Fuga e resistenza della comunità LGBTQ+ ucraina

, di Sofia Masullo

Fuga e resistenza della comunità LGBTQ+ ucraina
Foto di Sharon McCutcheon da Pexels

Nell’invasione russa dell’Ucraina, una particolare categoria corre forti rischi, quella LGBTQ+. Cosa conviene loro fare? Fuggire, nella consapevolezza di potersi trovare in un Paese omofobo, o restare, combattendo anche per il raggiungimento in patria di una piena uguaglianza ma risultando bersagli estremamente graditi per l’esercito russo?

Ucraina, un Paese ancora senza arcobaleno

Prima ancora che l’avanzata russa avesse inizio, le persone ucraine appartenenti alla comunità LGBTQ+ non beneficiavano di diritti e di tutele a tutto tondo. Se da un lato l’omosessualità non è più reato dal 1991, riguardo il matrimonio egualitario l’articolo 51 della Costituzione ucraina definisce in maniera categorica che il matrimonio è «l’unione volontaria tra un uomo e una donna»: dunque, il matrimonio fra persone dello stesso sesso non solo è ancora vietato in Ucraina, ma la Legge lo considera di fatto incostituzionale.

Inoltre, nonostante nel 2015 il Parlamento ucraino avesse approvato una legge che vietava la discriminazione basata sull’identità di genere e l’orientamento sessuale nei luoghi di lavoro, nel novembre del 2016 lo stesso Parlamento ucraino ha rifiutato di sostenere la Convenzione di Istanbul, una legge europea contro l’odio, contraddicendo se stesso. Per quale motivo? Perché i riferimenti all’orientamento sessuale e al sesso al suo interno violavano ciò che molti legislatori ucraini hanno detto essere «i valori fondamentali cristiani».

Per quanto riguarda invece le persone transgender, nonostante alcune prese di posizione della Verchovna Rada dopo la caduta del Muro di Berlino (nel marzo 1996, un documento del Ministero della Salute regolava, quindi legalizzava, il cambio di sesso per la prima volta nella storia dell’Ucraina indipendente, a condizione di aver compiuto i 25 anni), in Ucraina la transessualità è tutt’ora considerata un disturbo psichiatrico. Basti pensare che dopo l’intervento chirurgico la persona transgender deve sottoporsi a visite psichiatriche per due anni. Dalla fine di dicembre 2016, il Ministero della Sanità ha stabilito che non sarà più necessario presentare una richiesta a un comitato di professionisti della salute mentale o trascorrere un mese in una struttura psichiatrica. Ma gli ostacoli certo non sono del tutto superati per le persone transgender, che devono ancora far fronte alle difficoltà relative alla conversione o al cambio di documenti e, in aggiunta, all’opinione pubblica, soprattutto nella ricerca di un lavoro.

Chi fugge

In questa scontro armato, chi fugge rischia di ritrovarsi in Paesi dove non sono riconosciuti diritti per la comunità LGBTQ+. Omosessuali, bisessuali, lesbiche, transessuali, famiglie arcobaleno, attivisti e attiviste dei diritti umani stanno tentando di fuggire nella vicina Polonia.

Julia Maciocha (presidentessa di “Parada Równości”, ossia “Equality Parade” in inglese) ha espresso la sua preoccupazione riguardo gli ucraini e le ucraine tenuti «nei campi profughi o in grandi edifici dove non sono al sicuro, perché l’omofobia esiste ancora in Polonia». Ha anche ribadito l’importanza di assicurare «che siano inseriti in contesti di persone che capiscano i loro bisogni».

Lambda Warszawa”, la più antica organizzazione LGBTQ+ polacca a Varsavia, ha lanciato un programma speciale interamente dedicato a sostenere le persone LGBTQ+ ucraine. Grazie alle donazioni dei membri di “All Out” (organizzazione globale senza scopo di lucro focalizzata sulla difesa dei diritti umani di tutti i membri della comunità LGBTQ+) ha potuto affittare un grande appartamento che servirà come rifugio di emergenza per i profughi che arrivano a Varsavia, e nel frattempo cerca una sistemazione più a lungo termine. «Abbiamo a che fare con persone che stanno affrontando diversi traumi. Fuggono dall’Ucraina, un Paese omotransfobico devastato dalla guerra, e arrivano in Polonia, un altro Paese che, pur essendo pacifico, è altrettanto anti-LGBTQ+. Stiamo offrendo loro uno spazio dove ricevono una buona accoglienza e vengono accettate per quello che sono» ha spiegato Miłosz, un insegnante di tedesco che dall’inizio della guerra ha sospeso le sue lezioni per poter fare volontariato a tempo pieno nell’accogliere i profughi.

Il paradosso è che nemmeno la Polonia ha toni molto morbidi a proposito di diritti LGBTQ+. Ad esempio, per mezzo di una nuova legge approvata dal Senato, il Governo ultraconservatore polacco ha vietato definitivamente di trattare tematiche queer nelle scuole, e tutte le attività extracurriculari gestite da organizzazioni non governative negli istituti scolastici dovranno essere prima approvate da un supervisore nominato dal Governo. Proprio sulla scia dell’Ungheria, e in fin dei conti anche dell’Italia, che ha ben poco da essere fiera nel suo essere così ostile a promulgare leggi che tutelino a tutto tondo i diritti dei membri della comunità LGBTQ+, e nel suo accanimento a non rendere obbligatoria l’educazione sessuale e la trattazione delle tematiche sopracitate in tutti gli istituti scolastici.

E poi c’è chi vuole fuggire, ma non riesce nemmeno a mettere piede fuori dai confini. Al momento di lasciare l’Ucraina, le donne transessuali sono state bloccate dalla polizia di frontiera e sottoposte a esami invasivi per il controllo del sesso (i passaporti delle persone trans spesso non corrispondono alla loro identità di genere). Infine è stato loro negato di lasciare l’Ucraina poiché considerate uomini. Il motivo dichiarato dalla polizia è la legge marziale che vige in Ucraina, secondo cui nessun uomo tra i 18 e i 60 anni può lasciare i confini ed è perciò obbligato ad andare a combattere contro gli invasori russi. Si sospetta tuttavia che la ragione concreta sia di natura transfobica.

Chi resta

Insight” è stata fondata nel 2008 da Olena Ševčenko, attivista per i diritti civili (e dal 2012 co-presidente del Consiglio LGBT dell’Ucraina). É una delle principali associazioni ucraine che unisce e rappresenta la comunità lesbica, gay, trans, bisessuale, intersessuale e queer ucraina. La sua sede è a Kiev, ma di recente sono stati aperti anche alcuni centri regionali. L’associazione s’impegna a fornire assistenza e supporto alle persone LGBTQ+ che vivono in situazioni difficili o che sono oggetto di discriminazioni; a fornire assistenza legale, medica e psicologica professionale aperta a tutti e tutte; a preparare e a partecipare a eventi e dimostrazioni, organizzando training, workshop e discussioni per un pubblico più ampio.

Nonostante Olena sia consapevole delle violenti conseguenze dell’invasione russa in Ucraina, è decisa a rimanere nel suo Paese e a continuare a lavorare per la sua comunità. Pur avendo la possibilità di fuggire, sa che è necessario restare per dare sostegno agli emarginati, anche tramite canali Telegram e per mezzo di iniziative organizzate su Facebook e Instagram. È stata contattata da numerose persone LGBTQ+ di tutto il Paese, terrorizzate e ignare di cosa fare, rendendo chiaro che le loro vite sono a rischio e che molte di queste persone devono essere trasferite tempestivamente in luoghi più sicuri, dove possono trovare rifugio, cibo e tutti gli altri bisogni essenziali.

Il livello di pericolo in Ucraina è più alto che mai e, proprio com’è accaduto nel 2014 nella regione di Dovetsk, c’è il rischio che molti attivisti finiscano in prigione. Il 20 febbraio 2022 Michelle Bachelet (l’Alto commissario dell’ONU per i diritti umani) ha ricevuto una lettera da Batsheba Nell Crocker (rappresentante degli Stati Uniti presso l’ufficio europeo dell’ONU) secondo cui i russi avrebbero avuto un elenco di politici, giornalisti e attivisti LGBTQ+ ucraini da arrestare e/o uccidere. Non solo. “Foreign policy” (rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali fondata nel 1970) ha fatto emergere la possibilità che Putin possa aver pensato a «programmi di intimidazione e repressione di dissidenti e minoranze, tra le quali la comunità LGBTQ+».

Kyiv Pride”, l’organizzazione non governativa ucraina che riunisce la comunità LGBTQ+, ha twittato che non si farà intimidire dalle minacce di Putin. La Russia ha tuttavia negato di possedere una lista simile, sebbene tali dichiarazioni non convincano Olena Ševčenko: «Le persone LGBTQ+ saranno le prime ad andare nelle carceri e torturate a causa del mondo russo e dei suoi valori tradizionali». La sua, insieme a quella di altri attivisti e attiviste ucraine (ad esempio Viktor Pylypenko, Veronika Limina, Andrii Kravčuk), è una preoccupazione concreta, dal momento che il Presidente russo Vladimir Putin non ha mai negato di avere posizioni omotransfobiche. In Russia, omofobia e atti di violenza ai danni degli omosessuali sono ancora diffusi e all’ordine del giorno, se si tiene conto del fatto che la Duma russa ha promulgato una legge contro la «propaganda gay», consentendo alle autorità di reprimere tutti i comportamenti omosessuali.

Insieme agli attivisti che hanno scelto di combattere in prima linea, ci sono anche altri che si stanno offrendo volontari per aiutare i soldati e i civili queer, raccogliendo denaro, armi, attrezzature e assistenza medica. Andrii Kravčuk (attivista del centro LGBTQ+ Nashvit di Kyiv) racconta infatti che «molti attivisti si stanno unendo alle forze di difesa territoriale» e che «stanno svolgendo corsi di assistenza paramedica. Le persone LGBTQ+ che hanno prestato servizio nell’esercito ora sono pronte a tornarci». Con queste parole, Kravčuk ribadisce che in questo scontro armato anche la comunità queer vuole fare la sua parte per contrastare l’offensiva e difendere i civili e le minoranze che più risentono degli effetti della guerra. Dopo il 24 febbraio, giorno in cui è cominciata l’invasione russa, numerose organizzazioni LGBTQ+ hanno indirizzato le proprie donazioni all’esercito; altre invece si stanno occupando di far evacuare in sicurezza quelli che vogliono lasciare l’Ucraina.

Ma le preoccupazioni circa le sorti della comunità LGBTQ+ ucraina non finiscono qui. Al termine della liturgia nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, il patriarca ortodosso Kirill (le cui posizioni filo-putiniane sono ben note), ha sostenuto la tesi per cui è necessario lottare contro i modelli di vita promossi dalle parate gay: «L’invasione ucraina? È giusto combattere, è una guerra contro la lobby gay».

Per le persone LGBTQ+ è chiaro non si tratta più solo di sopravvivere agli attacchi militari e alle bombe, ma anche di poter difendere tutto ciò che sono. E in questo non vi sarebbe alcun passo avanti, se il regime russo dovesse avere la meglio. «Questa è la nostra guerra come ucraini, ma noi stiamo combattendo anche in quanto LGBTQIA+. Ci stiamo confrontando con un nemico tirannico e omofobo» ha riferito Viktor Pylypenko alla rivista “The Israel Hayom”. «A questo punto siamo tutti uniti. Non importa quale sia l’identità di genere o l’orientamento sessuale, tutti insieme dobbiamo farci sentire» ha dichiarato Lenny Emson, Direttore di “Kiev Pride”.

Questa è una resistenza contro un’avanzata armata, ma anche contro l’omofobia.

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