Due chiacchiere con Pawel Zerka dell’ECFR

Intervista a Pawel Zerka

, di Davide Emanuele Iannace

Intervista a Pawel Zerka

Quando parliamo di coesione in Europa, parliamo spesso delle disparità economiche presenti tra stati e regioni nel continente. È tutto qui? O, forse, si può parlare di coesione in maniera più vasta?

È stato uno dei topic affrontati nell’evento organizzato dal Das Progressive Zentrum in cooperazione con l’Ufficio federale affari esteri tedesco, con Stiftung Mercator e con la collaborazione tecnica di ECFR (European Council for Foreign Relations, o Consiglio Europeo per le Relazioni Estere). “Darin New Spaces: Striving towards a European Public Sphere” ha toccato anche questo, il ruolo della coesione all’interno del processo di formazione di una sfera pubblica europea e di conseguenza di uno spazio comune continentale non solo economica.

Coesione ed ECFR sono stati il tema della nostra chiacchierata con Pawel Zerka, policy fellow di base a Parigi. I think tank in Europa sono una novità recente, rispetto al contesto americano o britannico. Eppure, il loro ruolo non è da sottovalutare. La loro capacità di fornire consulenza, di fare lobbying e anche di fornire un supporto esterno ai policy maker sono stati tra i motivi della larga diffusione negli ambienti politici USA, ad esempio. Cosa fa ECFR, di cosa si occupa, quali sono i suoi progetti? Lo scopriremo nell’intervista di oggi.

Ciao Pawel, e grazie di essere con noi. Prima di tutto, partiamo con qualcosa di semplice: cos’è l’ECFR? E qual è il tuo ruolo al suo interno?

ECFR sta per European Council for Foreign Relations. È un think tank che si occupa di relazioni internazionali, formatosi un decennio fa. Può suonare, dal nome, come un altro think americano, il Center for Foreing Relations. Anche se non siamo collegati, questa casuale assonanza è anche un modo di richiamare ciò che proviamo a fare qui: creare un centro che parli delle relazioni estere europee con un occhio pan-europeo. Quel che facciamo qui non è diverso da quello che fanno simili istituzioni all’interno degli stati membri. In Italia, ad esempio, ci sono lo IAI e l’ISPI. Quasi ogni nazione ha dei think tank oramai che si occupano, con una prospettiva nazionale, legati ai rispettivi governi e diplomazie, di affari internazionali.

L’intenzione di ECFR è di rompere questa tendenza e creare una voce unica pan-europea. Abbiamo uffici in diverse città, come Parigi, Roma, Berlino, Londra, Madrid, Sofia, Varsavia. La sede di Londra è stata la principale fino a poco prima la Brexit. Dopo,, molte delle sue funzioni sono passate a Berlino. Contiamo su una board di VIP, diciamo ex-diplomatici, ministri degli affari esteri, accademici, giornalisti, provenienti da tutta Europa. Questo network ci aiuta a essere influenti nel settore e ci aiuta anche ad avere una migliore conoscenza sui diversi topic, utili ad analizzare gli affari esteri a livello europeo.

Riguardo il mio ruolo, sono un analista politico, dell’ufficio di Parigi. In totale, in tutto l’ECFR, saremo una settantina, senza contare il board che ho citato prima. Per lo più, lavoro con l’analisi dei dati.. Il mio lavoro si concentra, ad esempio, sui sondaggi d’opinione, che commissioniamo anche in diversi paesi europei, da cui poi traiamo i paper con cui cerchiamo di essere un po’ influenti. Per fare un esempio, recentemente Mark Leonard e Ivan Krastev, dell’ufficio di Parigi, hanno scritto un paper molto interessante sulle relazioni trans-atlantiche, basato proprio su un sondaggio che abbiamo fatto l’anno scorso. Un altro esempio è il Cohesion Monitor. Abbiamo anche un ulteriore progetto, che punta a rilevare l’opinione tra l’élite, tra le persone che lavorano in questo settore in diversi paesi europei. Lo abbiamo chiamato Coalition Explorer.

Cos’è questo Coalition Explorer? Qual è il suo scopo, cosa vuole esplorare effettivamente?

Coalition Explorer è un progetto che abbiamo iniziato da un po’ di tempo. L’ultimo è stato pubblicato l’anno scorso. In questo progetto, proviamo ad analizzare con chi ogni stato dell’Unione coopera su diversi ambiti di policy. Per esempio, chi la Polonia considera come principale partner per l’ambito economico o chi trova come peggior socio tra gli stati-membri. Abbiamo dozzine di rispondenti per ogni paese, così possiamo scoprire quanto popolare sia la Francia tra i polacchi, in che ambito, e contenporaneamente anche il contrario.

Possiamo considerarla una sorta di network analysis applicata agli stati quindi?

In un certo senso, si. Cosa conta qui per noi, cosa che proviamo a fare anche con il Cohesion Monitor, è fare da un lato le nostre analisi, preparare i nostri reports. Allo stesso tempo, il nostro scopo è creare un tool che sia facile da usare e navigare per tutti per svolgere le proprie analisi. Gli strumenti messi a disposizione online sono facili da usare, visualmente attrattivi, permettono una semplice navigazione tra i dati. Per esempio, l’interfaccia permette a chiunque di scoprire le differenze tra i paesi, vedere quale coalizione emerge in Europa, su chi e su cosa.

Ovviamente, qui mi viene naturale una questione. L’Italia, che network ha?

Non ricordo esattamente con quale nazione sia connessa meglio, ma posso assumere che lo sia bene con le nazioni dell’area mediterranea, come Francia e Spagna. Ricordo anche che, ad un certo punto, era sorta una certa animosità con l’Olanda.

Molto interessante, l’idea di creare un tool facile e fruibile da chiunque, dal ricercatore al giornalista, per avere una migliore idea di cosa succeda in Europa. Mi sembra un gran progetto

Non solo loro però. È utile per esempio anche per i diplomatici, sai? Usano il Coalition Explorer per provare le proprie idee sulle relazioni con le altre diplomazie europee, sui temi più diversi. Alcune volte, è come un tabloid per loro. Gli permette di avere un’idea di cosa gli altri pensino di loro.

Molto, molto interessante, è sicuramente qualcosa su cui butto l’occhio nel prossimo futuro. Passiamo ora al Cohesion Monitor, parte del progetto Rethink:Europe. Cos’è esattamente?

Coesione non è una parola semplice, e ha un suo bagaglio storico nell’Unione Europea. Il modo in cui concepiamo la coesione noi è diverso da quello che invece traspare dalle comunicazioni dell’UE. Normalmente, quando parlano di coesione ne parlano come uno strumento economico per livellare le differenze economiche intra-paese.

Noi, invece, pensiamo alla connessione come qualcosa di più generale, come di una colla che tiene utile le società e le nazioni europee. Per essere capaci di agire esternamente, che è il topic che più ci interessa, l’UE deve anche essere coesa al suo interno. L’Unione, il legame tra i paesi, deve essere forte, sia a livello politico che a livello di società civile.

Noi ci concentriamo sui legami ad entrambi i livelli, quelli tra nazioni e persone, per definire la nostra coesione. Per farlo, usiamo dei dati che sono comunemente accessibile per poter creare poi i nostri indici. Per esempio, usiamo molto i dati di Eurobarometer che rilevano l’attitudine verso l’UE, la fiducia, il supporto per gli ambiti di policy. Questi sono alcuni dei fattori che prendiamo a livello di società. Sono 42 in totale, da Eurostat e Eurobarometer, per creare dieci indicatori diversi, che definiamo come esperienze, attitudini, approvazioni, aspettative. Qualche esempio, uno dei quarantadue fattori che secondo contribuisce alla coesione è l’aspettativa per la vita in generale. Gli europei devono avere delle positive aspettative sulla loro vita se vogliamo vederli lavorare tra di loro. Altri fattori possono essere particolarmente sorprendenti a volte, eppure potrei spiegare perfettamente perché ci sono e perché sono importanti. Un altro esempio: abbiamo guardato ai risultati delle ultime elezioni parlamentari europee, contemporaneamente ai singoli voti raccolti dai partiti anti-europeisti dichiarati.

Usiamo quei dati anche che richiamano alla sensazione di appartenenza all’UE, simbolicamente. Questo è un dato che consideriamo più individuale. Stesso tempo, analizziamo ciò che definiamo come coesione strutturale, che è il livello nazionale.

Come si misura questa coesione strutturale?

Lo facciamo analizzando ad esempio quanti opt-out un membro ha. Quanto una nazione contribuisca al budget comune o quanto l’UE spenda lì. Analizziamo i legami economici tra quella singola nazione e il resto dell’UE. Usiamo anche altri indicatori economici, come ad esempio il livello di disoccupazione, disuguaglianze, debito governativo pubblico, i risparmi accumulati, per capire anche se la singola nazione abbia la resilienza economica necessaria a poter intraprendere azioni nel quadro comune europeo.

Questa è giusta una introduzione per mostrare come con un largo uso di fattori e data, molti immediatamente accessibile e che possiamo raccogliere facilmente, possiamo creare un indice di coesione finale per ogni nazione. Quando navighi poi i nostri strumenti, puoi andare ad osservare ogni singolo fattore e compararli. E lo puoi fare anche con una prospettiva storica, dal 2007 al 2019 circa.

Il Cohesion Monitor è nato nel 2009, quindi?

Non ricordo bene perché non ero nel team ECFR all’epoca, ma i primi dati raccolti sono del 2007. Questo ci permette di vedere come l’UE abbia affrontato diverse crisi, come quella dell’Eurozona, la cosiddetta crisi dei migranti poi, quella del COVID oggi. Ora, le analisi almeno con l’ultima crisi sono un po’ problematiche perché i nostri ultimi dati sono del 2019. Ne abbiamo raccolti altri, similmente a quanto fatto col Monitor, per cercare di capire l’impatto del COVID-19 sulla coesione europea e questo è stato infatti il focus del paper pubblicato l’anno scorso.

Sarà interessante sapere cosa ci racconteranno i dati del 2020. Tornando al Cohesion Monitor, hai definito la coesione come una sottospecie di colla tra società e nazioni. Ma è anche una colla che è sottoposta a degli stress, da parte di forze che vorrebbero distruggerla, come i movimenti nazionalisti e populisti in Europa. Cosa emerge, a riguardo, dai report?

Beh, ci sono dei partiti i cui programmi in qualche modo mirano al ri-ottenimento di prerogative prima statali, al riportarle a livello nazionale. È avvenuto in Polonia e Ungheria, per qualche momento anche in Italia e non ha aiutato ovviamente la cooperazione a livello comunitario. Il Cohesion Monitor ci permette però di vedere il problema in una prospettiva più ampia.

Se guardiamo a come il COVID ha testato la coesione europea, identifichiamo facilmente alcune sfide particolarmente rilevanti. Semplificando, una prima sfida è quella Meridionale, e non è tanto una sfida politica. Piuttosto, è una sfida di resilienza economica posta sotto stress. Nazioni come Italia, Grecia, Spagna, Croazia, hanno e stanno affrontando dei gravi problemi. Certo, delle vulnerabilità esistevano anche prima del COVID, come i tassi di disoccupazione elevati e di debito pubblico, ma la crisi COVID li ha messi maggiormente in luce. Ha ampliato inoltre la divergenza economica tra le diverse nazioni dell’Unione.

È una sfida per la coesione nel momento in cui dà spazio a forze anti-europee, come quelle presenti nei paesi dell’area settentrionale. Se le persone iniziano a essere scontente di pagare di più l’UE e di spostare queste risorse ad altre nazioni, ci ritroviamo dinanzi un problema che lede la coesione. Allo stesso tempo, anche i nazionalisti del sud guadagnano spazio di manovra. Basta che il governo per esempio abbia problemi con lo sfruttare le risorse appena arrivate o che la popolazione inizi a percepire che, accettando quei soldi, in qualche modo gli possa anche venire imposta una vera e propria Troika.

Questa era la prima sfida. Abbiamo poi una seconda, ovvero la sfida settentrionale. Abbiamo nazioni come Germania, Svezia, Olanda, che son state meno colpite dal punto di vista economico, fortunatamente, anche perché maggiormente resilienti. Di per sé, nazioni come Svezia e Danimarca hanno vissuto l’UE con un numero di opt-out maggiori rispetto al naturale processo di integrazione e hanno avuto molte più riserve anche sulla necessità di progredire in tal senso, tenendo come modello il Regno Unito. Brexit non li ha lasciati in una situazione semplice infatti.

Alcune frange della popolazione, in queste nazioni più stabili economicamente, potrebbero quindi vedere con maggiore avversità il progredire del processo integrativo. Il COVID amplia lo spazio a questi movimenti più nazionalisti. Hanno altri problemi, altre sfide, come ad esempio il cambiamento del panorama economico per l’emersione di nuove tendenze nel sistema industriale. Questo dà aria a movimento come quello di Wilders in Olanda, che di per sé aveva già supporto prima della crisi sanitaria. L’Unione si troverà ad affrontare nuovi problemi se alcune nazioni decideranno di investire più nel lavoro in solitaria, piuttosto che in quello di gruppo.

La terza sfida è quella centro-europea. Qui troviamo nazioni diverse tra di loro, come la Polonia, l’Ungheria, a guida di forze populiste. Abbiamo però anche la Repubblica Ceca o la liberale Slovacchia, che è in una posizione ancora diversa. Quest’ultima sta investendo tempo e risorse, guidato da un governo progressista, per navigare dentro l’Eurozona e distaccarsi dai suoi vicini.

L’Europa centrale potrebbe soffrire gravemente se la popolazione del resto dell’Unione diverrà maggiormente riluttante verso quelle nazioni che sono percepite come un rischio, come un danno dello stato di diritto. Il COVID ha creato spazio di manovra per i governi populisti e i rispettivi movimenti per colpire ancora di più le libertà garantite, sia politiche che dei diritti umani, come le proteste in Polonia stanno dimostrando contro la nuova legge sull’aborto.

Questo ci mostra quanto complessa sia la situazione, e non è legata esclusivamente ai governi di per sé ma parte dalla popolazione e dalle loro relazioni con le altre nazioni.

Possiamo dire quindi che molto è fatto da percezione e aspettative, della popolazione verso l’Europa, l’Unione e le sue istituzioni, ma anche verso il supporto ai populisti. Movimenti che catturano poi tali sentimenti e modificano la loro agenda ad hoc

Si, ma non è solo un supporto per specifici partiti, è più una attitudine profonda e radicata verso l’UE e le aspettative che si hanno. Bisogna anche calcolare i fattori più in qualche modo statistici e analitici, come gli indicatori economici, che incidono sulla coesione ugualmente.

Se l’Unione volesse tentare di migliorare tale coesione, come deve intervenire in questi fattori? Deve migliorare quelli economici, ma anche cercare di raggiungere la popolazione, provando a ricreare la sua immagine?

Hai ragione, se intendiamo la coesione in maniera più larga, allora anche le prescrizioni a livello di policy devono coprire dei temi più ampi. Penso che per proteggere la coesione in Europa l’Unione debba proteggere, per esempio, lo stato di diritto. C’è ampia discussione su quanto effettivamente sia stato fatto in tal senso. Bruxelles e i suoi stati membri non sembrano aver preso seriamente la necessità di proteggere i diritti dove sono stati violati, come in Ungheria e Polonia. La sfida Centro-Europea gira intorno questo problema, il come affrontarlo.

Noi non siamo ancora sicuri di quali saranno le conseguenze del COVID. Non sappiamo nemmeno se i soldi stanziati a giugno saranno sufficienti. Siamo ancora nella fase di dibattito sul come spenderli, ma forse sarà necessario spenderne ancora di più, perché non si è ancora completato l’effetto della crisi sanitaria, e questo porterà a nuove discussioni a sua volta.

Forse, quindi, nuovo supporto finanziario sarà necessario e questo sarà un topic controverso, specie nei cosiddetti Paesi frugali. A un livello di pubbliche relazioni e di comunicazione, la Commissione europea dovrà stare attenta a come disegnerà le sue conclusioni dalla crisi del COVID. Questo evento epocale ha messo in luce come l’Europa abbia bisogno di lavorare maggiormente insieme ma non dimostra necessariamente che siano necessarie più forme di integrazione in campi diversi da quelli attuali. L’Unione, ad oggi, forse non è preparata per una discussione su come ampliare l’integrazione e forse tale discussione potrebbe anche essere un boomerang. Non dovrebbe fermare, però, la Commissione stessa dal lavorare di più e meglio nei settori nei quali già adesso si coopera e su cui si può fare di più.

Ma, e qui è il federalista che parla ovviamente, le strutture dell’Unione possono essere un limite loro stesse, specie quando impongono all’UE dei limiti comportamentali. Abbiamo visto il caso dell’articolo 7 TUE e la sua mancata applicazione completa, a causa del potere di veto. L’Europa ha bisogno di una riforma, essendo nel mezzo tra una sorta di organizzazione sovranazionale e qualcosa di più. Se l’Unione volesse muoversi verso qualcosa di differente, come una federazione, la coesione sarà rilevante? Cosa dovrà succedere perché si possa vedere un cambiamento in tal senso?

Come te, mi considero anche io un federalista. Sarebbe però un errore muovere in avanti l’integrazione europea in aree nuovi e disegnarla come naturale conseguenza del COVID. Ho paura che questo possa provocare dei rigurgiti, perché la pazienza con l’UE è stata sottoposta a molto stress, portata quasi al limite. La discussione su come la Commissione abbia trattato con le compagnie farmaceutiche sul tema vaccini ne è un esempio.

Questo però non significa che non ci sono lezioni da apprendere, che si possono trarre da come la Commissione e le capitali europee hanno lavorato nello scorso anno. Non penso che però dei passi verso la federazione possano essere il nostro strumento perfetto per risolvere ogni problema. Il problema principale è che c’è bisogno di una discussione politica pubblica in Europea, ma non abbiamo questo spazio ad oggi, volendolo chiamare così. Siamo ancora troppo frammentati e divisi tra i confini nazionali. In tal modo, le capitali possono sempre rigirare la colpa sulle istituzioni comunitarie.

La stessa esistenza della Commissione permette di colpevolizzare Bruxelles per tutto. È un ruolo ingrato per questa istituzione, la pone in una posizione difficile eppure gli è quasi strutturale in qualche modo. Funziona come un utile capro espiatorio per molti governi. In tal senso, molto deve essere fatto proprio lavorando con questi, azioni che noi dell’ECFR intraprendiamo in numerose occasioni. Parliamo con i governi, proviamo a convincerli a cambiare la loro narrativa, non perché vada a vantaggio dell’Unione, ma perchè va a vantaggio anche loro. Abbiamo ad esempio recentemente organizzato diversi sondaggi nelle già citate nazioni frugali, come Austria e Olanda. Ci ha dato dei risultati interessanti, perché ci ha mostrato come di frugale nella realtà ci sia poco. La società civile era d’accordo con l’idea che l’UE spendesse qualcosa di più. C’era supporto all’idea di condividere i bilanci e le finanze con gli altri stati membri, in virtù delle situazioni eccezionali che stiamo vivendo.

I governi delle nazioni frugali hanno però una sorta di riflesso ostile a queste idee, visto che vivono in una narrativa dell’UE che la vede come un grande mercato comune. Tendono a dar la colpa a Bruxelles per ogni fallimento e per ogni cosa che non gli piace. Durante il COVID, abbiamo provato a incidere sulla la loro narrativa, di far comprendere come ogni cittadino sia influente in Europa e come possa essere benefico per tutti collaborare.

Collegandoci alla coesione, se preservi questi collegamenti economici stabili, se contribuisci alla creazione dell’idea di far parte di un progetto comune europeo dove ci può essere fiducia reciproca, hai una nazione ma anche una UE migliore e più forte. Penso molto possa essere fatto per migliorare come i paesi europei guardino all’UE. Molto è stato anche fatto. Per avere questo tipo di cambiamento, non c’è bisogno forse di quei cambiamenti istituzionali che potrebbero avere effetti contrari. Ma non riguarda tutte le aree. Per esempio, supporto l’idea di portare al voto a maggioranza qualificata gli affari esteri.

Possiamo dire che la soluzione che proponi è riscrivere la visione che si ha dell’Europa, specie da parte dei governi e delle loro società, e allo stesso tempo, fare piccoli passi per il cambiamento strutturale, come passando dal veto alla maggioranza qualificata nelle aree in cui l’UE ha già competenza. Il meglio che si possa far quindi, secondo te, è imparare dalle lezioni del COVID e muoversi verso una nuova direzione

Non so cosa succederà nel futuro, le conseguenze ad esempio di eventi come la Conferenza sul futuro dell’Europa. So che ci sono delle idee riguardo i cambiamenti da apportare ai trattati europei fondamentali e alla costituzione, ma non penso approderemo a qualcosa. Penso sia sbagliato porre ogni speranza sui cambiamenti istituzionali.

Ci sono piuttosto opportunità già a questo livello. Opportunità non ancora sfruttate, in ambiti come la difesa o la difesa dello stato di diritto. Non penso ci sia il supporto necessario ad oggi per dei cambiamenti radicali e forse concentrarsi esclusivamente su questo rischia di far perdere azione e spazio sul lato della collaborazione stato-cittadini e non solo con Bruxelles. Penso sarà necessario, come primo passo, cambiare il nostro modo di narrare l’Europa.

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