GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA ESTERA EUROPEA E LA NATURA DEL SUO SISTEMA DIFENSIVO

, di Sergio Pistone

GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA ESTERA EUROPEA E LA NATURA DEL SUO SISTEMA DIFENSIVO

Questa analisi si articola in tre momenti: 1) l’individuazione del concetto ispiratore di una valida politica estera dell’Unione europea (UE), che non può che consistere in una politica di unificazione mondiale; 2) il chiarimento che l’avvio effettivo di questa politica ha la sua premessa imprescindibile nella piena federalizzazione dell’UE, la quale comporterà il passaggio dal monopolarismo a un sistema pluripolare cooperativo; 3) la precisazione delle caratteristiche fondamentali del sistema difensivo dell’UE, le quali sono ovviamente subordinate agli obiettivi della politica estera.

1. L’UE è una comunità di Stati democratici impegnati nella costruzione di un sistema democratico sovranazionale, cioè di una federazione (come è indicato nella Dichiarazione Schuman, anche se persistono forti opposizioni nei confronti di questa finalità).

Questa caratteristica implica che il concetto ispiratore di una valida politica estera dell’UE debba essere riassunto nella famosa parola d’ordine (ripresa nel 1941 da Roosevelt) con cui il presidente americano Woodrow Wilson giustificò l’ingresso degli USA nella prima guerra mondiale: «Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia».

Questa frase significa essenzialmente tre cose: lo scopo fondamentale della politica estera è in generale il perseguimento della sicurezza nei confronti delle minacce esterne; la sicurezza di cui ha specificamente bisogno uno Stato democratico implica un ambiente internazionale favorevole al mantenimento e allo sviluppo del sistema democratico; ciò significa non solo controbattere gli Stati antidemocratici e aggressivi ma anche perseguire una situazione internazionale in cui la conflittualità violenta sia ridotta e tendenzialmente eliminata — dal momento che una situazione di forte conflittualità impone il primato della sicurezza rispetto a quella della libertà — e in cui sia garantito il progresso economico (che è fondamentale per lo sviluppo democratico).

Ciò precisato, si tratta di chiarire cosa significa nella attuale situazione storica rendere il mondo sicuro per la democrazia. Qual è dunque la situazione del mondo oggi? Quali sono i problemi da affrontare? Anche qui può soccorrere una formula sintetica, e cioè quella coniata da Ulrich Beck, secondo cui noi viviamo nella società del rischio.

La società del rischio è la società transnazionale globale, caratterizzata da una sempre più ampia e profonda interdipendenza, che ha la sua forza trainante nell’avanzata rivoluzione industriale e nella sua transizione verso il modo di produzione post-industriale o scientifico. Il mondo globalizzato è il contesto storico di lunga durata in cui viviamo ed è caratterizzato da profonde contraddizioni. Da una parte, esistono grandiose potenzialità di progresso economico, sociale e democratico per l’intera umanità. Dall’altra parte siamo confrontati da sfide esistenziali le quali, nel loro effetto combinato, pongono in discussione non solo il progresso, bensì la stessa sopravvivenza dell’umanità e chiaramente minacciano la sopravvivenza del sistema democratico. Mi concentro qui sulle tre sfide più importanti, poiché sono le fondamentali parti costitutive del problema della sicurezza nella nostra epoca

La prima sfida emerge dall’esistenza di una interdipendenza sociale ed economica su scala globale priva di governo. E’ chiaro che la ricchezza dei paesi avanzati e le prospettive di progresso per tutti i popoli del mondo sono fondate su questa interdipendenza. Ma sono pure evidenti le enormi contraddizioni connesse con questa situazione, e in particolare: a) le catastrofiche crisi economico-finanziarie che bloccano la crescita economica; b) il fatto che il 20% della popolazione del mondo ha a sua disposizione l’80% delle risorse mondiali; questo è chiaramente il fattore determinante alla base del terrorismo internazionale, dal momento che una così enorme ingiustizia in un mondo sempre più integrato (sul piano del commercio, della produzione, dell’informazione e della mobilità umana) non può che produrre odio fanatico su larga scala, nichilismo, fondamentalismo religioso, dispotismi e avventurismi internazionali — in sostanza il terreno di coltura delle reti terroristiche; c) la mobilità umana e una emigrazione di dimensioni senza precedenti comportano una crescente circolazione del crimine organizzato e delle epidemie.

La seconda sfida è rappresentata dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Con la fine del bipolarismo il problema fondamentale della sicurezza non è più il contenimento di uno scontro fra le superpotenze, bensì il contenimento di una instabilità globale che ha le sue radici nell’effetto combinato della globalizzazione senza governo e nel fatto che è venuto meno il fattore di relativa stabilizzazione costituito dalla disciplina bipolare. La nuova situazione internazionale favorisce — in particolare attraverso il terrorismo internazionale e gli Stati che collassano — la proliferazione delle armi di distruzione di massa e nello stesso tempo rende inefficace l’equilibrio del terrore, che presuppone Stati con un territorio ben definito che funge da ostaggio.

La terza sfida è la minaccia dell’olocausto ecologico, la cui evidenza è tale da non richiedere in questa sede alcuna puntualizzazione.

Queste sono le sfide esistenziali a cui si deve dare una risposta adeguata, se si vuole rendere il mondo sicuro per la democrazia. Poiché il filo conduttore delle sfide che emergono dalla società del rischio è l’esistenza di una società globale senza governo, l’unica risposta valida non può che essere una politica di unificazione mondiale. Questa politica deve avere come principio guida il disegno (di respiro storico) della costruzione di un sistema federale mondiale articolato, sulla base del principio di sussidiarietà, in federazioni continentali, Stati nazionali, regioni e comunità locali. Il federalismo è in effetti l’unico sistema istituzionale in grado di realizzare il governo democratico dell’interdipendenza. E’ necessario d’altra parte individuare i percorsi concreti lungo i quali si deve muovere, per essere produttiva, la politica di unificazione mondiale. I percorsi da seguire simultaneamente e che tendono a convergere sono in sostanza due.

Il primo percorso consiste nell’impegno a esportare nel mondo l’esperienza dell’integrazione europea come modello di pacificazione, progresso economico-sociale e democratizzazione. Questo impegno significa evidentemente favorire le integrazioni regionali, che sono la via insostituibile per pacificare le aree conflittuali (con la conseguente drastica limitazione delle tendenze autoritarie e delle spese militari) e formare sistemi economici che superino le dimensioni asfittiche dei piccoli Stati, realizzino le premesse economico-sociali della democrazia e siano in grado di difendere efficacemente i propri interessi nel quadro dell’economia globale. In un senso più lato rientra in questo impegno una forte politica diretta a rendere stabili e democratici i grandi Stati che hanno già dimensioni continentali, come la Russia, la Cina e l’India, ma che non sono certo grandi federazioni democratiche. In sostanza, se l’integrazione europea (favorita in modo decisivo nel suo avvio dalla politica americana) rappresenta un grandioso esperimento (come sappiamo ancora incompiuto ma già fornito di una fortemente istruttiva esemplarità) di state-building, cioè di costruzione dello Stato democratico, si tratta di generalizzare questa esperienza. Ciò significa avanzare concretamente verso un mondo più progressivo e pacifico e nello stesso tempo costruire i pilastri fondamentali della futura Federazione mondiale.

Il secondo percorso fondamentale di una politica di unificazione mondiale è rappresentato dalla rifondazione e dal rafforzamento dell’organizzazione internazionale globale. Da una parte, ci sono problemi che devono essere affrontati a livello globale: la distruttiva instabilità economico-finanziaria, le enormi ingiustizie che caratterizzano la globalizzazione, il terrorismo internazionale, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i conflitti violenti, l’emergenza ecologica, la criminalità transnazionale. Dall’altra parte, non è possibile realizzare a livello mondiale un’integrazione approfondita come quella realizzabile su scala regionale, dove la maggiore interdipendenza, la relativa vicinanza, la comunanza culturale rendono già oggi possibili, anche se assai difficili, istituzioni sovranazionali a vocazione federale. Ciò non toglie che si debbano e si possano realizzare riforme di grande rilevanza dell’organizzazione internazionale globale, apprestando strumenti che affrontino in modo decisamente più efficace le sfide sopraindicate e, in particolare, istituzionalizzino la solidarietà fra paesi ricchi e paesi poveri. I due pilastri qui sommariamente descritti della politica di unificazione mondiale sono organicamente correlati, nel senso che si rafforzano reciprocamente. Questa correlazione appare particolarmente chiara nel discorso sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui dovrebbero essere presenti gli Stati continentali esistenti e le espressioni istituzionali dei processi di integrazione regionale, a cominciare ovviamente da quella europea.

2. L’avvio di una efficace politica di unificazione mondiale ha la sua premessa imprescindibile nella piena federalizzazione dell’Unione europea.

Per cogliere adeguatamente questo punto, occorre capire che i soggetti trainanti della politica di unificazione mondiale non possono che essere i grandi Stati democratici. Anzitutto, questi hanno un interesse vitale a questa politica, dal momento che le sfide esistenziali che l’umanità deve affrontare sono anche, molto concretamente, sfide alla sopravvivenza del sistema democratico, il quale è chiaramente destinato a soccombere in un mondo avviato verso una conflittualità esasperata, generalizzata e senza percepibili vie d’uscita. In secondo luogo, solo i grandi Stati democratici hanno le risorse materiali (economiche, tecnologiche, di capacità di azione internazionale) ed etico-politiche (solo la democrazia, che è fondata sulla limitazione costituzionale del potere e quindi sull’eliminazione dei rapporti di forza all’interno, è in grado, strutturalmente, di accettare la limitazione consensuale del potere all’esterno, il che non toglie che anche in essa si debba superare la tendenza all’autoconservazione del potere) necessarie per attuare una politica diretta alla costruzione della democrazia internazionale. Un’altra importante caratteristica degli Stati democratici è l’esistenza in essi di forti e diffusi movimenti per la pace e la solidarietà sovranazionale, i quali possono esercitare una pressione decisiva sui governi democratici in direzione del federalismo.

Ciò precisato, deve essere d’altro canto chiaro che l’avvio da parte degli Stati democratici di una effettiva politica di unificazione mondiale presuppone un radicale cambiamento — che solo la realizzazione della Federazione europea può produrre — della situazione di potere che caratterizza i loro rapporti. Oggi esiste un solo grande Stato democratico pienamente capace di agire: gli Stati Uniti d’America. Ma, benché essi abbiano un interesse vitale ad una politica di unificazione mondiale, la loro oggettiva situazione di potere costituisce un enorme ostacolo rispetto all’accettazione dei costi che una tale politica comporta. Si tratta di costi in termini di risorse economiche, poiché è in questione una coerente globalizzazione della logica del Piano Marshall, implicante un aiuto economico di dimensioni grandiose (collegato a un decisivo aiuto sul piano della sicurezza), subordinato alla scelta della pacificazione-integrazione e della democratizzazione. E si tratta di costi estremamente rilevanti in termini di limitazioni della sovranità necessarie per costruire un sistema istituzionale mondiale che, anche se è destinato per una lunga fase ad avere una natura prettamente confederale, implica nondimeno un meccanismo decisionale multilaterale e non egemonico.

Orbene, due sono i fattori decisivi che ostacolano negli USA l’accettazione di questi costi. Il dato basilare è la posizione di fatto egemonica che gli USA hanno nel sistema mondiale. Ciò fa sì che su questo paese ricada in modo tendenzialmente esclusivo il compito pesantissimo di produrre sicurezza per il mondo ed alimenta nello stesso tempo una diffusa mentalità imperiale nella società e nella classe politica americana, una sorta di vertigine della potenza, che ha caratterizzato nella storia tutte le potenze assurte a una posizione di netta preminenza (Dehio). E’ ovvio che in questa situazione non ci sono negli USA — che pure hanno avuto il grandissimo merito storico di sconfiggere dapprima i tentativi egemonici tedeschi e poi la sfida del totalitarismo comunista e che hanno d’altro canto un interesse vitale a una politica di unificazione mondiale — le condizioni politiche e psicologiche per accettare i costi che una politica di unificazione mondiale comporta in termini di limitazioni della sovranità assoluta e del consumismo sfrenato.

Il secondo fattore consiste nel fatto che gli USA, se hanno una netta preminenza sul piano politico-militare, non hanno più la posizione economica dominante che avevano negli anni ‘40 e ‘50 e che aveva loro permesso di farsi carico del Piano Marshall e di assumersi i costi del governo dell’economia mondiale. Al declino economico americano è corrisposta in effetti la scelta di fondare la stabilità e lo sviluppo dell’economia mondiale sul ricorso alle forze del mercato (liberalizzazione progressiva del movimento dei capitali, deregulation finanziaria, progressiva riduzione dell’intervento pubblico nell’economia), che è stato giustificato con l’ideologia liberista imposta alle principali istituzioni finanziarie e commerciali mondiali e che di fatto ha significato chiamare il resto del mondo a finanziare il potere americano.

Alla luce di questa situazione si possono cogliere le basi oggettive dell’attuale strategia americana, che non può quindi essere intesa essenzialmente come una scelta dell’amministrazione di Bush jr. In sostanza la risposta che il governo americano è condizionato a dare alle sfide che emergono da un mondo sempre più interdipendente e che è diventato una comunità di destino, invece che una politica di unificazione mondiale è una deliberata politica di stabile egemonia mondiale. Dato questo orientamento, l’accento è posto essenzialmente su un unilateralismo sistematico (che rifiuta gli accordi — dal Protocollo di Kyoto al Tribunale penale internazionale — che ostacolerebbero la politica di potenza americana, e tende a delegittimare l’ONU invece che a rafforzare la sua efficacia), sulla supremazia militare (il che implica uno spettacolare riarmo), sulla guerra preventiva, come è avvenuto nel caso dell’Iraq.

Questa strategia, che è destinata a produrre una crescente instabilità, ha una certa analogia (senza dimenticare ovviamente che gli USA sono una democrazia e che nell’era nucleare le guerre generali sono diventate inconcepibili) con la strategia delle potenze europee nella prima metà del XX secolo. In quell’epoca le grandi potenze europee dovevano affrontare la sfida della crisi dello Stato nazionale (la rivoluzione industriale richiedeva la creazione di Stati di dimensioni continentali), ma essendo ancora potenti, non erano disposte ad accettare le limitazioni di sovranità necessarie per realizzare una unificazione consensuale. In tali circostanze, in cui l’alternativa era «impero o federazione», le potenze europee scelsero la via dell’espansione imperiale, che culminò nel tentativo tedesco di unificazione egemonica dell’Europa.

Dopo aver visto la situazione degli USA veniamo ora a quella dell’Europa di oggi. L’UE è una grande comunità di Stati democratici che ha un interesse particolarmente profondo nel promuovere l’unificazione mondiale e che esprime effettivamente un orientamento in questa direzione. Manifestazioni concrete di questo orientamento sono: le posizioni a favore della Corte penale internazionale e del Protocollo di Kyoto; un atteggiamento generale a favore del rafforzamento dell’ONU; una politica favorevole alle integrazioni regionali; il fatto che l’UE e i suoi Stati membri forniscono il maggior contributo all’aiuto allo sviluppo; l’esistenza dei più grandi movimenti per la pace e la solidarietà globale; il documento «Un’Europa sicura in un mondo migliore» presentato dall’Alto rappresentante per la PESC, Javier Solana, ed accolto dal Consiglio europeo di Bruxelles del 12-13 giugno 2003.

Si deve anche sottolineare che la vocazione europea per una politica di unificazione mondiale ha profonde radici nella mancanza di una sindrome imperiale; il che è dovuto al fatto che l’unificazione europea si è sviluppata come conseguenza della catastrofe delle politiche di potenza e si fonda sulla scelta storica della limitazione della sovranità, la quale implica una spinta oggettiva ad esportare questa esperienza nel mondo.

Ciò precisato, è d’altra parte evidente che l’Unione europea, a causa della sua incompleta federalizzazione, è incapace di trasformare la sua vocazione in una efficace e sistematica politica di unificazione mondiale. Federalizzazione completa significa in sostanza: trasferimento della politica estera (incluso l’aiuto allo sviluppo) e della difesa a un organo democratico sovranazionale, cioè alla Commissione fornita, sotto il controllo del Parlamento europeo e della Camera degli Stati, del potere di costruire una diplomazia e un esercito unici; potere sovranazionale di tassazione in modo da avere un bilancio adeguato; eliminazione dei diritti di veto nazionale relativamente alla revisione costituzionale.

Una piena federalizzazione dell’UE avrebbe due fondamentali e connesse conseguenze. Da un lato, l’UE avrebbe gli strumenti per operare efficacemente come attore globale, come è dimostrato dall’efficacia con cui l’Unione agisce nei settori (moneta, concorrenza, commercio) in cui non è bloccata dai veti nazionali. Dall’altro lato, un’UE pienamente federale modificherebbe in modo decisivo l’equilibrio mondiale, in quanto sarebbe un fattore in grado di controbilanciare la potenza americana e, quindi, di eliminare la situazione che blocca l’adozione da parte dei più avanzati paesi democratici di una risposta adeguata alle sfide del XXI secolo. In sostanza, si realizzerebbe il passaggio dall’unipolarismo al pluripolarismo, dal momento che il riequilibrio della potenza americana aprirebbe più ampi spazi di influenza sugli affari mondiali alla Cina, alla Russia, all’India e ad altri soggetti politici. Il sistema pluripolare del XXI secolo sarà caratterizzato, a differenza di quello dei secoli passati, da una spinta cooperativa, perché l’esistenza di una società globale del rischio spinge oggettivamente alla cooperazione per la comune sopravvivenza, cioè, in ultima analisi, a unirsi per non perire.

In questa situazione un’Europa federale sarebbe in grado non solo di avviare una forte politica di unificazione mondiale — ponendo termine alla solitaria egemonia americana, con i pesi, le tentazioni e la ybris che essa comporta —, ma anche di coinvolgere in questa politica gli USA e di persuaderli a superare l’unilateralismo, che si fonda precisamente sull’esistenza di un solo lato dell’equilibrio mondiale. In altri termini, una partnership bilanciata fra USA ed UE agirebbe come il nucleo guida della politica di unificazione mondiale.

Qui un paragone storico con le relazioni Europa-USA negli anni ‘40 può di nuovo essere utile. In quell’epoca gli USA posero termine alla centralità del sistema europeo degli Stati nell’equilibrio mondiale e in tal modo crearono le condizioni dell’avvio del processo di unificazione europea, che divenne una concreta alternativa alla politica di potenza. Oggi un’Europa pienamente federale riequilibrerebbe la potenza americana (attraverso l’unificazione europea consensuale e non una guerra mondiale!) e contribuirebbe così in modo decisivo al passaggio degli USA dalla politica di potenza e dall’unilateralismo a una politica di unificazione consensuale su scala globale.

3. In questo quadro si deve chiarire la natura del sistema difensivo europeo.

Se è chiaro che la Federazione europea avrà, nel senso sopra indicato, una vocazione ad attuare una politica di unificazione mondiale, da questo fattore discendono varie conseguenze che espongo qui molto schematicamente. Vediamo anzitutto il concetto ispiratore della difesa europea.

Il compito fondamentale che abbiamo oggi di fronte sul piano della sicurezza è quello della costruzione di una polizia internazionale come strumento della state-building, ovviamente in collegamento con l’aiuto allo sviluppo, la formazione delle strutture amministrative, ecc. Ciò implica che la costruzione di un esercito unico europeo diventi un aspetto del rafforzamento dell’ONU, a disposizione della quale devono essere poste le forze di sicurezza europee. Questa scelta deve avere un ancoraggio formale e solenne nella Costituzione europea, la quale deve non solo indicare nella pace la finalità guida della politica estera europea, ma anche specificare l’impegno alla limitazione della sovranità a favore dell’ONU e la programmatica disponibilità delle forze armate europee per i compiti di polizia internazionale.

Questo principio ispiratore — la difesa europea come momento della formazione della polizia internazionale — ha tutta una serie di implicazioni concrete in termini di rapida mobilità, integrazione organica con i corpi di pace, capacità di stanziamento a lungo termine in Medio Oriente e in Africa (nel quadro della politica a favore delle integrazioni regionali). A questo riguardo l’introduzione del servizio civile obbligatorio (con la possibilità di compierlo a livello locale o nazionale o sovranazionale) dovrebbe essere un aspetto cruciale del ruolo mondiale dell’Europa.

Per quanto riguarda le armi di distruzione di massa, la politica europea dovrà sviluppare una strategia contro la loro proliferazione, ma anche per la loro eliminazione. In questo quadro sarà di grande importanza l’impegno (con un ancoraggio costituzionale) a trasferire all’ONU questo tipo di armi che la Federazione europea erediterà dagli eserciti nazionali.

Quando si parla di difesa europea emerge normalmente il discorso sui suoi costi enormi e, quindi, sulla sua incompatibilità con il mantenimento dello Stato sociale. Questo argomento non tiene conto del fatto che le dimensioni della spesa militare americana (che viene presa come punto di riferimento) derivano dalla posizione degli USA di unica superpotenza e perciò spinta a dare una risposta egemonica al problema della governabilità del mondo. In realtà, ai fini di una politica di unificazione mondiale che l’Europa federale con una difesa unica sarebbe in grado di attuare, non sarebbe assolutamente necessario aumentare la spesa complessiva. Per rendersene conto, basta pensare agli sprechi enormi derivanti dalla divisione nazionale della spesa, dalla mancata standardizzazione degli equipaggiamenti, dalla dispersione e sovrapposizione delle attività di ricerca. Questi sprechi comportano che, per esprimere una capacità militare pari a quella americana, gli europei dovrebbero spendere 5 o 6 volte di più degli americani. Per contro la creazione di forze armate federali europee permetterebbe enormi risparmi, e quindi un’efficienza militare adeguata ai compiti di sicurezza a cui è chiamata l’Europa, senza aumentare (e anzi tendenzialmente diminuendo) il livello attuale della spesa complessiva.

Quanto detto in precedenza chiarisce anche la questione del rapporto fra difesa europea e NATO e, più in generale, del rapporto USA-Europa. E’ evidente che l’autonomia difensiva che l’Europa acquisterebbe con la difesa unica comporterebbe automaticamente il superamento del protettorato americano sull’Europa e la trasformazione dell’Alleanza atlantica in una autentica partnership fra eguali. A questo riguardo occorre sottolineare che l’avvio di una politica di unificazione mondiale dovrà coinvolgere anzitutto gli Stati Uniti per essere produttiva, perché è evidente, come si è detto prima, che i soggetti politici propulsori di questa politica non potranno che essere le federazioni democratiche continentali. Esse saranno il nucleo di avanguardia del processo di unificazione mondiale. E pertanto una vera partnership costituirà un fondamento strutturale del progresso verso un mondo più giusto e pacifico. Per contro proprio il ritardo rispetto alla necessità di costruire il pilastro europeo della partnership Europa-USA è alla base della strategia imperiale americana, la quale boicotta apertamente l’integrazione europea e mina la solidarietà fra le due sponde dell’Atlantico.

C’è infine da segnalare la relazione critica fra l’approccio intergovernativo alla difesa e il processo democratico in Europa. Qui c’è una contraddizione insuperabile. Se non si vuole accentuare il deficit democratico che caratterizza l’integrazione europea, si deve mantenere uno stretto controllo democratico dei parlamenti nazionali sul comportamento dei rappresentanti nazionali negli organi di cooperazione difensiva. Il che non può che rendere più difficile il raggiungimento del consenso, dato che i parlamenti nazionali non hanno il compito di perseguire l’interesse comune europeo. Per contro, la cooperazione intergovernativa può limitare la propria strutturale inefficienza decisionale, solo sganciandosi più o meno apertamente dai controlli democratici nazionali. Solo la piena parlamentarizzazione federale dell’UE può conciliare efficienza decisionale e controllo democratico.

Intervento del prof. Sergio Pistone al Congresso UEF di Genova (2004). Pubblicato su «Il Federalista», Anno XLVI, 2004, n. 2.

Fonte immagine: Torange.

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