Parliamo dei progressi fatti e non fatti nel campo della difesa comune europea

Il vuoto nella e della difesa europea

, di Davide Emanuele Iannace

Il vuoto nella e della difesa europea
Photo by Filip Andrejevic on Unsplash, https://unsplash.com/photos/1LTunOck3es

Iniziamo questa volta concedendoci un momento leggermente nerd. Nel videogioco Dishonored 2, l’entità che dona i suoi poteri al o alla protagonista, parla del Vuoto descrivendolo come qualcosa che, in realtà, è pieno, pieno di dubbi, di forme impossibili da comprendere o che, anche se comprese, perdono di senso. Ad oggi la difesa europea è proprio come quel Vuoto: disordinata e apparentemente insensata.

Quando si guarda alla difesa europea, molto spesso l’idea che si ha sia di un complesso conglomerato di decisioni prese in tempi diversi, con ritmi diversi, ideologie politiche alle spalle molto diverse. Alcune di queste proposte sono state per lo più di tipo economico, come i famigerati o rinomati – dipende chi sia a parlarne – progetti PESCO. Altre, come ad esempio la creazione degli European Battlegroups, richiamano a delle scelte politiche e quasi strategiche, l’idea che sia possibile mettere su delle forze di intervento rapide – battaglioni di 1500 soldati e mezzi internazionali. Senza però, allo stesso tempo, che tale insieme di forze risponda a una reale esplicazione strategica-politica. Perché, di fatto, come direbbe Machiavelli, la guerra è solo un altro braccio della politica. In Europa non parliamo di guerra, non più. Le forze armate contemporanee vivono di per sé un processo nuovo nel come sono utilizzate, strutturate, finanziate. Un mondo complesso, multipolare, in cui sorgono potenze regionali e non – come l’India o il Pakistan, la Cina e la Russia – che operano su un numero sempre maggiore di livelli [1] dove anche l’Unione Europea si ritrova a muoversi e si ritrova a muovere i primi passi anche nella strutturazione di una forza di difesa che sia unitaria, se non proprio federale.

La recente proposta di Germania, Finlandia, Olanda, Portogallo e Slovenia di mettere insieme una task force rapida ad hoc, sulla falsa riga dei Battlegroups prima citati, non è un passo nella direzione giusta. Innanzitutto, perché è una decisione squisitamente nazionale. Questi paesi europei, facendo appello al possibile uso dell’articolo 44, richiamano a sé la possibilità di fare una sottospecie di politica estera in maniera coordinata, pur però radicando tale possibile scelta all’interno di un preciso sistema che vede i ministeri esteri e della difesa nazionali come punti cardine e centrali. Perché nonostante tale articolo vincoli ogni forza ad operare a seguito di una decisione della Commissione, l’uso dell’articolo 44 apparirebbe più come una giustifica, uno scudo, di decisioni già prese dalle nazioni, piuttosto che essere appunto una volontà espressa in sede europea.

Sono, insomma, andati a riempire un vuoto che si sente sempre di più in Europa. Un vuoto che vede l’Europa al centro di un pozzo gravitazionale intorno cui girano giganti – solidi e gassosi che siano – come la Russia, gli USA, la Cina, le nuove potenze asiatiche sia economiche che militari. La mancanza di una capacità reale di coordinare le proprie azioni estere, mentre al contempo si mantiene un ombrello comune, quello dell’Unione, sembra una sottospecie di schizofrenia tra un mondo che guarda al futuro – e comprende, tramite i diversi strumenti [indicare quali], che c’è un futuro da affrontare – e poi invece ancora ripreso dalle forze conservatrici che fanno da ancora al passato. La recente iniziativa a guida tedesca sembra più l’ennesimo tentativo di mettere un parziale pezza dinanzi un problema che si sente man mano che la situazione geopolitica, globale e mediterranea, diventa sempre di più un caos. La Russia di Putin continua a muoversi sull’area ucraina. La Cina continua a investire in maniera massiccia su fondamentali rotte di rifornimenti – come nell’estrazione di terre rare, che non servirà mai abbastanza dirlo, rimangono fondamentali per la transizione ecologica – e su infrastrutture. L’Europa stessa rimane al contempo ostaggio di paesi come la Turchia o la Bielorussa.

Sempre dal punto di vista nazionale, la recente iniziativa franco-italiana, i Trattati del Quirinale, offrono degli interessanti – ma non sufficienti – spunti di lettura sul tema. Il testo introduce in forma abbastanza vaga diverse modalità di mutuo scambio tra le nazioni – come una maggiore integrazione in ambito procurement e la collaborazione nell’ambito ricerca e sviluppo – si ancora ancora a quell’idea particolarmente ventesimo secolo che fonda la difesa strettamente nell’ambito del potere nazional-statale. L’unica riga in cui si parla di Europa, nell’articolo 2 del trattato, è quando si parla di cultura strategica europea comune da sviluppare, qualunque cosa questo voglia dire.

Serve una forza militare che possa essere strumento della politica estera europea. Inutile illudersi che il mondo non abbia bisogno anche di strumenti che siano potenzialmente offensivi. Serve che questi strumenti siano sottoposti al controllo del popolo – tramite un uso regolamentato da un parlamento direttamente eletto – e che non sia, al contempo, ridondante rispetto ad altre realtà di livello strategico. Il discorso non dovrebbe essere di che tipo di forza armarsi, ma di come fare in modo che tale forza sia sotto il controllo democratico e non uno strumento meramente tecnico da usare quasi come un software, come un Excel qualsiasi.

Tra il sapere che qualcosa serve, e l’ottenerla, ci passa il proverbiale mare. Il concept che forse è più difficile da superare, più di tutti gli altri, è l’integrazione dei sistemi militari – offensivi e difensivi – e dei meccanismi C&C (Comando e Controllo) delle diverse forze militari operanti in Europa. Il caso emblematico, che si mantiene a metà tra un caso positivo e uno negativo, sono le fregate FREMM, progetto misto francese-italiano che ha dato, in particolare a Fincantieri, un successo insperato nel mercato estero – ed è stato negativo, nel momento in cui le efficienti FREMM sono state vendute all’Egitto di al-Sīsī – e che, nonostante fosse un progetto misto tra i due paesi, è divenuto momento di rottura tra la Francia e l’Italia al momento delle vendite a paesi esteri, come verso il Marocco – cliente abituale di Parigi e non di Roma. Le rivalità, messe da parte in una fase progettuale, sono ritornate nel momento in cui ci si è riscoperti, finanziariamente e strategicamente, non alleati ma simpaticamente rivali.

Queste rivalità sono, semplicemente, un enorme spreco di risorse tanto economiche che politiche. La creazione di multiple piattaforme per adempiere ai medesimi scopi di missione – l’esistenza di, non si smetterà mai di puntarvi il dito, ben due futuri caccia di sesta generazione, FCAS e Tempest, grande esempio di politica di difesa europea – potrebbe costare moltissimo alle nazioni europee. Non solo dal punto di vista meramente economico. Il programma Tempest, da solo, è stimato potrebbe arrivare solo nei primi anni di sviluppo e uso a costare 25 miliardi di sterline alla Gran Bretagna e ai partner. Di FCAS è stato stimato un costo, solo per il dimostratore – entro il 2027, intorno i quattro miliardi di euro, da suddividere certamente tra le tre nazioni partner. Con costi solo di progettazione e di lancio stimati intorno i due miliardi per progetto, verrebbe da chiedersi – e qualcuno mette le mani avanti già su possibili fusioni – perché non partire direttamente con un unico progetto? Dopotutto, e questo è visibile perfino dalle parole con cui tali sistemi avanzati vengono descritti, le esigenze non sono così diverse da giustificare due progetti paralleli e costosi.

In un precedente articolo di Eurobull abbiamo messo in luce le spese di bilancio sostenute dai paesi membri dell’UE rispetto altri competitor come gli Stati Uniti e la Cina. Evidentemente, dati alla mano, il problema non è direttamente quanto le nazioni europee spendono annualmente nel loro comparto difesa. Piuttosto, è una spesa senza strategia e senza precise indicazioni che rende la spesa monetaria più dispendiosa e meno capace di creare un positivo effetto a cascata sul comparto anche produttivo.

La competizione sfrenata tra i vari attori produttivi europei produce una basilare incapacità di reggere il livello dei produttori fuori dal continente – Fincantieri, Leonardo, Rheinmetall, Thales, Dassault, e citiamo giusto i principali – che, necessario forse specificarlo, sono tanto attori privati che attori a guida statale, essendo di rilevante e primaria importanza per la politica statale.

Come ha già affermato in passato Ulrich Beck, viviamo in una società del rischio [2], dove le incertezze del futuro e del presente si sommano e creano di fatto le basi per un caotico approccio a come reagirvi. L’Europa ha strumenti a sufficienza per affrontare il rischio? Ad oggi, sembrerebbe di no. Le singole nazioni europee forse sono fornite di strumenti – spesso insufficienti, come l’esperienza afghana e in Sahel stanno e hanno dimostrato – a continuare le proprie politiche estere in maniera individuale.

Dinanzi però l’avanzata costante, lenta, ma presente, di competitor internazionali come la Cina, sorge spontanea la domanda su fin dove si spingerà la cecità degli stati-nazione nel non vedere quante possibilità si annidino in forme collaborative di tipo federale rispetto al lavoro singolo, un tempo sufficiente a donare imperi coloniali a Francia e Inghilterra, ma oggi decisamene insostenibile nei costi sia a breve che a lungo termine. La competizione perenne tra le nazioni europee in aree come il Mediterraneo e l’Africa ha generato non solo mostri ma danneggiato questi improbabili rivali – come nel caso libico, dove le scelte francesi abbastanza scellerate hanno non solo direttamente coinvolto l’Italia e i suoi proxy locali, ma poi l’intera area mediterranea e il confine sudeuropeo.

Prima o poi gli attori politici europei dovranno venire a patti con il semplice avvicendarsi del tempo. Non esistono più potenze europee, ma nazioni europee incapaci di affrontare in maniera individuale le sfide del futuro. E mentre in Europa si perde tempo a discutere se sia meglio FCAS o Tempest, tanto gli americani che i cinesi avanzano sul piano delle nuove generazioni di mezzi militari – e quindi di pressione politica. Di per sé, strumenti tanto legislativi che pratici sono già a disposizione, ma rimangono inespressi o inutilizzati. Quello che manca, davvero, è una strutturazione a lungo termine, stabile nel tempo e soprattutto mirata a una reale convergenza dei mezzi e dei fini a livello di tutta l’Unione. Finché si ragionerà in termini di scatole chiuse che, a volte, si aprono per collaborare, sarà difficile pensare a concetti come difesa e politica estera comune. Rinunciare a questi due piani sul piano nazionale sarà un passo a dir poco complicato per gli stati europei, eppure, per non diventare insetti nel parabrezza della storia, forse necessari.

Note

[1van der Schalk, Jessica. 2020. Toward a multipolar world, FreedomLab, 20 gennaio 2020, https://freedomlab.org/towards-a-multipolar-world-order/

[2Beck, Ulrich. 1992. Risk Society: Towards a New Modernity. Sage. Londra.

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