L’adolescenza europea, fra alcol, bullismo e problemi di salute mentale

, di Mirko Giuggiolini

L'adolescenza europea, fra alcol, bullismo e problemi di salute mentale
Foto di Ana Krach da Pixabay

L’adolescenza, il periodo di costruzione dell’io, è anche un periodo di forti rischi. Lo dicono UNICEF, ISS e Robert Koch Institut. Seppure questi siano meno, in termini numerici, rispetto a quelli corsi nei Paesi in via di sviluppo, anche nel vecchio continente esistono, preoccupano, e sono da tenere d’occhio.

L’adolescenza è da sempre considerata un periodo di transizione e, per questo, di instabilità, incertezze, caos e confusione; ci si affaccia per la prima volta al mondo degli adulti in più o meno tutte le sue declinazioni, ci si avvia verso l’esplorazione della propria e altrui sessualità, si approfondiscono i legami affettivi con le amiche e gli amici dell’infanzia e se ne creano di nuovi con altre persone, si diventa più consapevoli degli stimoli che si ricevono dall’esterno e grazie a questi ci si appresta a modellare gradualmente il proprio pensiero politico, estetico, religioso… e nel complesso si entra in una vera e propria fase di costruzione dell’io, un io che si libera pienamente, che va oltre i suoi confini e che, in questo modo, cerca di formarsi. È tuttavia un io fragile, che si divincola dai propri limiti ma che si sottrae anche dalle proprie protezioni, e che a causa di ciò si espone a dei rischi. Rischi che, per chi vive nel vecchio continente, si distanziano da quello che l’immaginario collettivo associa ad una crescita difficile e martoriante - una o un adolescente medio europeo non ha probabilità concrete di trovarsi a dover fronteggiare malattie quali la poliomielite e, nella maggior parte dei casi, non corre il pericolo di subire una mutilazione dei propri geniali per motivi ideologico-religiosi - ma che, nella nostra terra profondamente soggiogata dal consumismo e dalle crisi, sono comunque intensamente diffusi e producono effetti parimente tragici. A svelare nel dettaglio le condizioni delle e degli adolescenti europee ed europei, mettendo in evidenza situazioni fino a poco tempo fa poco note o note solo in maniera generica, ha contribuito in maniera fondamentale l’UNICEF attraverso i suoi studi periodici con, in particolare, il suo rapporto The State of the World’s Children 2021 «On my mind».

Il report dell’UNICEF prende in esame all’incirca tutti gli Stati del mondo, passando sotto la sua lente d’ingrandimento tutto ciò che riguarda lo stato delle bambine e dei bambini e delle e degli adolescenti - con, per questa edizione, una particolare attenzione al tema della salute mentale. L’analisi osserva i dati sia da un punto di vista nazionale che in ottica regionale-continentale, ma accorpando i dati europei a quelli centro-asiatici (con alcune eccezioni); di fronte alle notevoli differenze tra queste due aree del mondo per ciò che riguarda la società, la vita quotidiana ma anche la politica e l’economia, per le finalità di questo articolo si è scelto di - con lo scopo di fornire un quadro completo della situazione in Europa - selezionare alcuni Paesi ritenuti rappresentativi della generalità e di comparare tra loro i dati a questi riferiti anziché analizzare i dati regionali euro-centroasiatici. Di contro, non si è intervenuti ulteriormente in merito alla distinzione per genere operata dall’UNICEF nell’elaborazione statistica, per cui, pur con l’intenzione di astenersi da qualunque atteggiamento discriminatorio, a causa della struttura del report, ci si approccerà alle dimensioni prese in esame esclusivamente nell’ottica del binarismo di genere - appunto, perché l’UNICEF non ha strutturato il suo report in modo da andare oltre la concezione maschio-femmina, o quantomeno da tenere conto altresì delle condizioni specifiche, per ogni ambito di studio, delle e degli adolescenti trans*, non-binary o comunque non-cisgender.

Fatta questa premessa e procedendo con l’analisi dei dati, tra le varie problematiche che affliggono l’adolescenza e l’infanzia studiate dal report vi è quella del consumo di alcol: in Danimarca il 63,9% delle e degli adolescenti fra i 15 e i 19 anni ha fatto uso di alcol almeno una volta nei 12 mesi precedenti il campionamento; in Germania il 70,2%, in Italia il 50,8 %, nei Paesi Bassi il 60,9 %, in Polonia il 55,6 % e in Spagna il 56,6 %. Nel resto del mondo, lo stesso dato è pari al 26,7 %. Si rilevano, come evidente, percentuali più alte nei Paesi dell’Europa centro-nord-occidentale, e percentuali più basse in quelli dell’Europa mediterranea e orientale. Non sfugge inoltre una discreta differenza, sempre in termini di consumo di alcol, al variare del sesso (considerato, probabilmente, nella sua accezione anagrafica): le percentuali riportate in riferimento alle ragazze risultano essere più basse rispetto a quelle riferite ai ragazzi, con una differenza tra il 20 e il 30 % in tutti i Paesi presi in esame. Il report non riporta l’eventuale quantità con cui le e gli adolescenti studiate e studiati hanno assunto alcol nell’arco dei 12 mesi oggetto dell’analisi, per cui non è possibile operare una distinzione fra chi lo assume con sporadicità e, di contro, chi ne fa un uso costante e frequente; questa mancanza impedisce di comprendere se sussista o meno la presenza di un fenomeno di alcolismo giovanile diffuso. Ad ogni modo, secondo l’Osservatorio Nazionale Alcol del Ministero della Salute, il consumo di alcol da parte delle e dei giovani, oltre a comportare un abbassamento della percezione del rischio e a favorire i comportamenti senza controllo, a causa dell’ancora non completo sviluppo delle cellule cerebrali e dell’organismo in generale, «provoca danni cellulari a molti organi [...] producendo perdita di coordinamento e orientamento, diminuzione della memoria e rischio incrementato di incidentalità stradale» (tenendo a mente che gli incidenti stradali sono la prima causa di morte fra le e gli adolescenti). La legge vieta l’assunzione di sostanze alcoliche al di sotto dei 18 anni - nonostante neanche a quell’età il corpo sia totalmente in grado di metabolizzarle - al fine di evitare il prodursi di questi effetti spiacevoli e sconvenienti, di cui anche un consumo occasionale può essere causa. Inoltre, è in crescita un fenomeno noto come binge drinking, consistente nel bere indiscriminatamente grandi quantità di alcol in una sola volta con lo scopo unico di raggiungere l’ubriacatura. Tale fenomeno, che colpisce prevalentemente le e i giovani anche e soprattutto a causa delle influenze sociali subite dalle coetanee e dai coetanei e dalla società dei consumi in generale, aumenta il grado dei rischi dell’alcol, sia nel breve termine che nel lungo periodo, con particolare riguardo a quelli impattanti sulla salute mentale. Il binge drinking «è considerato uno dei più grandi problemi di salute al giorno d’oggi».

Alla luce di queste considerazioni - lungi comunque dal proporre un proibizionismo dell’alcol, che non produrrebbe altro che l’intenso incremento delle attività del suo mercato sommerso, aumentando dunque i profitti alla criminalità organizzata - e nonostante l’estrema astrattezza dei dati, della quale si è già discusso sopra, non si possono non considerare le alte percentuali di giovani che assumono alcol riportate dall’UNICEF come un problema di grave entità; problema, ad ogni modo, di cui non va, a parere di chi scrive, ricercata la causa primaria in un presunto senso di irresponsabilità delle e degli adolescenti, quanto più nell’assenza di un sistema di protezione sociale e di sensibilizzazione sugli effetti dell’alcol a partire dalle scuole che faccia acquisire maggiore consapevolezza sul tema, o anche, banalmente, nella mancanza - frequente - di un modo di divertirsi alternativo al bere, che potrebbe a titolo esemplificativo ritrovarsi nella cultura - a patto che questa cultura sia realmente stimolante e rispecchi gli interessi e le attitudini delle nuove generazioni.

Un’altra questione di discreta rilevanza presa in esame dall’UNICEF è quella dell’inattività fisica; in Spagna il 76,6 % delle e degli adolescenti iscritte ed iscritti ad un corso di studi non svolge sufficiente attività fisica; in Polonia il 78,8 %, nei Paesi Bassi l’80,1 %, in Italia l’88,1 %, in Germania l’83,7 % e in Danimarca l’84,5 %. Lo stesso dato a livello mondiale è pari all’82 %. In tutti i Paesi europei menzionati la percentuale di ragazze che non svolgono attività fisica è più alta di quella dei ragazzi (simbolo, forse, del permanere insistente di quella concezione culturale che ritiene il fare sport prerogativa esclusiva del genere maschile?), con le italiane al primo posto (91,4 %). Nell’opinione dell’Istituto Superiore di Sanità, uno svolgimento regolare dell’attività fisica non si limita a generare «molteplici benefici per la salute fisica, mentale e cognitiva, funzionali al raggiungimento di uno sviluppo armonico» e a concedere occasioni di socialità al di là del contesto scolastico, ma fornisce anche un maggiore incitamento all’orientare il proprio stile di vita verso una linea di tutela e miglioramento della propria salute; le e gli adolescenti che fanno sport solitamente rinunciano all’alcol, o lo assumono in forma più contenuta - e non è forse un caso che, in presenza di una grande disponibilità di alcol e di fronte ad un forte astensionismo dall’attività fisica, le statistiche in merito al consumo di sostanze alcoliche siano, come visto in precedenza, alte. Ad ogni modo, se da un lato si potrebbe ipotizzare l’origine di tale elevatissima inattività fisica da parte delle e degli adolescenti in una qualche presunta svogliatezza o involontà di sottoporsi a sforzi intensi e periodici, appare più concreta e distante dai luoghi comuni l’ipotesi per cui l’adolescente media o medio non abbia tempo libero a sufficienza per praticare attività sportiva - in particolare a causa dell’opera di avvolgimento della quasi totale interezza della routine giornaliera compiuta dalla scuola e dalle attività ad essa connesse - o non abbia le risorse materiali per poterlo fare.

Il Robert Koch Institut individua l’inattività fisica - insieme ad altri fattori biologici, psicosociali, ambientali e contestuali, come la predisposizione genetica, una ridotta consapevolezza dei genitori sui temi della salute, l’assenza di aree giochi o un background da migrante - tra le possibili cause dell’essere in sovrappeso e dell’obesità. Secondo i dati UNICEF, la percentuale di adolescenti in tali condizioni nei Paesi Bassi, in Danimarca e in Polonia è pari al 24 %; in Italia al 34 %, in Spagna al 32 % e in Germania al 25 %. Lo stesso dato non è tenuto in considerazione dal report a livello mondiale. E, di contro, in tutti i Paesi sopra citati, la percentuale delle e degli adolescenti sottopeso è pari all’1 % - ad eccezione della Polonia, dove il dato si attesta al 2 %. Premettendo che ogni essere umano, in virtù della diversità umana, all’interno del suo organismo vede le caratteristiche generali del corpo umano declinate in maniera specifica, unica e diversa rispetto a tutti gli altri, e che per questo le condizioni di sottopeso e sovrappeso - definite dalla scienza attraverso dei parametri standard, che quindi cercano di omologare la diversità - non indicano necessariamente uno stato di malessere; il rigido regime sulla normativa alimentare presente nell’Unione Europea non sembra essere sufficiente a contenere quello che, alla luce delle evidenze, non è banalizzabile come un semplice fenomeno diffuso di alimentazione scorretta e non salutare, o come il prodotto di sedentarietà estrema e altre abitudini nocive per l’organismo; il discreto tasso di sovrappeso e obesità può trovare forse le sue radici in aspetti più profondi dell’io, a partire soprattutto dalle relazioni che questo ha con le persone che lo circondano e con il resto della società, una società sempre più opprimente e giudicante, e che attraverso la sua violenza impedisce di trovare un equilibrio e di instaurare un pieno benessere con il proprio corpo. A potenziale sostegno di questa ipotesi, l’affermazione dell’europarlamentare Stefania Zambelli per cui in Europa si individuano 20 milioni di persone con disturbi del comportamento alimentare - realtà ben più complesse di un semplice insieme di cattive abitudini e su cui si tornerà più avanti.

Fra i vari modi attraverso cui la società opprime, giudica ed esercita la sua violenza, vi è il bullismo; nei Paesi Bassi l’11,8 % delle studentesse e degli studenti fra i 13 e i 15 anni ha segnalato di aver subito almeno un episodio di bullismo nei 30 giorni precedenti il campionamento; in Polonia e Germania il 20,8 %, in Italia l’11,5 %, in Spagna il 9,6 % e in Danimarca il 13,3 %. Di interesse mettere in evidenza come, mentre le differenze di percentuale in base al genere in Italia, Germania, Paesi Bassi e Spagna, siano sostanzialmente irrilevanti, le ragazze danesi risultino essere vittime di bullismo in percentuale maggiore rispetto ai ragazzi (14,7 % contro 11,9 %), con il fenomeno inverso in Polonia (il 18,1 % delle ragazze contro il 23,4 % dei ragazzi). Anche in questo caso, il dato non viene rilevato a livello mondiale.

Secondo, ancora, gli studi del Robert Koch Institut, il bullismo espone maggiormente le e gli adolescenti che lo subiscono al suicidio, alla depressione e a disturbi psicosomatici in generale, con impatti anche sul lungo termine e, dunque, sulla vita dopo l’adolescenza. Inoltre, continuando con l’analisi di quanto sostenuto dal RKI, coloro che soffrono a causa del bullismo non sono solamente le vittime, ma anche chi esegue la violenza - sia essa verbale, fisica o relazionale (consistente, quest’ultima, nell’escludere ed emarginare socialmente la vittima, e nel diffondere dicerie malevoli su di essa) - e, in aggiunta, coloro che la subiscono e la eseguono contemporaneamente. Questa interpretazione del fenomeno del bullismo conduce sulla linea logica per cui la colpa della violenza non vada ricercata in forma primaria in chi la applica - poiché essa stessa o esso stesso soffre di ciò - quanto più, ancora una volta, nell’assenza di un sistema di protezione sociale che prevenga e impedisca la violenza; una o un adolescente che accumula tensione, malessere o altre emozioni potenzialmente spiacevoli nei vari contesti sociali in cui è inserita o inserito - la famiglia, la palestra, il lavoro, le amiche e gli amici… - a seconda delle declinazioni della sua personalità, potrebbe essere propensa o propenso a riversare gli effetti di tutto ciò su chi, a scuola in particolare, le o gli appare come maggiormente vulnerabile e fragile, ma la colpa non è in lei o lui, bensì nella società che, in virtù della sua struttura e della violenza da cui è pervasa, è la causa del malessere della bulla o del bullo e non fornisce a questa o questo gli strumenti necessari al fine di ridurre, attenuare, controllare o prevenire questo malessere.

Il fenomeno del bullismo, come già detto, è direttamente correlato a quello dei problemi di salute mentale, tematica principale del rapporto UNICEF in esame in questo articolo e riguardo alla quale è disponibile un fascicolo concentrato interamente ed esclusivamente su tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (con l’aggiunta di Andorra, Islanda, Liechtenstein, Monaco, Norvegia, San Marino, Svizzera e Regno Unito). Come sostenuto nel report, la salute mentale è stata una sfida ignorata per troppo tempo; i governi hanno investito sulla questione somme minime e irrilevanti e, tenendo conto anche della pandemia da COVID-19 - il cui impatto concreto sulla salute mentale, derivante principalmente dalla lunga assenza di socialità fisica a causa delle misure restrittive e dalla didattica disfunzionale, sarà visibile solo nel lungo termine - e dello stigma che ancora avvolge la tematica, imprimendo scetticismo verso figure quali quella della psicologa o dello psicologo sia nei singoli individui che nelle loro famiglie, il quadro complessivo non lascia spazio all’ottimismo; a dimostrazione di ciò, il dato secondo cui, in Europa, 9 milioni di adolescenti fra i 10 e i 19 anni soffrano di almeno un disturbo mentale; il 16,3 % della gioventù europea - la Next Generation, per la quale si investono 40,9 miliardi di euro in digitalizzazione negando, al tempo stesso, l’istituzione di una sanità mentale pubblica (ovviamente, condannando la vita quasi totalmente digitale dei giovani ma non attuando modi per contrastare la dipendenza da Internet). Tra le problematiche più diffuse, stando al report, vi sono l’ansia e la depressione; ne soffre il 54,8 % delle ragazze e dei ragazzi con disturbi mentali. Seguono ADHD, disturbi del comportamento e bipolarità. Tra le ragazze (5 %) emergono i disturbi del comportamento alimentare (presenti comunque, seppur in forma nettamente minore stando alle statistiche, anche tra i maschi) e tra i ragazzi (6,1 %) i disturbi dello spettro autistico (sebbene nella comunità scientifica sia aperto un dibattito che sta portando sempre di più ad assegnare a tali disturbi, come ad altri, la nomea di “condizioni di neurodiversità”, sottintendendo l’intenzione di porre in secondo piano l’aspetto patologico - secondo alcune correnti, in alcuni casi, totalmente assente). Tra tutti questi fenomeni, come fatto notare con regolarità dalla cronaca quotidiana, quello che riesce ad avere maggiore impatto sull’opinione pubblica - pur non riuscendo ad attirare sufficientemente l’attenzione delle istituzioni - è quello del suicidio; il suicidio è, infatti, la seconda causa di morte fra le e gli adolescenti europee ed europei (preceduta dagli incidenti stradali, certamente connessi anche al consumo di alcol e riguardo a cui si potrebbe discorrere molto, e seguita da anomalie congenite, annegamento e consumo di droghe). 1.200 adolescenti si suicidano ogni anno; il rapporto UNICEF stima 3 suicidi al giorno (in Europa). E, sempre secondo quanto riportato dal rapporto, i ragazzi tendono a compiere l’estrema scelta con maggiore frequenza rispetto alle ragazze; più aumenta l’età, più la differenza si ampia: tra le e gli adolescenti fra i 10 e i 14 anni che si suicidano, il 59 % sono dei ragazzi e il 41 % delle ragazze; fra i 15 e i 19 anni, invece, il 71 % e il 29 %; la media vede i ragazzi al 69 % e le ragazze al 31 %. Tenendo pur sempre a mente il grado di difficoltà elevato presente nel comprendere i fattori di un suicidio - fatto estremamente complesso - alcune teorie suggeriscono che in ciò che spinge i maschi ad uccidersi - oltre che anche in ciò che porta al nascere in loro di disturbi depressivi e di ansia - giochi un ruolo fondamentale lo stesso dominio maschile sulla società; i modelli estetici, di comportamento e di prestazioni lavorative e scolastiche impressi dal patriarcato - secondo cui chiunque abbia un pene deve essere “virile” (qualunque cosa significhi questo termine), imporsi con forza e violenza e farsi rispettare, pena la “perdita della mascolinità” - eserciterebbero, nell’opinione di questa linea di pensiero, una forte oppressione su qualunque individuo, fintanto da penetrare brutalmente nella psiche dei più deboli, soggiogandoli. A sostegno di questa teoria vi sono i frequenti episodi di suicidio da parte delle e degli adolescenti trans*; anche chi non trova collocazione in questo mondo fondato su un binarismo di genere nella concretezza inesistente è vittima di questo sistema.

Al di là del suicidio, dei problemi della salute mentale e delle altre varie questioni riguardanti l’adolescenza, come sottolineato più volte, i governi non stanno assumendo il ruolo giusto; nonostante, secondo l’UNICEF, il governo italiano, quello danese e quello tedesco investano circa il 20 % del PIL nella protezione sociale, e quello neerlandese, quello spagnolo e quello polacco circa il 16 %, gli investimenti - alla luce delle statistiche sopra riportate - non sono efficienti o, ad ogni modo, non sono indirizzati verso quelli che sono i problemi concreti di cui soffrono le e gli adolescenti. Inoltre, i già bassi investimenti sulla salute (tra il 4 e il 6 % del PIL per tutti i Paesi in esame, tranne Germania e Danimarca, che si attestano sull’8 %) aumentano l’incapacità delle istituzioni di far fronte ai disagi giovanili. Il Parlamento Europeo ha chiesto interventi in favore della salute mentale, ma il margine d’azione dell’Unione Europea - in virtù dei trattati e delle competenze assegnate all’Unione e quelle assegnate agli Stati - sembra estremamente limitato, e non lascia immaginare utopie quali uno psicologo di base gratuito obbligatorio in tutti gli Stati membri. Personale medico, movimenti studenteschi, giovanili o per i diritti umani in generale stanno cercando di esercitare forti pressioni affinché vengano adottate delle misure concrete a tutela della salute mentale e affinché venga rafforzato il sistema di protezione sociale, con anche misure quali il servizio psicologico scolastico e l’educazione alla sessualità e all’affettività; chiaro è, certamente, che l’attuale stato di degrado fisico e psichico in cui versano le e gli adolescenti non è null’altro che il prodotto finale degli abusi, dal consumismo allo sfruttamento dell’ambiente e dalle guerre alle disuguaglianze sociali, che la generazione ora anziana di occidentali ha perpetrato per secoli alla Terra e all’umanità; la generazione delle crisi - la generazione Z - non è tale per scelta autonoma.

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