L’uomo tende a disegnare ciò che pensa possa essere qualcosa di, in potenza, reale. O anche ciò che non vorrebbe mai lo diventasse. Quando Orwell ha scritto sia “1984” che “La fattoria degli animali”, difficilmente potremmo affermare che l’autore volesse si realizzassero esattamente quelle distopie. Al contrario, possiamo invece pensare che Thomas Moore, nella preparazione della sua Utopia, mirasse alla sua realizzazione, così come Kant probabilmente ha provato qualcosa di simile verso la sua pace perpetua. Nella scrittura, nel disegno, o nei film e nei videogiochi, si disegnano le utopie che sogniamo e le distopie che vorremmo non veder mai nel mondo reale. Questi disegni sono, allo stesso tempo,forti rimandi verso l’azione stessa dell’uomo. Non solo lingue guida, ma delle spinte.
Non solo filosofia o saggistica, ma anche nell’arte che possiamo considerare come più pop, popolare, di massa, vi sono forti rimandi a ciò che si pensa possa essere considerato giusto, da parte di colui che impugna il pennello o la penna. Propaganda politica, ma anche semplicemente la trasmissione di senso, di un valore, di un’etica, passano attraverso le carte di libri e fumetti altrettanto quanto attraverso le parole dei politici prima di un’elezione.
I legami tra forme d’arte e di immaginazione, e la politica, sono vari, tantissimi. Approfonditi e studiati da specialisti come Foucault o Benjamin in vari saggi (come non ricordare The Work ofArt in the Age of Mechanical Reproduction), che hanno cercato di comprendere la relazione tra forma d’arte e politica, nel suo agire e nel suo essere teorico. Non vogliamo soffermarci tanto sulla relazione esclusiva tra arte e politica, o arte e messaggio politico, che molti han trattato molto bene e approfonditamente nel corso degli anni.
Quello che si vuole affrontare piuttosto è il legame tra queste forme di arte immaginifiche del futuro e l’Europa. Perché, nonostante pensatori come Lucio Caracciolo non gli diano la giusta attenzione, esperimenti come quello dell’Unione Europea vengono compiuti sulla scia non solo del pragmatismo meramente politico-economico, ma anche sull’onda dei processi di cambiamenti storici e sociali di magnitudo rilevanti che si appoggiano, immancabilmente, all’idealismo.
Idealismo, una parola che identifica un movimento di pensiero e di filosofia che oggi viene spesso guardato con un sorriso, se non ironico, quasi compassionevole. In un mondo come quello contemporaneo, materialista e pragmatico nel senso più puro dei due termini, in quanto legato al pragmatismo delle cose e alla materialità di perdite e guadagni, certo potrebbe sembrare una parola antica, idealismo.
Di nuovo, non vogliamo entrare squisitamente nel dibattito tra idealismo e pragmatismo, ma ragionare su questi due termini, applicati a questa Europa che, seppur lentamente, continua a muoversi verso il suo futuro. Quale futuro, però? Che l’Europa si muova, questo è indubbio. Per quanto possa essere impacciata nel suo muoversi, l’Europa si sta muovendo. La crisi del 2008 dei mercati finanziari; i conflitti nell’area mediterranea e mediorientale, ucraina e caucasica; la pandemia globale di coronavirus. Eventi shock per il sistema contemporaneo hanno affollato le pagine dei libri e dei giornali degli scorsi dieci-quindici anni. Seppur lentamente, spesso senza la decisione che ci si sarebbe auspicati, l’Unione Europea si è mossa, affrontando le crisi esogene e quelle endogene, come la Brexit o i movimenti nazionalisti al meglio delle sue possibilità, lentamente adattandosi ed evolvendosi.
Non ha sempre preso la strada che, come federalisti, spesso ci si è immaginati fosse in qualche modo un discendente verso quel futuro di stato federale che ci si auspica, in una forma o nell’altra. Alcune volte i processi intergovernativi han vinto su quelli comunitari, con grosso smacco di chi invece parteggia per i secondi; in altri casi quest’ultimi hanno prevalso, con un ruolo del Parlamento Europeo sempre più alla ribalta sulla scena comunitaria come organo democratico, diretta voce dei suoi elettori.
Molti di questi movimenti compiuti dal sistema Europa son stato frutto di contingenze, sfruttate dagli attori politici per portare avanti la propria battaglia, spesso in maniera immediata e non riflessiva. Quello che manca, nella maggioranza degli attori politici, è una logica di lungo corso. Movimenti, come quelli federalisti, influenzano il processo decisionale tramite operazioni di lobbying, nonché tramite una costante diffusione degli stessi valori che promulgano. Sebbene guidati da quello che possiamo considerare un ideale in tutti i sensi, le battaglie raramente vengono lette dai più come un percorso verso un obiettivo ben specifico.
Se l’attore politico in potenza lo ha e lo stakeholder, il lobbista, ha altrettanto ben a mente che la battaglia, così la possiamo definire, è sempre inserita all’interno di una guerra (metaforica, si intende), quello che manca è la capacità di far leggere ai più, coloro che davvero dovrebbero decidere del futuro dell’Europa, un senso storico, ideologico, ideale, e anche riflessivo, di tale percorso.
L’arte, in tal senso, ce lo mostra chiaramente. L’arte è spesso chiarificatrice di ciò che ci si aspetta dall’esistenza e dal futuro. Ricollegandoci a quanto detto prima, le opere di Orwell disegnavano delle distopie da cui in qualche modo l’autore voleva metterci in guardia. Da meccanismi, che aveva osservato già negli anni della sua vita, che aveva in parte previsto e che aveva reputato discutibili, a dir poco.
Ma facciamo l’esempio opposto. Gene Roddenberry è l’uomo che ha creato Star Trek, una serie di fantascienza americana tra le più famose al mondo. Nonché, nelle intenzioni originali, una delle serie più ottimiste nella propria visione del futuro che fosse possibile immaginare. Nel mondo ideato originariamente da Roddenberry l’umanità è federata insieme ad altre razze aliene in un organismo politico interplanetario, pacifista ma ben armato; ideale nell’economia ma ancora rappresentante alcuni vizi e problemi del mondo contemporaneo. Non possiamo scendere eccessivamente nei dettagli del mondo creato, né tanto meno presentare alcune problematiche rappresentate dal fatto di essere un prodotto culturale americano in piena guerra fredda. Resta una serie estremamente ottimista sul futuro della razza umana. Nella plancia di comando della leggendaria USS Enterprise [1], l’ufficiale timoniere è cinese, l’ufficiale alle armi russo, l’ufficiale alle comunicazioni una donna di colore. Lo scientifico, il comandante Spock, un alieno che è anche un contro-bilanciere del capitano, americano (espressione ideale di cosa forse, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe essere un prototipo di personaggio positivo). Nella serie originale, la Federazione è un’entità che si vede poco, quasi astratta ma pura negli scopi. I suoi errori sono spesso legati a persone che, nel meglio delle loro intenzioni, sbagliano nel come cercano di ottenerli. Perché parliamo di Star Trek? Perché dopo la serie degli anni ’60-’70, ne seguì un’altra, The Next Generation, anni ’90. Più moderna nella tecnologia, iniziò a trattare temi molto complessi già per l’epoca (quali il diritto a morire, il diritto di aborto, il ruolo delle donne e delle minoranze, la giustizia ma anche l’uso della forza quando legittimo e quando no, discorsi che in prodotto di massa come TNG non è sempre stato facile trovare). Ancora più importante, insieme alle serie quasi spin-off Deep Space Nine e Voyager, iniziò a presentare la Federazione come un’entità non perfetta, ideale nella carta (come qualsiasi stato) ma nella pratica corrotta sia da entità ostili esterne, che a volte interne.
È DS9 a introdurre la Sezione 31, un gruppo di operazioni speciali dell’intelligence federali che seguendo il detto ciceroniano del “In guerra, le leggi tacciono”, svolge il lavoro sporco affinché la democrazia federale possa sopravvivere a delle sfide insormontabili con i mezzi tradizionali. Cambiati i tempi di proiezione e sviluppo, cambiato anche la visione del futuro. Il futuro disegnato dalle serie più tardive di Star Trek è certamente più utopico di quello di Orwell, ma fin dagli anni ’90-2000 ha iniziato ad assumere un grado di realismo maggiore nella rappresentazione delle entità politiche ma anche di disillusione nel potersi lasciare alle spalle alcune caratteristiche prettamente contemporanee della politica, come il pragmatismo, un realismo estremo nell’azione politica; un rimando anche alle storture del sistema statale considerato democratico; dei suoi rischi, delle difficoltà che tale sistema, pur nella sua forma ideale, deve affrontare per sopravvivere.
È indubbio che il disincanto di Star Trek sia in qualche modo legato a doppio filo ad un sempre maggior disincanto nelle opere artistiche in generale. Si potrebbe a lungo discorrere di questo, della maturità che serie TV e film hanno guadagnato nel tempo portando ad affrontare tematiche più complesse, ma è vero anche un filo che procede al contrario. Sembra essersi persa in parte una capacità anche di proiezione utopica verso il futuro, un disegnare delle linee del futuro che possano essere in qualche modo diverso, vario. È vero, come affermano alcuni studiosi, che nulla si muove nella Storia senza un processo economico alle spalle. Altrettanto vero che la storia è una catena di anelli strettamente legati, riconducibili a eventi antichissimi apparentemente sconnessi dal presente. Altrettanto vero, le crisi cambiano il mondo più della lenta e costante evoluzione. Eppure, in tutto questo, la volontà non solo individuale, ma della massa, è quanto meno fondamentale perché il cambiamento prenda una curva a sinistra, piuttosto che una a destra o che faccia una rotonda e torni al punto di partenza.
Bisogna saper rappresentare il futuro, e idearlo soprattutto, renderlo un possibile ideale raggiungibile, perché quella strada venga anche solo imboccata. Non parliamo di utopici ideali quali quello di Moore o quello di Kant, sistemi perfetti. Parliamo di disegnare i contorni, la forma, di un possibile sistema politico europeo assolutamente realizzabile e soprattutto, si parla della capacità di trasmettere alle masse, che sono l’unico vero strumento tramite cui il cambiamento diventa possibile, tale ideale.
I pragmatisti della politica spesso parlano dell’Unione Europea come un essere amorfo nato dai condizionamento post-secondo conflitto mondiale, incapace di prendere una strada che sia unica e che possa superare i limiti dello stato-nazione, il pilastro fondamentale di questo mondo post-westfaliano, araldi di questo concerto particolare di nazioni, quasi insuperabili. Se la storia è una catena di eventi, eppure, nessuno dei suoi segmenti è né eterno né costante. Il potere del papa e dell’imperatore nella visione medievale sono stati una costante per secoli, sostituiti dal sistema di Westfalia alla fine dei Trent’anni. Ne è solo un esempio, ma punta esattamente dove si vuole arrivare. I sistemi cambiano. A volte cambiano brutalmente, ma mai senza anticipazioni, più o meno piccole. Se si analizza la storia con occhio critico si possono trovare i fattori scatenati di eventi successivi, un lavoro forse più facile con le lenti del futuro, ma di lezione anche per il progetto politico contemporaneo, qualunque esso sia.
Il progetto federalista europeo non è nato semplicemente nel secondo dopoguerra. Storici, più attenti e bravi dello scrivente, possono tracciarne la storia ritrovandone i semi nei pensieri e nelle riflessioni di pensatori del passato, statisti e filosofi. Quello che serve oggi però non è, tanto, solo perdersi nell’analisi storica, degli errori compiuti e delle vittorie raggiunge. Quello che serve è una rinnovata capacità del federalismo di farsi idealedel futuro, sfruttando ogni strumento a disposizione (dall’arte fino alla saggistica), ma tornando a fare qualcosa che oggigiorno si è perso: fare da sogno.
Crisi e contingenze favorevoli non bastano, non basteranno mai, per poter realizzare un progetto politico. Senza la capacità di Hitler di disegnare un futuro (tetro, ai nostri occhi) ad una nazione in ginocchio quale la Germania e senza un contemporaneo spazio d’azione e di opportunità, il nazismo non si sarebbe imposto come uno spettro sull’Europa degli anni ’30 e ’40. Le sole contingenze storiche o la sola capacità di Hitler non avrebbero avuto quello come esito. Il federalismo trova capacità di manovra negli spazi interstiziali lasciati aperti dalle crisi, ma non può essere un movimento cieco, teso verso un generale obiettivo di “stato federale”. Come un bravo pirata, deve disegnare la mappa per il suo tesoro, e anche creare quest’ultimo. Le mappe per il tesoro sono però raramente per il pirata, ma per il futuro cacciatore. Così, allo stesso modo, il federalismo non può parlare a sé stesso. Sarebbe inconcludente. Sarebbe discussione da salotto, da accompagnare a una tazza di tè e due biscotti al burro. Il federalismo deve diventare contraltare, ideologico, ideale, ma anche pragmatico (nel senso che deve offrire un sogno ma anche un modo di costruirlo) al nazionalismo metodologico, a una concezione post-westfaliana del mondo, nata nel 1648 ma che ancora incide sul nostro ordinamento globale.
Si è parlato di arte perché l’arte esemplifica perfettamente tale percorso ideale. Si può creare un’immagine, una forma di quel che potrebbe essere il futuro ma si deve fare il passo in più del semplice immaginare, trovare ovvero la via per raggiungere. I disincanti del XXI secolo, quelli a cui lentamente anche l’arte ha compreso e messo in luce, non devono significare la fine della politica nel suo senso più alto. È vero che il mondo di oggi non è solo complicato, ma anche così tanto interconnesso da apparire un puzzle in cui i pezzi sono sparpagliati e incontrollabili, inconciliabili. Vero è altresì che non si può smettere di provare a imbrigliare il mondo in una forma meno caotica, controllabile anche soltanto in parte , che in qualche modo si faccia portatrice di un obiettivo che è più alto della visione individuale. Non vogliamo dire di vivere nel sogno positivista dell’assoluto controllo, ma neanche considerare il mondo come un grande caos del tutto incontrollabile. Ci sarà bisogno di essere pragmatici negli strumenti, ma mai nello scopo ultimo dell’azione.
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