene successivamente approvato (o meno) dal parlamento. L’inadeguatezza di questa procedura si è mostrata in tutta la sua chiarezza. È sufficiente considerare un caso emblematico: era lecito supporre che il gruppo dei Verdi, tra i vincitori “morali” delle elezioni in forza del consenso ottenuto, anche per il loro forte radicamento all’interno del fronte pro-europeo, dovesse ricevere una particolare attenzione e più voce in capitolo. Invece i Verdi sono stati trascurati dalle dinamiche del Consiglio per il semplice fatto che nessuno dei Capi di Stato Ë espressione di questo partito. Anche il metodo dello Spitzenkandidat (ricordiamo che Ë un accordo politico, non una garanzia istituzionale), studiato come strumento per spostare il baricentro del potere verso il Parlamento e togliere discrezionalità al Consiglio, ha mostrato tutti i suoi limiti soprattutto perché, in uno scenario frammentato come quello che ci ha restituito la consultazione elettorale, l’unica via percorribile doveva per forza passare attraverso l’applicazione dei trattati vigenti.

A ben vedere anche il metodo stesso dello Spitzenkandidat mostra il vero problema, infatti esso si basa su accordi all’interno delle famiglie politiche europee, cioè un accordo tra partiti politici nazionali pesato in base alla loro peso all’interno dei paesi e al peso di questi paesi nell’UE. Quindi il fatto che “non sia stato seguito il principio dello Spitzenkandidat” e solamente il sintomo del problema, cioè che il potere europeo è basato sul rapporto di potenza tra gli Stati, non su un potere europeo che risponda ai cittadini.

Un importante traguardo è stato, dopo le elezioni del 2014, la nomina di Jean-Claude Juncker, candidato del Partito Popolare. Ma questo è solamente un passaggio intermedio, che non può essere fine a se stesso, ma deve servire per rilanciare la battaglia, che dovrà coinvolgere il Parlamento Europeo, la società civile e i Parlamenti degli Stati, per la democrazia europea, cioè per la creazione di uno stato federale europeo. Si è visto che il percorso a piccoli passi dell’integrazione europea, seguito fino a questo momento, non funziona e il risentimento dei cittadini lo dimostra. È ormai giunto il momento di un’accelerazione per creare delle vere istituzioni democratiche e federali, l’unico modo per garantire un governo più efficiente ed equilibrato, anche se, in un primo momento, queste istituzioni riuniscano solo alcuni paesi dell’UE. Un siffatto nucleo federale sarebbe prima di tutto un obiettivo dettato dalla necessità storica, ma avrebbe, anche, una forte portata ideale, costituire, cioè, un faro per la civiltà europea e mondiale.

Fonte immagine: Wikipedia.

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