Alla vigilia del secondo turno delle elezioni turche, un breve report per saperne di più

Il futuro della Turchia non sarà semplice

, di Francesco Castelli

Il futuro della Turchia non sarà semplice
Fonte: Image by Samuele Schirò from Pixabay, https://pixabay.com/photos/turkey-istanbul-crowd-tram-1104206/

Lo scorso 14 maggio, in Turchia, si sono tenute le elezioni generali. Si è votato:

Per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale (Parlamento unicamerale, 600 seggi)

  • Qui la coalizione conservatrice, l’Alleanza Popolare, guidata dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) del Presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, ha conquistato la maggioranza dei seggi (323) – ma non abbastanza da poter modificare la Costituzione autonomamente
  • Le opposizioni si sono presentate divise, ottenendo 212 seggi l’Alleanza della Nazione (indicativamente centrista) e 66 l’Alleanza per il Lavoro e la Libertà (sinistra progressista)

Per l’elezione del Presidente della Repubblica, principale detentore del potere esecutivo dal 2017 - quando una discussa riforma costituzionale abolì la figura del Primo Ministro

  • Il Presidente uscente Erdoğan ha ottenuto il 49.5% dei voti
  • Il principale sfidante, Kemal Kılıçdaroğlu, ha ottenuto il 44.9%. Kılıçdaroğlu è sostenuto da una coalizione molto eterogenea di partiti, il “tavolo dei sei”, a trazione centrista - ma con posizioni che spaziano dal laicismo social-democratico al conservaotrismo religioso. Il collante principale è l’opposizione alla deriva dell’uomo forte presa dalla Turchia sotto la guida dell’AKP e di Erdoğan
  • Terzo nei consensi è risultato - abbastanza inaspettatamente - Sinan Oğan (5.2%). Nazionalista e secolarista, da anni si oppone tanto ad Erdoğan quanto alle posizioni progressiste, e in particolare ai partiti filo-curdi, che avevano rinunciato a presentare un candidato per favorire la corsa di Kılıçdaroğlu

Siccome nessun candidato ha ottenuto il 50%, un ballottaggio per le Presidenziali si terrà il 28 maggio. Nel frattempo pubblichiamo un breve commento al risultato della prima tornata elettorale

Il primo turno elettorale in Turchia ci ha ricordato due concetti fondamentali:

1. Non possiamo applicare i criteri “di casa nostra” al mondo esterno

Poco più di due anni fa Mario Draghi - una delle voci europee più rispettate, e allora Presidente del Consiglio in Italia - definì senza mezzi termini Erdoğan “un dittatore con cui bisogna essere franchi, ma cooperare”. Che si sia trattata di una decisione deliberata o meno, quella frase (rivolta da e ad un alleato NATO) da una parte ben riassumeva l’opinione di una parte consistente di opinione pubblica europea - specie quella più “progressista”, stanca di dover dipendere da un Presidente palesemente poco affezionato al modello democratico occidentale. Dall’altra era l’ennesimo fotogramma “folle” della biografia politica di Erdoğan, che ha visto lui e la Turchia in situazioni spesso al limite dell’incredibile.

Scorrendo i titoli di giornali degli ultimi 25 anni, si potrebbe infatti vedere il Presidente passare dall’essere arrestato per istigazione all’odio religioso all’arrestare decine di migliaia di oppositori (incluse centinaia di giornalisti), o inaugurare i negoziati per l’ingresso nell’UE per poi sospenderli lanciando invettive contro l’Occidente, con nel mezzo la tragica notte del tentato colpo di Stato del luglio 2016, quando il Parlamento turco venne bombardato e Erdoğan riuscì in qualche modo a sfuggire agli elicotteri e ai jet dei rivoltosi. In contemporanea, la crisi degli oltre 3 milioni di profughi siriani (e la collaborazione con l’UE per interrompere brutalmente la rotta balcanica) con il Presidente pronto a promettere loro la cittadinanza turca, salvo poi cambiare completamente avviso, e un’inflazione fuori controllo che sta bruciando indistintamente i risparmi dei cittadini turchi.

Questo senza menzionare i rapporti con la comunità curda o il contesto internazionale dove - al netto di aver occupato militarmente parte del territorio siriano e appoggiato le milizie locali - i rapporti con le potenze attive nella regione (Stati del Golfo, USA, Russia) sono stati caratterizzati da confronti aspri seguiti da opportunistici riavvicinamenti, che hanno contribuito all’immagine di un Governo inaffidabile

La crisi migratoria e inflazionistica in particolare - assieme all’individuazione di un candidato comune da parte delle opposizioni - erano stati letti dalla “nostra” opinione pubblica come la campana a morto per il governo AKP.

Le urne hanno invece restituito l’immagine di circa una metà degli elettori che - in un contesto comunque non limpido - continua a sostenere il Presidente e il suo sistema di potere, nonostante le difficoltà quotidiane.

2. Il Paese è diviso, e il nuovo Governo dovrà affrontare la questione

L’esito del ballottaggio del 28 maggio avrà un grande impatto sul futuro della Turchia e del suo posizionamento nel mondo. Kılıçdaroğlu ed Erdoğan sono tutt’altro che uguali, hanno mandati popolari differenti, e rappresentano visioni diverse della politica - nonostante alcune sovrapposizioni fra le due agende.

Il primo turno ha tuttavia già mandato un messaggio chiaro: con un’affluenza dell’87% e i due principali contendenti che si sono guadagnati il 49.5% e il 44.5% dei voti rispettivamente, è chiaro che:

  • Il paese è diviso e il prossimo Governo dovrà prenderne atto, agendo per mitigare questa crisi;
  • Il percorso per una pacifica convivenza fra le varie anime della Turchia sarà lungo e tutt’altro che semplice.

A livello politico:

Anche qualora Kılıçdaroğlu dovesse riuscire a vincere, ciò non cambierebbe che l’AKP rimane di gran lunga il partito di maggioranza relativa, e il nuovo Parlamento avrà la maggioranza dei seggi controllati dalla coalizione conservatrice. Questa pressione esterna potrebbe aiutare a trovare un’unità di lungo periodo all’interno del Tavolo dei sei, ma il rischio che l’equilibrio si spezzi sarebbe elevato.

Il nuovo esecutivo si troverebbe poi a dover affrontare una serie di decisioni estremamente difficili - incluso il fatto che il Presidente dovrà decidere se appoggiarsi ai poteri affidatigli dalla discussa riforma presidenzialista varata da Erdoğan, o promuovere la promessa riforma costituzionale per ripristinare il parlamentarismo - sapendo che l’Assemblea Nazionale non lo sostiene.

Al contrario, qualora Erdoğan dovesse riuscire a confermarsi, sopravviverebbe in toto il sistema da lui ideato, ma rimane difficile pensare che non prenderà contromisure dopo il rischio corso in questa tornata, fosse anche questo il suo ultimo mandato. L’AKP ha perso seggi (-14% dei voti) e aumentato la dipendenza dagli alleati - peraltro fallendo nel raggiungere la soglia necessaria a modificare la Costituzione autonomamente - e il futuro prossimo esige decisioni urgenti e potenzialmente impopolari.

A livello sociale:

Come detto, gli ultimi anni per la Turchia sono stati durissimi, con tassi di inflazione surreali e il valore della Lira sbriciolato rispetto alle valute straniere. Questo ha avuto un impatto sulla vita quotidiana dei cittadini di tutte le fasce sociali. Il disastroso terremoto che ha colpito il sud-est del Paese -causando oltre 50.000 morti e milioni di sfollati - e la successiva, problematica gestione della crisi hanno aggravato ulteriormente la situazione. Meno sono invece le persone che - dopo il tentato putsch del 2016 - sono state arrestate o allontanate dal proprio posto di lavoro nella pubblica amministrazione o nei media, ma parliamo comunque di oltre 100.000 persone, in un Paese che solo pochi anni prima aveva conosciuto la repressione delle proteste di Gezi park. Tutte queste crisi recenti, assieme a quelle che già perdurano da decenni (conflitto in Siria, conflitto con le comunità curde, crescente autoritarismo) hanno fatto sì che gli elettori di entrambi i candidati sviluppassero delle richieste forti verso la politica, e difficilmente accetteranno in silenzio che rimangano inascoltate.

Se Erdoğan dovesse essere rieletto, dovrebbe immediatamente confrontarsi con la realtà - in primis economica. Gli investitori internazionali sembrano darlo già per vincente - e non la considererebbero una bella notizia, visto che hanno “votato” facendo schizzare alle stelle i tassi sui credit default swaps del debito turco. Se nel post-golpe il Presidente è riuscito a riallineare la pubblica amministrazione alle sue volontà, queste elezioni hanno consolidato il fronte che gli si oppone. Se le difficoltà quotidiane dovessero proseguire, è improbabile che non sfocino in proteste di piazza, specie considerando che i sindaci di Istanbul ed Ankara provengono dalle file dell’opposizione.

Se invece dovesse essere Kılıçdaroğlu a spuntarla, la forza dell’esecutivo verrebbe subito testata. Se può essere vero che nelle urne sono i comizi di Erdoğan a spostare i voti, nella realtà c’è un ben consolidato sistema di potere - locale e centrale - che sotto l’egida dell’AKP ha guidato la Turchia negli ultimi anni, e che coinvolge tutti i rami della società.

Un cambio al vertice porterebbe molti nodi al pettine - dalla distribuzione dei fondi pubblici agli allontanamenti dalla pubblica amministrazione - che il Presidente dovrebbe affrontare con un Parlamento di colore opposto.

In entrambi i casi, gli unici esiti possibili sembrano essere o quello di una riconciliazione nazionale, o quello di una crisi, con diverse sfumature nel mezzo. L’AKP e Erdoğan guidano il Paese da oltre 20 anni, e non sembrano intenzionati ad accettare di veder minati i propri interessi per una manciata di voti. Dall’altra parte, (circa) metà degli elettori ha messo in chiaro la propria posizione: “chiunque, ma non Erdoğan”

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