Il Green Deal e il fallimento della COP 25

, di Guido Montani

Il Green Deal e il fallimento della COP 25
Logo della COP 25. By Ministry of the Presidency. Government of Spain, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83809879

La COP 25 è fallita. Il giudizio è esatto se il punto di vista è quello della politica internazionale: nessun progresso è avvenuto rispetto agli obiettivi decisi con l’Accordo di Parigi del 2015. È stato un fallimento annunciato. A Parigi il compromesso era stato raggiunto grazie all’intesa tra USA e Cina. A Madrid ha pesato il rifiuto statunitense. Così è mancata la “global governance“ necessaria per aggregare gli altri membri dell’ONU.

Tuttavia, l’esito della COP 25 non è del tutto negativo se si considera la politica mondiale da un punto di vista cosmopolitico. Lo European Green Deal è il primo passo nella giusta direzione. Jeffrey Sachs (Project Syndacate, Dec. 13, 2019) ha osservato: «Lo European Green Deal annunciato dalla Commissione europea è il primo piano completo per conseguire uno sviluppo sostenibile in tutte le grandi regioni del mondo. Come tale, diventa un metro di riferimento ... l’Europa ha compiuto uno progresso di importanza storica con un piano ambizioso, impegnativo e realizzabile. Il Green Deal è un segnale di speranza in un mondo disordinato e instabile».

Il futuro dell’umanità è un bene pubblico globale. L’inquinamento della biosfera genera effetti simili a una bomba a orologeria che prima o poi esploderà. Il tic tac è cominciato. Lo hanno capito i giovani che hanno protestato in tutti i continenti. L’UE ha delineato una prima risposta.

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L’UE è una costruzione politica anomala. Ha attraversato anni di acuta crisi. All’interno è criticata dai partiti nazionalisti e l’uscita del Regno Unito ha consentito a molti di diagnosticare la sua disgregazione, che consentirebbe alle grandi potenze mondiali di spartirsi il bottino. È un giudizio superficiale. L’elezione europea ha mostrato che esiste una maggioranza progressista nel Parlamento europeo che, a sua volta, ha espresso una Commissione europea che ha proposto un coraggioso piano per uno sviluppo sostenibile non solo in Europa, ma nel mondo. Ursula von der Leyen ha dichiarato: «Noi possiamo essere i promotori di un miglior ordine globale» (Nov. 27, 2019). Si tratta di una sfida che potrà essere vinta a patto di superare ostacoli formidabili. La Commissione europea dovrà assicurare una maggiore coesione interna, com’è previsto dalle politiche per una «giusta transizione» incluse nel piano. Ancora più importanti saranno le sfide internazionali. Sachs osserva: «L’Europacontribuisce per circa il 9,1% alle emissioni globali di anidride carbonica, a confronto con il 30% della Cina e il 14% degli USA. Anche se l’Europa realizzerà interamente il Green Deal, ciò non servirà a nulla se la Cina, gli USA e le altre regioni non compiranno il loro dovere». Perciò lo European Green Deal deve diventare un World Green Deal.

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Qui discuteremo solo due problemi: la formazione di una global governance e il finanziamento del Green Deal. L’amministrazione Trump ha mostato che gli USA hanno definitivamente abbandonato i principi del multilateralismo. Non è una scelta dei soli conservatori; i democratici non hanno proposte alternative. Elisabeth Warren, uno dei loro candidati, è a favore di un governo che «governerà attivamente il valore del dollaro» (The Economist, Oct. 26, 2019). Così il protezionismo monetario si aggiungerà al protezionismo commerciale di Trump. Lo European Green Deal non può avere successo in un sistema internazionale dominato da potenze mondiali in lotta per la supremazia militare, economica e politica. O questa tendenza verrà arrestata mediante regole commerciali e monetarie basate sul multilateralismo oppure il Green Deal fallirà. L’Unione europea deve pertanto completare il suo piano con serie proposte per un nuovo ordine globale. La Organizzazione mondiale del commercio (OMC) deve essere riformata affinché il Dispute Settlement Mechanism (DSM), che Trump sta tentando di paralizzare, sia rimesso in condizione di giudicare chi viola le regole e di imporre sanzioni ai trasgressori. Il Fondo monetario internazionale (FMI) deve essere riformato per consentire una gestione multilaterale della «moneta internazionale». Il FMI deve promuovere l’uso dei Diritti Speciali di Prelievo (SDRs), un paniere di monete basato su dollaro, euro, renminbi, yen e sterlina. Non si capisce perché un’impresa privata, come Facebook, proponga di emettere una moneta mondiale, ma non il IMF. Una iniziativa europea che avvii un dibattito sulle nuove regole economiche multilaterali troverebbe consensi da parte di altre grandi potenze, come la Cina, la Russia, il Brasile, l’India, il Giappone e il Canada. Una global governance è necessaria. Qualche segnale incorraggiante esiste. In vista della COP 25, si è formata una Climate Ambition Alliance tra 59 paesi per sostenre il processo di Parigi. Si tratta principalmente di paesi in via di sviluppo. Le grandi potenze per ora sono assenti. E’ comunque una base di partenza per formare una coalizione di volenterosi che si impegni per una «emissioni zero di anidride carbonica entro il 2050».

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Consideriamo ora il problema finanziario. A Madrid lo scoglio che ha fatto naufragare la nave dei 194 paesi della COP è stato l’art. 6 dell’Accordo di Parigi, in particolare il comma 6.4 che prevede: «Un meccanismo per contribuire a mitigare le emissioni di gas serra e promuovere uno sviluppo sostenibile sotto l’autorità e la guida della COP». L’opposizione di USA, Brasile, Australia, Arabia Saudita e, in parte, della Cina e dell’India, ha impedito ogni accordo. Si tratta di un meccanismo che attiva una solidarietà concreta tra paesi industrializzati, che inquinano maggiormente, e paesi emergenti. Una formula intelligente è stata proposta da Raghuram Rajan (FT, 18 Dec. 2019): un fondo per trasferire risorse dai paesi che, pro-capite, inquinano più della media mondiale ai paesi che inquinano meno. Nella COP 26 di Glasgow è sperabile che si trovi un ragionevole compromesso. Tuttavia, la questione più complessa riguarda i finanziamenti pubblici del Green Deal, perché è necessario sia scoraggiare le produzioni inquinanti dell’industria privata, sia finanziare gli investimenti pubblici per nuove reti energetiche, la ricerca di energie alternative, l’uso dell’idrogeno, le tecnologie ‘carbon capture and storage’, l’assistenza ai lavoratori dei settori industriali in declino o in trasformazione (auto, cemento, chimica, plastica, ecc.). La transizione finanziaria richiederebbe la tassazione delle industrie inquinanti, ma le resistenze della popolazioni sono un serio ostacolo. Tutti sono a favore del disinquinamento del Pianeta, ma nessuno vuole sostenerne i costi. Il caso dei Glillets Jaunes in Francia è significativo: una piccola tassa sul gasolio ha scatenato una rabbiosa rivolta. Alcuni economisti stimano che un piano per un’economia verde richiederebbe circa l’1-1,5% del PIL mondiale, dunque anche per ogni paese o regione. Attualmente, il bilancio dell’UE è insufficiente per finanziare l’ambizioso European Greeen Deal e molti altri paesi si trovano nella medesima situazione. I governi nazionali hanno ignorato per decenni gli angosciosi appelli degli scienziati e l’opinione pubblica non comprende ancora l’urgenza della sfida.

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Un’alternativa esiste, a patto di non considerare il Green Deal come una politica settoriale, senza alcuna connessione con la più generale politica internazionale. Abbiamo visto come il nazionalismo economico sia un ostacolo alla cooperazione tra stati. L’ostacolo è ancora più evidente per la sicurezza militare. Il recente discorso di Putin, per una politica missilistica nucleare che garantisca la supremazia mondiale della Russia, avrà certamente una ripercussione sulle spese per armamenti da parte di USA, Cina e qualche altro ambizioso governo. Le spese militari mondiali sono state, nel 2018, pari al 2.1 per cent del GDP mondiale. Sono destinate a salire, sia per le armi nucleari che per quelle convenzionali. È una follia. Mentre una parte dell’umanità lavora per disinnescare la bomba ecologica, un’altra parte – dentro gli stessi paesi – lavora per impegnare risorse finanziarie in armi micidiali. I governi nazionali non hanno compreso il senso profondo della rivolta giovanile. I giovani non scendono in piazza per astratti ideali, sono preoccupati del loro futuro: rischiano di non diventare vecchi se la bomba ad orologeria non sarà disinnescata. È questa la sicurezza che a loro importa e che chiedono ai loro governi di garantire. Non si tratta di rinunciare alla difesa militare del loro paese, ma di ridurre le spese militari globali. Una politica di cooperazione pacifica internazionale consentirebbe di dimezzare i bilanci militari e finanziare, con queste risorse, il Green Deal. La lotta per una cooperazione internazionale pacifica e un World Green Deal sarà difficile, ma potrà essere vinta se le forze progressiste, in Europa e nel mondo, si impegneranno con tenacia. L’umanità deve decidere se la vita sul Pianeta continuerà oppure l’enorme potenziale tecnologico esistente verrà utilizzato per distruggerla. Siamo a un bivio. Occorre scegliere.

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