Il federalismo militante: Vecchio e nuovo modo di fare politica

, di La redazione di Eurobull

Il federalismo militante: Vecchio e nuovo modo di fare politica

Il federalismo militante e organizzato è per definizione un modo di fare politica completamente diverso da quello tradizionale. Esso non può pertanto restare in vita – come ogni fatto storico veramente nuovo – se non riesce a superare, con un costante aggiornamento della sua teoria dell’azione, tutti gli ostacoli che trova sul suo cammino. Ciò mostra che esiste una stretta relazione tra il primo dei nostri problemi – restare in vita – e il problema del nuovo modo di fare politica. Per noi la questione è davvero di vita o di morte.

Io vorrei pertanto ricordare – in questo primo numero de «Il Dibattito federalista» – che c’è stato effettivamente un momento nel quale ci siamo chiesti che cosa avrebbe potuto tenere in vita il Mfe e la Gfe. Abbiamo fatto questo esame per alcuni anni – dopo la caduta della Ced (ricostruzione degli Stati nazionali con la restituzione della sovranità alla Germania occidentale) e la fine del primo Mfe, composto quasi esclusivamente da gente della politica nazionale (vecchio modo di fare politica) – proprio sulla base della constatazione che il federalismo organizzato non poteva ancora essere considerato come il vero «nucleo di una forza politica europea» perché: a) era soltanto una coalizione di Movimenti nazionali; b) non agiva in prima persona; c) non aveva ancora mili- tanti propri (Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, p. 254: «I fede- ralisti non hanno ancora sviluppato nel proprio seno un nucleo di militanti»).

È una discussione che abbiamo condotto sino in fondo, cioè sino a porci il problema dei mezzi e del modo con il quale sarebbero vissuti i federalisti. Spinelli voleva dei militanti come politici a tempo pieno, che avrebbero dovuto vivere di politica («uomini animati dalla passione politica, dall’ambizione di contare qualcosa fra i loro contemporanei», ibid., p. 254 e in generale pp. 252-59 – ma quanti sarebbero stati?).

Io volevo invece degli uomini che facessero della contraddizione tra valori e fatti che si manifesta nel nostro tempo una questione personale: dei militanti che, pur essendo politici di professione, lo fossero a mezzo tempo, senza salario, e con una possibilità di sopravvivere indipendente dal potere (si può pensare che Spinelli non abbia mai voluto comprendere il senso di questa scelta e quindi il senso stesso dell’azione del Mfe e della Gfe dopo il 1960 forse perché non si è mai compiutamente liberato della sua concezione illusoria di allora).

Ero giunto a questa conclusione per diversi motivi che riassumo brevemente.

Secondo me si doveva in primo luogo pensare a tempi molto lunghi (una forza nuova non si improvvisa) e quindi a mezzi propri (autofinanziamento, ecc.). Si doveva inoltre, in secondo luogo, tener presente che il federalismo come scelta politica prioritaria – cioè come criterio personale di condotta politica – non era mai esistito sino ad allora. I «federalisti» (o prefederalisti) del passato erano e si consideravano dei liberali o dei socialisti, ecc. Il federalismo non era, per loro, una priorità d’azione. Essi erano capaci di vedere certi aspetti della realtà storica con una concezione tecnico-giuridica del federalismo, ma quando si trattava di agire sceglievano sempre la via liberale o socialista ecc., cioè di fatto, nelle condizioni di allora (e in teoria sempre fino a che non esistano forti riferimenti esterni di carattere supernazionale), questa o quella via nazionale (vedi Robbins, Einaudi, ecc.).

Ciò significava che noi dovevamo cercare di dar vita a un comportamento politico del tutto nuovo; e significava anche che noi non avremmo potuto reclutare giovani già in parte formati spontaneamente dalla stessa società sulla base di tradizioni consolidate (come il liberalismo, il socialismo, ecc. che entrano persino nei manuali scolastici di storia); ma che avremmo dovuto invece sostenere reclutamento, formazione e lotta dei militanti con uno sviluppo teorico del federalismo che ne facesse qualcosa di analogo a ciò che erano stati il liberalismo, la democrazia e il socialismo nei loro momenti creativi (ed ecco la cultura come motivazione indispensabile).

Si doveva, infine, in terzo luogo, tener conto delle caratteristiche peculiari della nostra lotta. In effetti noi non potevamo valerci degli stimoli politici normali, quelli connessi con l’obiettivo della conquista e della gestione di un potere esistente, perché noi non dovevamo conquistare un potere, ma dovevamo – non da soli ma tuttavia come l’avanguardia di una unità popolare europea – crearne ex novo uno nuovo, la federazione, su una area già coperta dai vecchi poteri, gli Stati nazionali con sovranità assoluta (ed ecco la morale come motivazione indispensabile; ed ecco, a questo punto, la logica dell’azione per la pace, che sarà sempre, fino al raggiungimento dell’obiettivo, la lotta per un potere che non esiste ancora, e che si tratta di costruire).

Da allora è passato molto tempo. In alcuni paesi il federalismo organizzato è andato progressivamente spegnendosi. In altri è vissuto. In Italia è vissuto bene. So bene che c’è chi non condivide questa valutazione. Ma che in Germania il federalismo sia organizzativamente forte è un fatto. Ed è un fatto che il Mfe italiano è il federalismo organizzato che ha avuto il maggiore sviluppo politico e che ha ottenuto i maggiori risultati. La disponibilità europeistica e federalistica di tutti i partiti italiani (sufficiente per la ratifica dell’Unione) non è «caduta dal cielo», ma dipende anche dalla lunga lotta del Mfe. Orbene, se si considerano queste vicende della nostra storia, si trova che il federalismo ha vissuto dove ha fatto leva sulla morale (Germania), o sulla morale più la cultura (Italia), cioè dove si è servito del mezzo dell’influenza (difficile da riconoscere perché non è visibile come il voto, la violenza o la pressione corporativa) per modificare a vantaggio dell’Europa e del federalismo la situazione di potere; e non dove ha cercato – vanamente e con effetti autodistruttivi – di far leva sul potere nel senso stretto e personale del termine (esercizio diretto del potere, elezioni, ecc.).

C’è ancora una cosa da dire. La concezione che si è affermata in Italia si applica non solo alla forza federalista in quanto tale, ma anche, e specificamente, alle singole persone. Mi spiego con un esempio. Nella politica normale (anche rivoluzionaria, ma rivolta ad un potere che esiste già) è inevitabile, e persino giusto che ci sia non solo lotta fra i partiti, e al loro interno lotta fra le tendenze, ma anche, in ogni partito, una sorta di contesa di tutti contro tutti che si manifesta nel fatto che ciascuno cerca di utilizzare ogni errore o difficoltà dei propri compagni come un’occasione propizia per trasferire un po’ di potere da loro a sé stesso. Questo comportamento spesso inconsapevole (uno degli arcana imperii del vecchio modo di fare politica) è persino giusto, come ho detto, (salvo i casi patologici nei quali uno, dopo aver tolto potere agli altri, non riesce a conservarlo) perché non indebolisce ma rafforza i partiti, che avendo bisogno di leader con un potere effettivo sul partito (cioè sugli uomini che lo compongono), prosperano solo con un dura selezione dei dirigenti.

Per questo la tendenza a massimizzare il potere come fatto personale (al pari di ogni altra pratica del machiavellismo) si manifesta da sola, spontaneamente, anche senza una vera consapevolezza, quando la politica coincide, come accade abitualmente, con la lotta per un potere costituito in un mondo di Stati sovrani e armati. Ma nel Mfe questa linea di condotta – inevitabile sino a che non ci si pone davvero il problema di una politica al di là della ragion di Stato – è rovinosa. Il fatto è che nel Mfe non c’è la contropartita di questa contesa di tutti contro tutti: un bottino da dividere.

Nel caso dei partiti ciò che conta è, per un verso, che una parte, sia pure piccola, di potere c’è per tutti (salvo i completamente inetti); e, per l’altro, che un potere anche piccolo basta per fare o ottenere qualche cosa di utile, di tangibile, come per restare nel giro, per ritentare la scalata, ecc. È questo il fattore che, nonostante la contesa di tutti contro tutti, e il gioco alterno delle vittorie e delle sconfitte, tiene tutti sul campo, salvo coloro che si disgustano della politica e l’abbandonano. Ma nel Mfe questo fattore – questo bottino da dividere – non c’è se non in forma minima, illusoria e precaria. Se da noi qualcuno, come è capitato, persegue il potere a titolo personale (anche in perfetta buona fede, magari solo perché si ritiene più bravo degli altri, ma senza tener conto del fatto che l’eguaglianza, e non la gerarchia, è l’elemento vitale della morale e della cultura), ed effettivamente ne acquisisce una parte, constata anche che si tratta di un potere illusorio (in ogni caso, e in particolare ai fini della gloria, della vanità, delle prebende, della scalata al potere nazionale, ecc.), e allora se ne va, o cerca, finché può, di sfruttare il Mfe per fini di parte.

In entrambi i casi si tratta per il Mfe o di un danno, o della rovina se questa pratica, come è successo in qualche paese, prevale.

Nel Mfe è assolutamente necessaria la trasparenza, la reciproca fiducia, l’amicizia di tutti per tutti (il riferimento storico è l’idea del compagno, apparsa, ma non realizzata, nei partiti socialisti). Nel Mfe quando uno sbaglia, o si trova in difficoltà, va aiutato, e mai ridotto a mezzo per i propri fini, altrimenti si sperpera il solo patrimonio di cui può disporre il federalismo organizzato: un alto livello morale e culturale. Si ritrova così, sul piano della vita personale, ciò che costituisce l’elemento vitale del federalismo: la politica come rapporto umano con tutti gli uomini.

Il riferimento qui è la buona vita, il bene comune (nella sua relazione con l’eguaglianza, la partecipazione e la pace), cioè la concezione che ha raggiunto il livello della pensabilità nella Grecia classica, e che potrebbe raggiungere quello della realtà con l’applicazione del federalismo a tutti i livelli della vita sociale, che ormai includono lo stesso genere umano come una unità di attività e di destino.

Questo è il punto fondamentale. Il federalismo militante costituisce la linea di spartiacque tra la politica come è sempre stata (il potere che si manifesta solo attribuendolo a qualcuno, che ha la sua radice ultima nella divisione del genere umano, nel mondo come mondo delle nazioni armate e della guerra), e la politica come la ragione ha sempre cercato di pensarla (il potere che si realizza solo attribuendolo a tutti, che può trovare la sua radice solo nell’autogoverno dell’intero genere umano, nel mondo come mondo della pace, delle nazioni disarmate). Anche questa linea di spartiacque, come il vecchio potere, va difesa ad oltranza. Ma mentre il vecchio potere può essere difeso solo come il potere di alcuni sugli altri, come una oscura necessità di fronte alla quale la ragione deve cedere e ridursi a ragion di Stato, o di partito ecc., quello nuovo (che deve vivere sin da ora in una avanguardia per realizzarsi in futuro con la Federazione mondiale) può e deve essere difeso solo con la ragione, cioè con la condotta ragionevole di tutti gli uomini.

Ne segue un criterio essenziale, difficile da mettere in pratica ma decisivo per la vittoria o la sconfitta della ragione nella nostra era, quello della necessità della creazione di un governo mondiale, senza del quale l’eliminazione della guerra, e il controllo della potenza tecnologica dell’uomo, non sono che pie illusioni.

La difficoltà sta nel fatto che noi dobbiamo agire in modo nuovo nel mondo vecchio che sprigiona ancora, a livello pubblico, la frode e la violenza (mascherata o no). Ciò significa che capita anche a noi di dover usare il potere (il nostro piccolo potere interno) contro coloro che, fingendo o credendo di stare con noi, cercano di sbarrarci la strada con la frode o la violenza. Bene, anche in questo caso c’è una via: bisogna usare il nostro piccolo potere non come il potere personale di questo o quel dirigente, ma sempre e soltanto come il potere di tutti. Si tratta dunque, per ciascuno di noi, di far avanzare la volontà e la ragione sino al punto-limite nel quale la volontà personale coincide con la volontà generale e nel quale, sulla base dell’unità vivente del nostro pensiero, la ragione del singolo coincide con la ragione compiuta, quella di tutti.

Se riusciremo, il federalismo vivrà.

Quanto detto sinora mostra che il federalismo militante è riuscito a mettere in luce la linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo modo di fare politica. Il problema non è certo risolto, ma è, se non mi sbaglio, bene impostato. Grazie ad Altiero Spinelli noi sappiamo che si resta di fatto – persino contro le proprie intenzioni – nel campo della conservazione se non si sceglie come obiettivo strategico della lotta politica quello dello «Stato internazionale», cioè quello della democrazia internazionale (Manifesto di Ventotene). Su questa base è stato fondato il federalismo come priorità d’azione, e sulla base di questa direttiva d’azione, e dei problemi da risolvere per tenerla in vita sino a farne un fattore del processo politico, siamo riusciti a stabilire una seconda linea di demarcazione, che riguarda i comportamenti politici, e separa quelli con i quali è possibile impostare la lotta per la democrazia internazionale da quelli che trattengono ancora gli uomini nel campo della divisione del genere umano in nazioni esclusive ed armate.

Queste regole d’azione permettono di capire che si resta nell’ambito del vecchio modo di fare politica: a) se si cerca di perseguire l’esercizio diretto del potere e si subordina pertanto la propria azione alla logica dei poteri costituiti; b) se si rinuncia al tentativo di creare un nuovo potere nella vana convinzione di poter perseguire obiettivi nuovi con i poteri vecchi.

Noi dobbiamo dunque, sulla base di questi primi elementi di una nuova teoria dell’azione, continuare ad approfondire il dibattito con tutte le forze politiche, ed in particolare con i giovani, con i pacifisti (ma senza una teoria della pace) e con i «verdi», facendo loro osservare che si parla molto del nuovo modo di fare politica ma non si sa che cosa sia. Lo mostra il fatto che, al di fuori del federalismo militante, non ci sono ancora, a questo riguardo, né serie elaborazioni, né definizioni efficaci, né criteri operativi di carattere strategico.

Mario Albertini

In "Tutti gli scritti di Mario Albertini", a cura di Nicoletta Mosconi; «Il Dibattito federalista», I (gennaio-marzo 1985), n. 1. Ripubblicato in «L’Unità europea», XXIV n.s. (gennaio 1997), n. 275 e in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999.

Fonte immagine: Gioventù Federalista Europea.

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