Il sistema dei partiti nelle unioni federali continentali e la sua natura costituente

Verso una coalizione europea conservatrice ed una progressista

, di Domenico Moro

Il sistema dei partiti nelle unioni federali continentali e la sua natura costituente

Non è pensabile [...] che un gruppo di Stati decida di punto in bianco, e all’unisono, di dar vita ad una federazione che li unisca in modo irreversibile. La sola via che esiste è determinata dal fatto che durante un processo di integrazione – come quello in corso in Europa – non possono non prodursi delle situazioni di potere – transitorie ma ripetibili – nelle quali per i capi di Stato e di governo si manifesta la possibilità di decidere, se lo vogliono, il trasferimento di una parte del potere che detengono all’Europa, facendone ipso facto una associazione di Stati con un potere proprio, una federazione [...]. Va inoltre precisato che questa situazione di potere deve comprendere anche una controparte europea (esempio attuale il Parlamento europeo), come entità che abbia già, o possa acquisire con un’operazione congiunta, la capacità politica di accogliere il potere. (M. Albertini, Una rivoluzione pacifica)

1. Il quadro attuale

Il presente documento di lavoro si basa sull’ipotesi, provvisoria, che le prossime elezioni europee, per almeno cinque ragioni, costituiranno una svolta decisiva nella competizione elettorale europea, conducendo alla graduale formazione di due coalizioni, una conservatrice ed una progressista. Se sarà così, ed a meno di sempre possibili scompigli politici, i passi avanti nel processo di unificazione europea, di carattere costituente, saranno l’esito del confronto tra due schieramenti politici europei e non dei soli governi. Con le prossime elezioni si consoliderà la prassi dello spitzenkandidaten, il passo più importante verso una democrazia europea dopo le elezioni dirette del parlamento europeo, anche se contrastato da Macron ritenuto, a torto o a ragione, il paladino di un’“Europa sovrana, unita e democratica”. In secondo luogo, la crescita, nelle elezioni nazionali, dei movimenti sovranisti e populisti, per una sorta di eterogenesi dei fini, sta esercitando un’influenza positiva sulle elezioni europee. Mai, prima d’ora, è avvenuto che si iniziasse a discutere di elezioni europee più di un anno prima della scadenza elettorale: esse stanno finalmente assumendo il carattere di un vero e proprio confronto politico. Come ha sottolineato Joschka Fischer, “for better or worse, the question of Europe itself has been politicized, and now it must be decided”. In terzo luogo, la nascita spontanea di movimenti europeisti, come Civico Europa, European Balcony Project, Pulse of Europe, Startup Europe e Volt, è la conferma che sta nascendo un’opinione pubblica europea ed europeista. È in questo quadro che va vista la lettera di Macron ai cittadini europei, “Per un rinascimento europeo”. In quarto luogo, il confronto elettorale europeo non avverrà solo sulla base di una generica opposizione tra “progressisti” e “nazionalisti”, secondo la definizione iniziale di Macron, ma sulle politiche che i partiti europei intendono promuovere per rispondere alle principali preoccupazioni dei cittadini europei. Quello di Macron sembra essere il primo partito deciso ad uscire da questa sola contrapposizione, puntando a promuovere una campagna elettorale con lo slogan «d’une Europe qui protège», mettendo l’accento sulla necessità di un esercito europeo, di una politica dell’immigrazione e del rafforzamento delle istituzioni. Infine, il quadro europeo si sta imponendo sempre di più come quello in cui si compiono le grandi scelte ed i sovranisti lo subiscono. La conferma che il quadro istituzionale europeo influenza il comportamento dei partiti politici nazionali, e non viceversa, sono la svolta compiuta del governo italiano sull’iniziale proposta di legge di bilancio e quella compiuta dal Rassemblement national (RN). Marine Le Pen, Presidente del RN, tenuto conto del forte orientamento dell’opinione pubblica francese a favore della permanenza della Francia nell’euro, ha infatti recentemente dichiarato che “ora possiamo cambiare l’Europa dall’interno, uscire e adottare una nuova moneta non sono più le priorità”. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, riguarda i Democratici svedesi che, alla luce delle difficoltà della Brexit, hanno tolto dal programma elettorale l’uscita dall’UE. Pertanto, se, come sostengono i federalisti, le istituzioni sono intese come “i meccanismi che regolano la lotta per il potere e il processo di formazione delle decisioni”, si può affermare che il processo di unificazione europea è giunto ad un punto in cui “l’assetto istituzionale [europeo] in quanto tale [...] non è in gioco nella lotta politica [europea], non è messo in discussione, è accettato dalle parti in conflitto”. La Gran Bretagna, con la Brexit, è l’unico paese che ha messo in discussione l’assetto istituzionale europeo, perché si era resa conto che la politica europea condizionava la politica inglese. La forza esercitata dalle elezioni europee e dalle istituzioni esistenti non va quindi sottovalutata. Se non ci fossero state le elezioni europee, la Brexit avrebbe forse avuto ben altro esito sugli Stati membri. Si avvicina così l’evento previsto da Albertini, secondo cui l’Europa si farà quando sarà al centro della campagna elettorale europea e assisteremo allo “spostamento del quadro della lotta politica dalle nazioni all’Europa”. Le prossime elezioni europee apriranno una nuova fase ed anche gli schieramenti politici europei, probabilmente, subiranno un’evoluzione, e si svilupperanno schieramenti differenti rispetto a quelli nazionali. La temuta avanzata dei partiti sovranisti, quali lo European Conservatives and Reformists Group (Ecr), lo Europe of Freedom and Direct Democracy Group (Efdd) e lo Europe of Nations and Freedom Group (Enf), ci sarà. Però, secondo recenti indagini basate sulle intenzioni di voto, essi avranno una quota pari al 21% (28%, se si aggiunge il 7% attribuito al gruppo sovranista-populista dell’estrema sinistra Confederal Group of the European United Left – Nordic Green Left (GUE-NGL). Questo significa che nel Parlamento europeo continuerà ad esserci la maggioranza permanente a difesa dei trattati, una delle tre maggioranze di cui parlava Albertini. Queste indagini richiedono comunque cautela e vanno fatte delle valutazioni riguardo la composizione degli schieramenti, di destra e di sinistra, classificabili come sovranisti-populisti. Il fatto che vengano accomunati, in quest’unica etichetta, partiti politici come Afd, Die Linke, FPÖ, Lega, Lista Tsipras, M5S, Prawo i Sprawiedliwość (PiS), Podemos, RN, ecc.., che fanno parte di gruppi politici appena visti, deve già essere sufficiente motivo di riflessione e mettere in discussione il fatto che ci si trovi di fronte ad uno schieramento compatto ed il cui scopo sia l’indebolimento, se non lo smantellamento dell’UE. Forse con l’eccezione di La France insoumise e di Afd, nessuno di loro ha nel proprio programma politico la fuoriuscita dell’Austria, della Francia, della Germania, dell’Italia, della Polonia, e della Spagna dalla UE. La prova sembra essere la compattezza che questi paesi, compresi quelli al cui governo vi sono partiti sovranisti, come l’Austria, l’Italia, la Polonia e l’Ungheria, hanno mostrato e mostrano nella trattativa che l’UE sta conducendo con la Brexit. L’esempio più evidente è costituito dall’ECR. Nonostante ne facciano parte il Partito conservatore inglese e il PiS polacco, quest’ultimo, benché incalzato dal premier Theresa May, si è dissociato dal Partito conservatore e non dall’UE. In secondo luogo, sembra difficile che si sviluppi una posizione comune tra il PiS polacco, antirusso, ed i filorussi Lega e RN. Come pure sembra difficile che all’interno di alcuni di questi partiti, come Lista Tsipras, M5S e Podemos, vi sia un’unica posizione antieuropea condivisa. Il fatto che i sovranisti riconoscano di voler cambiare l’Europa “dal di dentro”, è diverso dal voler cambiare l’Europa disconoscendone le istituzioni e boicottandone il funzionamento. Cambiarla dal di dentro vuol dire accettarne le regole, magari operando per modificarle a vantaggio di una maggior autonomia nazionale, ma riconoscere che non hanno la forza per smantellare il mercato interno, la politica commerciale, il parlamento europeo, l’euro, il bilancio, ecc... Per certi aspetti, si assisterà ad uno scontro tra sovranisti (gli anti-federalisti della Convenzione di Filadelfia) ed europeisti (i federalisti di Filadelfia), dove toccherà soprattutto a questi ultimi indicare la strada da seguire per rafforzare ulteriormente le istituzioni europee.

2. Istituzioni e politiche che rafforzano il confronto elettorale a livello federale: l’esperienza degli Stati Uniti d’America

Per valutare lo stato di avanzamento dello stato di avanzamento del processo di unificazione europea, può essere utile il confronto con l’esperienza di federazioni consolidate, come quella americana, con riferimento al ruolo che le principali istituzioni elettive e politiche hanno avuto sul confronto politico e sull’organizzazione dei partiti su scala federale. Vengono quindi prese in considerazione le elezioni del Congresso e del Presidente della federazione e, per quanto riguarda le politiche, si prenderanno in considerazione quelle che più di altre hanno modificato gli equilibri costituzionali del sistema federale: la politica del New Deal e la politica estera e di sicurezza.

a) La nascita del bipartitismo americano.

La nascita di partiti politici americani non è stata immediata, anche perché i partiti, nel senso moderno del termine, non solo non esistevano al momento dell’entrata in vigore della costituzione federale, ma erano addirittura avversati dai Padri costituenti, tanto che la costituzione degli Stati Uniti non ne prevede l’istituzione. Per rendersene conto, è sufficiente una rapida lettura del Federalist paper n. 10, redatto da James Madison. Il processo di formazione di schieramenti politici su scala continentale è stato infatti molto lento, essendo durato circa quarant’anni. La prima linea di divisione, pre-partitica, all’interno dell’opinione pubblica americana, risale agli anni precedenti la Guerra di indipendenza americana, quando il legame delle tredici colonie con la Gran Bretagna aveva trasferito sul territorio americano le divisioni politiche britanniche. In ognuna di loro si assisteva al confronto tra i Tories, sostenitori delle prerogative della Corona e quindi dei governatori delle colonie di nomina britannica, ed i Whigs, sostenitori delle istituzioni parlamentari e dell’indipendenza. Poiché, alla fine della guerra, gli Articles of Confederation non consentivano uno sviluppo ordinato delle relazioni tra le colonie e, soprattutto, non avevano risolto i problemi causati dagli strascichi del conflitto, come i debiti che molti dei nuovi Stati avevano contratto e che ora non riuscivano ad estinguere, all’interno dei Whigs si consolidò una corrente favorevole alla loro revisione e venne convocata la Convenzione di Filadelfia. Il processo di ratifica della Costituzione diede vita ad una nuova linea di divisione, opponendo i suoi sostenitori, che si definirono federalisti, agli antifederalisti. I federalisti, al fine di promuoverne la ratifica, si organizzarono in tutte le tredici colonie e diedero vita a quello che può essere considerato l’embrione del primo partito americano. L’entrata in vigore della Costituzione richiese la nomina del primo Presidente degli Stati Uniti, un punto su cui non ci fu alcuna opposizione, in quanto vi era l’unanimità sulla candidatura di George Washington. Washington organizzò il nuovo governo, scegliendo i propri ministri tra i federalisti, come Hamilton, messo a capo del Tesoro e Thomas Jefferson, in quanto Segretario di Stato. È tra queste due figure che cominciarono a manifestarsi le prime divisioni all’interno della compagine federalista. Il programma di Hamilton prevedeva l’assunzione dei debiti degli Stati a carico della federazione, l’istituzione di una banca centrale, una tariffa esterna protettiva e il rafforzamento della difesa nazionale. La tendenza al rafforzamento del governo centrale preoccupò i sostenitori degli interessi degli Stati. Pertanto, Jefferson e Madison, a cui si associarono gli antifederalisti che erano stati eletti al Congresso, cominciarono ad organizzare l’opposizione ad Hamilton. Essi si definirono Repubblicani e, data la loro simpatia per gli ideali della Rivoluzione francese, l’opinione pubblica ed i federalisti li chiamò “Democratici”, il nome assunto in alcuni Stati. In altri Stati, come quello di New York, il nome ufficiale fu Partito Democratico-Repubblicano. All’interno del Congresso, cominciò così a delinearsi una prima linea di divisione tra i parlamentari americani. Essa corrispondeva anche alla diversa rappresentanza degli interessi statali di cui i due partiti si facevano portatori e di una differente visione in materia di politica estera. Se il Partito federalista rappresentava gli interessi della finanza e dell’industria del New England, i democratici-repubblicani rappresentavano gli interessi degli agricoltori, dei piccoli proprietari, dei piantatori di cotone e dei coloni. La divisione tra le due parti (non si poteva ancora parlare di partiti veri e propri) venne alimentata anche da un episodio di politica estera, che si ripresenterà negli anni successivi e che determinerà la scomparsa del Partito federalista. Il problema che Washington dovette infatti affrontare in quella fase era quello della posizione da tenere sulla guerra che opponeva la Gran Bretagna, che raccoglieva le simpatie degli Stati del New England, roccaforte del Partito federalista, e la Francia, appoggiata dai jeffersoniani. L’ascesa, nel 1832, di Jackson alla presidenza che inaugurò lo “spoil system”, mise anche in moto il processo che doveva portare alla nascita dei due attuali partiti americani. Poco dopo il suo insediamento, l’ala destra dei democratici-repubblicani cominciò a promuovere convenzioni separate con il nome di National Repubblicans e, nel 1833, assunse il nuovo nome di “Whig Party”, il cui programma era la difesa dell’Unione, la protezione della sua economia e dei diritti degli Stati, la difesa della Second National Bank, istituita da Jefferson ma che Jackson voleva abolire. I Democratici-repubblicani, da parte loro, assunsero il nome definitivo di Partito democratico. Il Whig Party rimase attivo per circa vent’anni, fino a quando lo schiavismo non divenne una tematica nazionale e che fu all’origine di un grande riassetto dei partiti politici americani. I Whigs, nel 1854, si divisero in due tronconi, di cui uno si fuse con il Free Soil Party, un partito antischiavista sorto in quegli anni, cambiando nome e divenendo l’attuale Partito repubblicano e l’altro troncone ritornò nel Partito Democratico.

b) Le istituzioni che hanno rafforzato il confronto elettorale a livello federale

Le elezioni del Congresso. Non si sottolineerà mai abbastanza il passaggio fondamentale compiuto dai Padri fondatori della federazione americana con le elezioni dirette del Congresso. Il coinvolgimento dei cittadini americani - pur con l’iniziale limite del voto censuario e la rilevante eccezione della popolazione nativa e di colore esclusa dal voto - nell’elezione delle principali cariche pubbliche, ha costituito il presupposto perché fin dall’inizio essi si sentissero parte integrante dello Stato. A livello federale, i cittadini americani sono infatti mobilitati per eleggere i grandi elettori della carica presidenziale, i deputati e, dal 1913, anche i senatori; a livello statale, eleggono il governatore dello Stato, i deputati, i senatori (il sistema bicamerale vale per tutti gli Stati della federazione, tranne il Nebraska che ha un sistema monocamerale), il vice-governatore, il Segretario di Stato; a livello locale, eleggono il sindaco, il giudice, lo sceriffo, il responsabile del catasto, il responsabile dell’anagrafe, il responsabile del registro degli elettori, ecc. Questa prassi ha consolidato i valori liberali e democratici senza che, a differenza dell’esperienza europea, si affermassero attraverso scontri violenti, ed ha anche evitato che la questione sociale assumesse l’aspetto di uno scontro, di volta in volta, tra la parte dei cittadini che si sentiva esclusa dalla vita pubblica e le istituzioni statali. Gli Stati membri della federazione americana, sono sempre stati la base delle elezioni del Congresso. Per la Camera dei Rappresentanti, ogni Stato elegge un numero di deputati proporzionale alla sua popolazione e il numero delle circoscrizioni corrisponde al numero di deputati da eleggere, mentre per quanto riguarda il Senato, come è noto, vengono eletti due senatori per Stato. Le elezioni del Congresso si sono rivelate indispensabili per conferire legittimità ai cambiamenti della costituzione americana e adattarla al grado di maturità politica, economica e sociale di volta in volta raggiunto dalla società americana, senza che, con la rilevante eccezione della Guerra civile, fosse necessario ricorrere alla violenza. Queste elezioni, però, non si sono rivelate la condizione sufficiente a spingere i partiti ad organizzare il confronto politico su scala continentale e continuano a non esserlo. Questo non significa che le elezioni del Congresso siano irrilevanti ai fini della formazione e consolidamento di una politica nazionale e quindi del confronto tra partiti su scala continentale. Le elezioni congressuali e, soprattutto, presidenziali, hanno svolto, nel tempo, un ruolo originale che una delle correnti della letteratura sul sistema politico americano ha definito “realignments” dell’elettorato, oppure “critical eclections”, concetti con cui si intendono ampi e durevoli spostamenti nell’orientamento politico dell’elettorato intesi, soprattutto, in senso territoriale in quanto si sta parlando non solo di una comunità di cittadini, ma anche di Stati. In base alla definizione che ne è stata data, i realignments sono stati la condizione di cambiamenti costituzionali, attraverso emendamenti, o comunque rilevanti, come il rafforzamento dell’esecutivo federale nell’attuazione di alcune politiche fondamentali per la federazione.

L’elezione del Presidente della federazione. I due partiti americani si organizzano su scala federale per l’elezione del Presidente e vicepresidente degli Stati Uniti. Moisei Ostrogorsky e Charles W. McKenzie, quando discutono dell’organizzazione del sistema dei partiti negli Stati Uniti su base continentale, prendono unicamente in considerazione le elezioni presidenziali. I loro lavori confermano che la nomina dei grandi elettori del Presidente americano è il solo meccanismo che ha saputo spostare, da basi statali a base continentale, il confronto tra partiti politici. La nascita ed organizzazione stabile di partiti nel senso moderno del termine è infatti avvenuta a seguito dell’elezione del Presidente della federazione e la svolta decisiva si è avuta con la successione di Andrew Jackson alla presidenza di John Quincy Adams. Fino ad allora, i Padri fondatori della federazione americana, assieme a pochi altri, decidevano le candidature presidenziali, da indicare ai grandi elettori statali, nel corso di riunioni tra i membri del Congresso chiamate “caucus”. Si trattava, di fatto, di un rovesciamento della procedura prevista dalla Costituzione, la quale prevede che siano i grandi elettori scelti a livello statale a votare per il candidato alla presidenza, mentre la procedura seguita metteva in pericolo la separazione dei poteri difesa nei Federalist papers, in quanto faceva dipendere l’esecutivo direttamente dal legislativo. A partire dagli anni ’30 del XIX secolo, dal punto di vista economico e politico, però, gli Stati Uniti stavano cambiando profondamente. L’espansione verso l’Ovest aveva visto la nascita, in una misura senza precedenti su scala mondiale, di una classe di proprietari terrieri sensibile ai valori della democrazia. L’ingresso nella federazione americana degli Stati e delle popolazioni dell’Ovest aumentava il peso politico dell’opinione pubblica e degli Stati orientata ai valori di Jefferson. Vennero così a crearsi le condizioni anche per un cambiamento radicale nelle modalità di elezione del Presidente della federazione. La diffusione degli ideali democratici rendeva impellente una procedura fondata direttamente sui cittadini, ma questo, a sua volta, poneva il problema di organizzare il consenso su base continentale e quindi di dare una organizzazione stabile e diffusa sul territorio a quella che, fino ad allora, era stata un’organizzazione partitica informale. È quindi a partire dal 1830 in poi, quando divenne sempre meno accettabile che l’esecutivo federale fosse, di fatto, scelto dal legislativo, alterando sensibilmente gli equilibri costituzionali, che le riunioni del “caucus”, finalizzate all’individuazione della candidatura presidenziale, vennero abbandonate. Da quel momento, i partiti americani cominciarono ad organizzare le convenzioni di partito negli Stati della federazione e che durarono fino all’inizio del 1900, quando cominciò ad essere introdotto il sistema delle primarie.

c) Le politiche che hanno rafforzato il confronto elettorale a livello federale

La politica economica, monetaria e fiscale, del New Deal. L’istituzione del Federal Reserve System (FRS) e l’attribuzione in capo all’esecutivo federale di nuove competenze fiscali, sono state le condizioni del successo del New Deal. Il FRS nasce nel dicembre del 1913 e la sua struttura è l’esito di quello che John K. Galbraith ha chiamato il “grande compromesso”, che rifletteva l’esistenza di “un duplice sistema monetario, ognuna delle cui parti rispondeva alle esigenze o alle predilezioni della parte del paese o dell’economia cui veniva applicato”. Per cui la “comunità finanziaria, commerciale e creditizia, soprattutto dell’Est”, si basava su un sistema monetario i cui depositi e le cui banconote erano convertibili in oro e argento. Mentre “nelle nuove regioni del paese, man mano che venivano colonizzate, c’era invece il diritto di creare banche a volontà e di conseguenza anche i biglietti e i depositi che derivavano dai loro prestiti”. Va da sé che nel primo caso il sistema finanziario era relativamente solido e nel secondo strutturalmente fragile. Per porre fine alle periodiche crisi finanziarie che, a mano a mano che si accentuava l’interdipendenza economica tra i vari Stati della federazione, contagiavano aree sempre più estese della federazione, si decise di dar vita al FRS. Rispetto alla proposta iniziale del banchiere Warburg, che propose l’istituzione della United Reserve Bank, si evitò però di ricorrere alla parola “banca” per superare l’opposizione del Partito Democratico all’istituzione di una banca centrale, e si ricorse alla dizione “Federal Reserve System”. Per la stessa ragione, il territorio americano venne ripartito in dodici distretti, ciascuno con una propria banca federale. Il loro coordinamento sarebbe stato assicurato da un Consiglio (Board of Governors), con sede a Washington, composto da sette persone nominate dal Presidente degli USA e con il consenso del Senato degli Stati. All’inizio, nella conduzione della politica monetaria, i dodici distretti godevano di un’ampia autonomia rispetto alla sede di Washington, con una sostanziale continuità con la politica del “grande compromesso”. La diffidenza verso l’istituzione di una banca centrale, però, rimase viva, tanto che lo Statuto del FRS, come per la prima e la seconda banca nazionale istituite, rispettivamente, nel 1791 e nel 1816, ne prevedeva una durata ventennale. Solo con la Grande depressione degli anni ’30 e la riforma del FRS voluta da F. D. Roosevelt nel 1935, che introdusse il Federal Open Market Committee, composto dai membri del Consiglio e integrato con cinque presidenti dei distretti, si compì il passo decisivo verso una politica monetaria comune e il FRS diventa un’istituzione permanente della federazione. L’esercizio di una vera e propria politica di bilancio è stato possibile solo con l’attribuzione all’esecutivo federale della competenza in materia di imposte sui redditi. Fino all’inizio del 1900, il bilancio federale, per circa il 90%, era finanziato dalle tariffe doganali e dalle accise, in quanto la Corte suprema si era sempre opposta a riconoscere al governo federale il potere di introdurre imposte dirette. Da quel momento in poi, il bilancio federale si è rivelato l’altro braccio della politica economica che ha contribuito a rafforzare l’esecutivo federale, soprattutto a seguito dalla Grande depressione degli anni ’30 del secolo scorso. Nel 1929, l’anno del crollo di Wall Street, i bilanci pubblici della federazione incidevano sul Gross Domestic Product (GDP) per l’8,2%, ma mentre il bilancio degli Stati e dei governi locali incideva per il 6,9%, quella del bilancio federale era dell’1,3%. La caduta di quasi il 50% della produzione industriale e il parallelo aumento della disoccupazione, pose il problema di un forte sostegno pubblico. Il dibattito politico non era tanto concentrato sull’intervento pubblico o meno, ma piuttosto su chi dovesse promuoverlo in prima istanza, se il governo federale o gli Stati. Inizialmente, entrambi i partiti dello schieramento politico americano ritenevano che la ripresa economica fosse una competenza esclusivamente statale, peraltro limitata ad integrare i meccanismi di mercato. Nel 1933, quando Roosevelt entrò in carica come Presidente, il bilancio federale era rimasto di dimensioni immutate, ma poiché il GDP era sceso dai 103,8 miliardi di dollari del 1929 a 55,8 nel 1933, la sua incidenza, per questo solo fatto, era salita al 6,9%. A seguito della politica del New Deal, nel 1945, anno della scomparsa di Roosevelt, l’incidenza del bilancio federale sul GDP era già arrivata al 47,1%, di cui il 37,8% per le sole spese militari dovute alla partecipazione alla Seconda guerra mondiale. Il 9,3% residuo (escluse, quindi, le spese militari) era più che sestuplicato rispetto all’anno dello scoppio della Grande depressione e, da allora, non cesserà di aumentare, arrivando all’attuale 22%.

La politica estera e di difesa. Le competenze federali in politica estera e di difesa non sono state, in sé, politiche all’origine del rafforzamento dell’esecutivo federale. Anzi, tale era la preoccupazione degli Stati fondatori della federazione americana di un eccessivo rafforzamento dell’esecutivo federale che il sistema di difesa fu inizialmente concepito in modo da poterlo contrastare nel caso avesse manifestato tendenze monarchiche o messo in pericolo l’autonomia degli Stati membri della federazione. Le milizie statali, organizzate a questo scopo, mantennero questo ruolo fino allo scoppio della Guerra civile americana, e svolsero un ruolo importante anche dopo e fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando l’esercito federale cominciò a sopravanzare, per importanza, le milizie statali, ora Guardia nazionale con un provvedimento del 1916. Fino ad allora, le milizie statali rappresentavano circa l’80% dell’intera forza militare della federazione. Ciò che ha fatto pendere la bilancia dal lato dell’esecutivo federale, le cui forze armate direttamente controllate rappresentano oggi ormai oltre l’80% delle forze armate della federazione, rovesciando così il rapporto che era prevalso alla fine del XVIII secolo e per tutto il XIX, è stata la progressiva partecipazione degli Stati Uniti alla politica estera mondiale. Questa svolta, le cui premesse furono la guerra ispano-americana del 1898 e la partecipazione alla Prima guerra mondiale, inserì gli Stati Uniti nella logica di potere mondiale, che ha toccato l’apogeo con la partecipazione alla Seconda guerra mondiale e lo scoppio della Guerra fredda. Prima di allora, come hanno sempre sottolineato i federalisti, la condizione insulare degli Stati Uniti, li aveva protetti dalla logica di potenza e preservato le istituzioni federali.

3. I partiti politici in uno Stato nazionale e in un’unione federale continentale

Duverger ha ben descritto la differenza fondamentale tra il sistema politico che ha finora caratterizzato i paesi europei e quello degli Stati Uniti, quando ha osservato che “il pensiero politico europeo si è sviluppato in due fasi successive: nella lotta fra conservatori e liberali nel XIX secolo e, successivamente, nella lotta dei socialisti contro i liberali sostenuti dai conservatori. Gli Stati Uniti non hanno conosciuto nessun confronto del genere. L’ideologia liberale non è mai stata seriamente contestata da un’ideologia rivale e ciò fa sì che esista rispetto ai princìpi fondamentali una maggiore omogeneità politica. Il “consenso” in atto in Europa, è però più forte negli Stati Uniti dove sembra essere del tutto normale, mentre l’Europa è abituata allo scatenarsi di conflitti di legittimità”. Gli aspri confronti ideologici europei, che non hanno precedenti negli Stati Uniti, hanno anche avuto un’influenza decisiva sulla struttura organizzativa dei partiti politici delle due sponde dell’Atlantico, una differenza che solo ora sta progressivamente venendo meno. David B. Truman, è stato il primo a far notare che vi è una relazione tra la struttura costituzionale di un paese e quella dell’organizzazione dei partiti, per cui se il governo è di tipo federale, anche i partiti hanno una struttura federale, mentre se il governo è centralizzato, i partiti avranno una struttura centralizzata. In effetti, questo è quanto risulta dal confronto tra l’esperienza europea e quella americana.

a) I partiti politici in uno Stato nazionale burocratico ed accentrato

Duverger ha individuato due grandi categorie di partiti politici: il partito dei notabili e il partito di massa. Il primo è il partito ottocentesco tipico della medio-grande borghesia, fondato sul “comitato dei notabili” e che si riunisce solo al momento delle grandi scadenze politiche, quando si tratta di scegliere i candidati al Parlamento o alla guida dell’esecutivo. Il secondo tipo di partito è il partito di massa, socialista e comunista, fondato, nel caso socialista, sulla sezione e, nel caso comunista, sulla cellula di fabbrica. Questo tipo di partito ha caratterizzato la storia europea per gran parte del XX secolo, quella di grandi partiti di massa, basati su un grande numero di iscritti che sovvenzionano il partito attraverso la tessera d’iscrizione, fortemente centralizzati, strutturati attorno alla figura centrale del segretario politico, che traccia la linea strategica e politica del partito, ed a cui si devono attenere rigorosamente gli iscritti e il gruppo parlamentare. Questo tipo di organizzazione era largamente giustificato dal fatto che, all’interno di uno Stato nazionale, vi è un unico livello di potere politico, cui fanno capo tutti i poteri costituzionali: la struttura centrale di governo. Il partito di massa mantiene ancora vive gran parte delle sue caratteristiche, anche se è entrato in una crisi praticamente irreversibile. Infatti, sono venute progressivamente meno le radici economico-industriali e di politica internazionale che alimentavano il collante ideologico dei partiti di massa e che, nella misura in cui rappresentavano “una parte” della società europea, erano veri e propri partiti nel senso più stretto del termine. L’avvento della rivoluzione scientifica e tecnologica, che ha soppiantato il modo di produzione industriale, ha posto anche fine alla rigida divisione in classi sociali di fine ‘800 e gran parte del ‘900, per cui una parte consistente della popolazione europea, il lavoro dipendente, in particolare la classe operaia, si identificava con i partiti socialisti o comunisti e il resto con i partiti democratico-cristiani, oppure liberaldemocratici. La divisione in blocchi contrapposti, successiva alla Seconda guerra mondiale, in cui l’Unione Sovietica si presentava come l’alfiere della classe operaia mondiale e gli Stati Uniti i difensori del sistema economico capitalistico, irrigidiva ulteriormente il confronto tra i principali partiti politici europei. L’avvento della rivoluzione scientifica e tecnologica e la fine del mondo bipolare, il crollo dei partiti tradizionali e il loro crescente carattere interclassista e l’emergere di nuovi partiti che poco hanno a che fare con i vecchi schieramenti, hanno fatto sì che questo mondo non esista più.

b) Il sistema dei partiti politici in un’unione federale di dimensioni continentali e la loro natura costituente

Il partito di massa in un’unione federale continentale non esiste e non esisterà mai, salvo una degenerazione totalitaria del sistema politico come, ad esempio, di quello cinese. Duverger, riferendosi ai partiti americani, afferma che “invece di parlare dei due partiti americani, si dovrebbe parlare dei 100 partiti americani, in quanto esistono 50 partiti democratici e 50 partiti repubblicani, uno per Stato, pressoché indipendenti. La Convenzione nazionale che riunisce una volta ogni quattro anni i loro delegati per la designazione del candidato alla presidenza, dà molto l’idea di un’assemblea di onnipotenti feudatari che discutono fra di loro da eguali, in tutta sovranità”. Una parte della letteratura specifica americana ha studiato le implicazioni di un sistema politico che si fonda su federazioni di partiti, quando ha notato il verificarsi di grandi spostamenti dell’elettorato americano da un partito all’altro, cui si sono accompagnati grandi trasformazioni del sistema politico-istituzionale. Questi grandi sommovimenti, chiamati realignments, mettono in evidenza un ruolo specifico svolto dai partiti americani e che, per la verità, sembra una caratteristica originale che possono svolgere solo federazioni di partiti di unioni federali ed impensabile in uno Stato nazionale accentrato. A questo proposito, Paul Kleppner fa una considerazione decisiva, quando osserva che “the dominant American political parties have never been internally homogeneous – socially, ideologically, or in any other important way. They have instead been constituent, or coalitional, parties, entities that have united a wide variety of disparate groups into single, but limited, systems of action. This coalitional characteristic of American parties is an organizational response to their legal and socioeconomic milieux. It emerges from the fact that parties operate within the constitutional context of a federalized governmental structure and within a nation of continental size characterized by spatially asymmetrical distribution of social and economic groups” [corsivo nostro]*. Quello che qui importa sottolineare è il fatto che, in un’unione federale di dimensioni continentali, i partiti politici assumono una struttura organizzativa e, soprattutto, una funzione diversa dai partiti tradizionali europei. La natura costituente dei partiti politici americani fa sì che i cambiamenti costituzionali siano l’esito di un processo politico che si svolge dentro i binari del confronto tra i partiti che, in fasi critiche, può assumere aspetti molto aspri. I federalisti avevano già fatto notare che “nella stessa storia degli Stati Uniti [...], questa ha conosciuto soltanto tre veri momenti costituenti, nei quali i fondamenti della convivenza civile sono stati messi radicalmente in discussione: la Guerra di Secessione, il New Deal e le grandi battaglie per i diritti civili negli anni ‘60”. Questi tre momenti coincidono con quelli che la letteratura individua come altrettanti realignments dell’elettorato americano, ma non sono gli unici. La letteratura specifica aggiunge, ad esempio, il realignment della fine degli anni ‘90 del XIX secolo, quando sono comparsi sulla scena politica americana partiti e movimenti, alternativi ai due tradizionali partiti americani, come il Partito populista (People’s Party), i Free Silver ed i Greenbackers. Questi partiti avevano nel loro programma l’obiettivo di condizioni di lavoro più accettabili, ma soprattutto di una politica monetaria più espansiva e di una politica fiscale che limitasse l’impatto delle tariffe doganali e delle accise e si fondasse sulla tassazione dei redditi, con aliquote marginali crescenti. Le proposte ebbero l’effetto di provocare spaccature profonde sia all’interno dei due partiti, repubblicano e democratico, sia tra gli Stati del nord-est e quelli del sud e dell’ovest. Il Partito democratico fece proprie queste rivendicazioni ed assorbì i partiti sopra ricordati e, con il sostegno di una parte del Partito repubblicano, si arrivò all’approvazione del XVI emendamento, che entrò in vigore nel 1913 e consentì al Congresso di introdurre imposte sui redditi, una competenza fino ad allora contestata dalle sentenze della Corte Suprema. In secondo luogo, queste rivendicazioni costituirono le premesse perché, sempre nel 1913, si arrivasse all’istituzione del Federal Reserve System. Senza queste due innovazioni istituzionali, il New Deal difficilmente sarebbe riuscito a contrastare la Grande depressione degli anni ’30 del secolo scorso. Alla luce di questi ultimi cambiamenti e volgendo lo sguardo a ritroso, si potrebbe osservare che la costituzione federale americana contiene quattro previsioni che, se viste con l’ottica della costituzione di uno Stato nazionale europeo burocratico ed accentrato, sarebbero considerate, non solo impensabili, ma contrarie al principio dell’unità nazionale. Esse riguardano l’organizzazione della difesa comune, l’emissione di moneta, la politica fiscale e, alla luce dell’importanza che il welfare ha assunto nelle economie moderne, la politica sociale. Le prime tre riguardano quelle competenze che costituiscono il cuore della sovranità statale e che, in base ad una valutazione benevola, possono essere considerate competenze condivise, se non intergovernative. La quarta, per centocinquant’anni, fino al New Deal, che ha riconosciuto in capo al governo federale l’attuazione di alcune misure di politica sociale, è stata una competenza esclusiva statale e individua nel sistema federale una ragione aggiuntiva, a quelle indicate a suo tempo da Sombart, dell’assenza di un partito socialista americano. Per quanto riguarda la difesa, si rinvia a quanto già evidenziato da altre parti, mentre per quanto riguarda la moneta, quanto scritto da Galbraith sulle vicende monetarie degli Stati Uniti è già sufficiente per sostenere che, a parte il periodo delle due banche nazionali, l’emissione di moneta, almeno fino alla nascita del Federal Reserve System, è sempre stata una competenza statale. La politica fiscale, come visto prima, era invece, prevalentemente, una competenza statale. Se oggi la difesa, di fatto, ma non nella forma, è una competenza esclusivamente federale, e la politica fiscale una competenza condivisa, questo è stato il risultato di emendamenti alla costituzione e, soprattutto, l’esito di grandi spostamenti dell’elettorato americano a favore di quei partiti che, di volta in volta, si facevano promotori di un maggior intervento federale nella politica monetaria e nella politica fiscale, determinando, formalmente o sostanzialmente, veri e propri cambiamenti costituzionali, cioè cambiamenti delle regole che presiedono alla vita di una comunità federale di Stati e di cittadini.

4. Conclusioni: la fine del “caucus” europeo e la nascita di una coalizione europea conservatrice e di una progressista

Le prossime elezioni europee rappresenteranno un altro passo avanti verso la loro maggior politicizzazione e il panorama politico europeo cambierà profondamente, forse avvicinandosi al modello del bipartitismo americano. Alcuni passi avanti sono stati computi, ma altri ancora ne restano da fare. Intanto, il quadro istituzionale europeo è sempre più accettato come quello in cui si discutono le grandi scelte che interessano i cittadini europei. In secondo luogo, la procedura dello spitzenkandidaten per l’elezione del Presidente della Commissione tende a polarizzare gli schieramenti politici europei. La polarizzazione degli schieramenti politici, a sua volta, incentiva la formazione di coalizioni eterogenee e, come nel caso americano, con un’ampia articolazione della rappresentanza, esse avranno natura costituente. Questo non significa che l’iniziativa costituente partirà necessariamente dalle sole coalizioni, ma che grandi spostamenti dell’elettorato o nuove maggioranze nel Parlamento europeo, ne costituiranno il presupposto parlamentare. Si tratta di un processo che si aprirà con la prossima legislatura, ma che per manifestarsi pienamente richiederà probabilmente più cicli elettorali. Fino alle elezioni del 2014, il Presidente della Commissione europea era scelto dai Capi di Stato e di governo, un vero e proprio “caucus” europeo che decideva nel chiuso di una stanza: una procedura ben più opaca di quella americana, dove interveniva il potere legislativo. Nell’UE, era una sorta di monarchia collettiva che chiedeva al Parlamento europeo una legittimazione democratica per quello che, fino ad allora, era il suo ambasciatore. Come negli Stati Uniti, con l’elezione del Presidente della federazione, così nell’UE con la nomina di Juncker, l’elettorato europeo ha cominciato a pesare sulla scelta dell’esecutivo europeo e la lotta politica ha fatto la sua comparsa su scala continentale. La sua nomina da parte del Consiglio europeo, per la prima volta, è stata fatta tenendo conto del risultato delle elezioni europee ed a maggioranza, in quanto il Regno Unito e l’Ungheria hanno votato contro. Il Parlamento europeo, da parte sua, lo ha votato con il sostegno del Partito popolare e di una parte del Partito socialista, mettendo in evidenza una prima incrinatura dell’alleanza che, di fatto, aveva retto fino ad allora il funzionamento delle principali istituzioni europee e che, con più evidenza, si è ripetuta con l’elezione di Tajani alla presidenza del Parlamento europeo. Il grado di autonomia di cui ha potuto godere l’attuale presidenza della Commissione, e che si è manifestato nel varo del piano di investimenti che ha preso il suo nome e con le decisioni nel settore della difesa europea - le più importanti dalla caduta della CED -, ne ha sensibilmente politicizzato il ruolo. Difficilmente, le tendenze conservatrici e progressiste all’interno del Parlamento europeo troveranno la loro sintesi in una rinnovata alleanza tra Partito popolare e Partito socialista: a partire dalle prossime elezioni europee, diventerà sempre più importante il confronto tra programmi elettorali europei. La procedura dello spitzenkandidaten è dunque il motore principale del cambiamento istituzionale, una procedura che dovrà consolidarsi con le convenzioni europee di coalizione e, in un secondo tempo, con le primarie. Se questo è vero, è verosimile che i due tradizionali partiti che hanno fino ad ora guidato il funzionamento delle istituzioni europee evolveranno in una sorta di centro di due coalizioni, o alleanze: una conservatrice ed una progressista, entrambe di composizione eterogenea, come è normale che sia quando si tratta di coagulare il consenso di una comunità politica di dimensioni continentali, costituita da Stati storicamente consolidati e da una distribuzione geografica asimmetrica di gruppi e interessi economici, sociali e culturali. La loro composizione, per quanto eterogenea, dovrà comunque essere compatibile con un orientamento politico inteso in senso ampio e questa aggregazione sarà, in una certa misura, incentivata dalla recente decisione di modificare il Regolamento del Parlamento europeo riguardo la composizione dei gruppi politici, i cui componenti dovranno dichiarare per iscritto “di condividere la stessa affinità politica”. Nella misura in cui assumerà importanza l’aspetto organizzativo della coalizione, rispetto alla rigida disciplina di partito, le coalizioni rappresenteranno meglio il modo in cui si articola la società europea e saranno, di fatto, efficaci veicoli dei cambiamenti costituzionali che, di volta in volta, si renderanno necessari per il funzionamento delle istituzioni europee. Questo non esclude che, su provvedimenti specifici di particolare rilevanza per la società europea, possa convergere il voto di una parte, più o meno consistente, della coalizione opposta, come del resto si verifica normalmente negli USA. Il ruolo che, storicamente, le elezioni del Congresso americano hanno svolto nel cambiamento delle regole del gioco, ogni volta che questo si rendeva necessario, sembra un paragone valido anche con riferimento all’esperienza europea. Dopo le elezioni dirette del Parlamento europeo, i trattati europei - rimasti immutati per quasi trent’anni -, sono stati modificati più volte. A partire dal progetto di Trattato per l’Unione europea di Altiero Spinelli, i trattati sono stati modificati cinque volte: Atto unico, Trattato di Maastricht, Trattato di Amsterdam, Trattato di Nizza, Trattato di Lisbona. Esse sono state altrettante modifiche che hanno recepito gran parte delle indicazioni contenute nelle proposte di Spinelli e si può sostenere che siano state l’equivalente degli emendamenti alla costituzione americana, perché hanno, di volta in volta, adattato le regole democratiche alla sempre più spinta integrazione europea, anche se molta strada resta ancora da compiere.

Il concetto di “crisi” e ruolo costituente dei partiti europei. Poiché i passi avanti nel processo di unificazione europea sono avvenuti quasi sempre in momenti di crisi, i federalisti hanno dibattuto il concetto di “crisi delle istituzioni”, compiendo due passaggi nella sua formulazione, uno discusso in maniera esplicita, l’altro indirettamente. Inizialmente, si è affermato che si ha crisi quando viene a mancare il consenso generale che è “il fondamento sociale sul quale le istituzioni si reggono”, operando una distinzione tra “crisi di regime” e “crisi di comunità”. Si è quindi specificato che si ha “crisi di regime” quando lo sviluppo del modo di produzione fa emergere “nuove forze produttive che le istituzioni esistenti strutturalmente escludono dalla lotta politica”; mentre si ha “crisi di comunità” quando “l’ambito spaziale nel quale le forze sociali interagiscono e nel quale quindi si manifestano nuovi bisogni di organizzazione si amplia, mentre l’assetto istituzionale rimane ristretto alla dimensione primitiva”. Queste due fattispecie di crisi, però, ben si adattano ad uno Stato nazionale, ma non ad un’associazione di Stati che ha deciso di fondare i rapporti interstatali unicamente sulla forza del diritto e non sul diritto della forza e che, nel tempo, deve adeguare la distribuzione delle competenze tra il livello federale e quello degli Stati. Successivamente, discutendo la storia costituzionale americana, il concetto di crisi è stato arricchito di una fattispecie aggiuntiva. Si è fatto notare che gli Stati Uniti hanno attraversato i tre momenti costituenti ricordati sopra, nel corso dei quali la tenuta della comunità politica è stata messa in discussione. Si tratta di un’osservazione di non poco conto per l’iniziativa politica federalista. Essa sta ad indicare che neppure la Guerra di Secessione ha posto fine al processo di consolidamento dell’unione federale americana. Essa, caso mai, ha aperto una fase in cui un’unione basata sulla forza diventasse, nel tempo, un’unione basata unicamente sul diritto, su una politica di difesa e monetaria comune e sull’attribuzione di significative competenze fiscali in capo all’esecutivo federale. A differenza delle crisi di regime non si è trattato di integrare nella vita politica forze produttive fino ad allora escluse ed a differenza delle crisi di comunità non si è trattato di superare un ambito divenuto troppo ristretto per il dispiegarsi del funzionamento delle istituzioni democratiche. Si è trattato, piuttosto, di adeguare le regole di funzionamento del sistema democratico alla vita di una comunità politica che si stava integrando sempre di più a livello economico-sociale su scala continentale. Il nuovo concetto di crisi, quindi, è, soprattutto, la sconfessione dell’idea che un’unione federale continentale possa essere l’esito di un “salto”. L’esperienza americana è istruttiva anche da un altro punto di vista, che spesso accompagna il dibattito federalista e che rafforza la prospettiva del ruolo costituente dei partiti politici europei, vale a dire: le istituzioni devono precedere le politiche o sono le politiche che fondano le istituzioni? Premesso che la risposta va data con riferimento ad un’associazione di Stati che hanno deciso di mettere in comune competenze limitate, la storia americana e quella europea, benché diverse, vanno nella stessa direzione, nel senso che prima ci si è accordati su quali politiche mettere in comune e, poi, si sono adeguate le istituzioni. Nonostante la costituzione americana prevedesse la moneta come competenza federale, non esclusiva, ci sono voluti 125 anni prima che si istituisse il Federal Reserve System; nonostante la costituzione prevedesse che il Presidente degli Stati Uniti fosse il capo delle forze armate, per 130 anni le milizie statali hanno prevalso sulle forze armate federali; nonostante la costituzione prevedesse la competenza (non esclusiva) in materia fiscale, ci sono voluti circa 150 anni prima che il bilancio federale cominciasse a diventare più importante dei bilanci statali. L’esperienza americana ci dice quindi che le previsioni costituzionali sono condizione necessaria, ma non sufficiente, perché le competenze nel settore della moneta, della difesa e della politica di bilancio, si trasformino in competenze federali effettive. È stata la lotta politica, interna, nel caso della moneta e del bilancio, a richiedere il rafforzamento delle competenze federali e non una semplice previsione costituzionale, mentre nel caso della difesa, è stata la lotta politica tra Stati a livello mondiale, a sostenerne il rafforzamento. L’esperienza europea insegna la stessa cosa. L’unione politica è iniziata, ed è proseguita, quando i paesi europei hanno promosso delle politiche per la cui attuazione si rendeva necessario prevedere nuovi trattati o una loro revisione. L’avventura europea è cominciata quando i paesi fondatori hanno deciso che la politica del carbone e dell’acciaio doveva essere una competenza europea ed è continuata quando i paesi fondatori hanno deciso di promuovere il mercato comune e, con esso, la politica commerciale comune. Il processo si è poi rafforzato quando hanno deciso di promuovere la liberalizzazione degli scambi di merci e servizi con il mercato interno ed hanno deciso di rafforzarla dotandosi di una moneta unica. Nel caso europeo, chiedersi quindi se devono venire prima le istituzioni piuttosto che le politiche, sembra una domanda che non tiene conto del corso della storia europea. Con le prossime elezioni europee, per rispondere alle pressioni dei partiti sovranisti, è possibile che la vera novità sia la formazione di maggioranze su politiche per la fornitura di beni pubblici europei che, se necessario, potranno richiedere modifiche dei trattati.

È possibile richiedere il saggio completo di Domenico Moro con note e riferimenti bibliografici scrivendo alla redazione.

* Paul Kleppner, Critical Realignments and Electoral Systems, In: AA. VV., The Evolution of American Electoral Systems, Wesport, Greenwood Press, 1981, pp. 3-4; Valdimer Orlando Key, Jr., A Theory of Critical Elections, The Journal of Politics, Vol. 17, n. 1 (1955), pp. 3-18. Kleppner, più avanti, stabilendo una connessione con i “realignments” che accompagnano i momenti costituenti dell’esperienza federale americana, osserva che “Realignments are not systemic aberrations, but emerge directly from the dynamics inherent in the predominantly consituent nature of American parties. They arise “from emergent tensions in society which, not adequately controlled by the organization or outputs of party politics as usual, escalate to a flash point”. When such tensions are both broadly diffused and intensely felt by the mass public, and when they are not adequately integrated and aggregated by the party system as then constituted, they serve to shatter the existing coalitional arrangements by providing new bases for electoral mobilization. Realignments, then, emerge from the basically constituent nature of American political parties and are in themselves constituent acts” (p. 9).

Fonte immagine: Il Popolo Europeo.

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom