L’attualità della Dichiarazione di Chivasso agli occhi di un valdostano federalista

, di Frédéric Piccoli

L'attualità della Dichiarazione di Chivasso agli occhi di un valdostano federalista

La Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, redatta il 19 dicembre 1943 a Chivasso, è un testo che merita oggi di essere riletto ed apprezzato: non solo perché da essa possiamo trarre, in chiave storica, le aspirazioni politiche di fondo della Resistenza italiana di matrice federalista, ma anche perché rimane, a più di settant’anni di distanza, parte integrante e viva del patrimonio ideale del federalismo italiano ed europeo.

Alla riunione di Chivasso, che si tenne in clandestinità presso l’abitazione di Edoardo Pons, parteciparono per le vallate valdostane Émile Chanoux ed Ernest Page (non riuscirono ad essere presenti Lino Binel, arrestato dai fascisti, e Frédéric Chabod, che fece pervenire per iscritto le proprie considerazioni) e per le vallate valdesi Osvaldo Coïsson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier.

All’incontro, che fu preceduto dallo scambio di bozze preparatorie, seguì la stesura di commenti e di opere, che ci permettono oggi di cogliere a pieno il pensiero contenuto nelle brevi disposizioni della Carta di Chivasso. Fra queste, ricordiamo Federalismo ed autonomie di Émile Chanoux, che, dopo il suo assassinio nelle carceri fasciste, sarà pubblicato per tramite di Franco Venturi fra i Quaderni dell’Italia libera, organo clandestino del Partito d’Azione, e Stati Uniti d’Europa di Mario Alberto Rollier, che, circolato durante la Guerra di Liberazione, sarà ripreso in mano dall’autore nel Dopoguerra e pubblicato nel 1950.

La Dichiarazione di Chivasso è composta da tre parti distinte.

Nella prima parte, i federalisti si scagliavano contro l’oppressione politica del regime fascista, che aveva imposto dall’alto la propria autorità e funzionari pubblici, impedendo qualsiasi forma di sviluppo democratico delle comunità alpine; contro le condizioni di sfruttamento spregiudicato delle aree di montagna, che avevano determinato lo spopolamento delle Alpi; e contro l’opera di smantellamento della cultura locale, promossa attraverso provvedimenti paradossali, quali l’italianizzazione dei toponimi o la chiusura di scuole ed istituti locali autonomi che avevano contribuito in maniera significativa all’alfabetizzazione dell’area alpina.

Nella seconda parte, affermavano anzitutto i diritti alla libertà di lingua e di religione come «condizione essenziale per la salvaguardia della personalità umana», anticipando il principio personalistico contenuto nella Costituzione repubblicana e la garanzia dei diritti individuali e collettivi. Quindi, riconoscevano nel federalismo l’unica soluzione per la coesistenza fra popoli di lingua, cultura e religione differente, nonché l’unico argine al ritorno della dittatura.

Nella terza parte, sottolineavano che, nel quadro del futuro Stato federale italiano, le vallate alpine si sarebbero dovute costituire, su base volontaria e democratica, in comunità autonome sul modello cantonale, conservando il diritto di essere rappresentate, al di là del numero (esiguo) degli abitanti, nelle assemblee politiche dello Stato e ottenendo che le autorità e i funzionari pubblici fossero espressione della comunità locale. A ciò si aggiunse la richiesta di autonomie culturali e linguistiche, quali ad esempio il riconoscimento del diritto di usare e di insegnare la lingua locale, oltre al ripristino della toponomastica, e la rivendicazione di autonomie economiche, che sostenessero la riforma del sistema agricolo montano e lo sviluppo delle valli alpine.

La Svizzera. Un modello per l’Italia e per l’Europa

Nel delineare le caratteristiche del nuovo Stato italiano, i federalisti riuniti a Chivasso guardavano con particolare interesse al modello svizzero. Esso rappresentava non soltanto una realtà vicina alla loro esperienza diretta, ma soprattutto, nell’Europa sconvolta dalla guerra, un modello di Stato democratico e pacifico. D’altra parte, proprio in Svizzera i principi teorici del federalismo, elaborati negli Stati Uniti d’America, avevano trovato un terreno fertile in cui attecchire e su cui sviluppare in maniera originale un federalismo adatto al contesto europeo.

I riferimenti al modello svizzero sono numerosi. Si ritrovano sia all’interno della stessa Dichiarazione di Chivasso, sia negli scritti che ne sono corollari. Peraltro, l’attenzione al federalismo elvetico era già emersa negli anni precedenti: in particolare, citiamo l’idea di Émile Chanoux, che fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento teorizzava l’allargamento dello Stato svizzero e la creazione di una Federazione alpina, che anticipasse la costituzione di una più ampia Federazione europea.

Per secoli, le Alpi avevano rappresentato un territorio impervio, abitato da popolazioni di lingue, culture e religioni molto diverse fra di loro. Con l’avvento dello Stato nazionale, le Alpi si erano trasformate da frontiera neutrale a zona di confine. Quei regimi nazionali di «mal governo livellatore ed accentratore» avevano sentito l’esigenza di “conquistare” culturalmente ed economicamente tutto quel che si poneva “al di qua” del confine. Alle prime eroiche spedizioni di alpinismo, organizzate con lo scopo di vincere la montagna e piantare sulla vetta la bandiera nazionale, era seguita la meticolosa opera di fortificazione bellica della catena alpina, che rapidamente mutò da confine a fronte di guerra.

Nell’elaborare il suo pensiero, Chanoux si confrontava con il passato politico delle Alpi. Esse avevano vissuto un lento processo di unificazione, che tuttavia aveva subìto una battuta d’arresto nel primo Ottocento, quando era stato lo stesso Congresso di Vienna a stabilire quali fossero le vallate appartenenti alla Confoederatio helvetica. L’allargamento della Svizzera, che nel 1848 si era dotata di una Costituzione federale, diventò presto impossibile: a Sud del Gran San Bernardo e del Chiablese, per gli accordi fra la Francia del Secondo Impero e il nascente Regno d’Italia, che si spartivano le vallate dell’arco alpino occidentale sulla base di un arbitrario criterio di nazionalità, ora francese, ora italiana, inapplicabile al contesto locale; e ad Est dei Grigioni, per la presenza ingombrante dell’Impero multinazionale asburgico (dal 1867: austro-ungarico), che per le minoranze ed i piccoli popoli dell’arco alpino orientale rappresentò, fino alla sua disgregazione, un’alternativa (ed un ostacolo) all’adesione allo Stato svizzero.

Negli anni più bui della Seconda Guerra Mondiale, al pari dei federalisti confinati sull’isola di Ventotene, Émile Chanoux si interrogò sul futuro assetto democratico dell’Europa. E ipotizzò che, al termine della guerra, si potesse aprire una finestra storica che permettesse alle popolazioni alpine di far ripartire il processo di unificazione interrotto un secolo prima.

Ai partecipanti della riunione di Chivasso Émile Chanoux poté esprimere liberamente la propria visione dell’Europa. Tuttavia, tanto nella bozza preliminare che presentò in quella sede, quanto nel testo finale della Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, la prospettiva mutava: l’obiettivo politico diventava la trasformazione in senso repubblicano e federale degli Stati esistenti, che tutelasse in particolar modo le comunità alpine. Il modello di riferimento era, come si è detto, quello svizzero, fondato sulle caratteristiche del Cantone quale ente federato espressione dell’identità storica e del senso di appartenenza di un popolo. Peraltro, le opere, successive alla Dichiarazione di Chivasso, chiarirono che il progetto federale rivendicato per l’Italia si doveva inserire necessariamente in un più vasto progetto di federazione dell’Europa.

Alla luce degli accadimenti degli ultimi settant’anni, il progetto originario di Federazione alpina, elaborato da Chanoux negli anni precedenti all’incontro di Chivasso, potrebbe apparire ai più come un progetto fallito: nel Secondo Dopoguerra, gli Stati nazionali, distrutti nelle loro strutture materiali e negli apparati pubblici, hanno goduto di condizioni favorevoli per la loro ricostruzione; e proprio dalla ricostituzione degli Stati europei si sono avviate le prime forme di integrazione economica. In tutti questi decenni, non lungo il crinale delle Alpi, quanto piuttosto lungo le sponde del Reno si è mosso il percorso di unificazione del continente.

In realtà, nel primo progetto di Chanoux è contenuta una visione profondamente federalista ed europea, che rimane sinceramente attuale. Oggi, infatti, sebbene sia inapplicabile il “pensiero storico” che ne è stato alla base (dal momento che non paiono esservi in concreto i margini per la creazione di una Federazione delle Alpi che anticipi la costituzione di una Federazione europea), è comunque fondamentale che se ne riscopra il “pensiero ideale”. È importante che, in questa fase, i federalisti di tutto il continente, che condividono una certa idea dell’Europa e ritengono di primaria importanza la creazione di un’Unione politica e federale, sappiano lasciarsi ispirare nella loro azione, riscoprendo le soluzioni di convivenza elaborate dai piccoli popoli alpini, che, nel loro spirito federalista, per usare le parole e il tono profetico di Chanoux, «portano in loro la verità e l’avvenire».

L’attuazione dei principî della Dichiarazione di Chivasso

I principî enunciati nella Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine non hanno, ben inteso, esaurito la loro portata. Oggi siamo chiamati a verificare la corrispondenza fra i valori contenuti nella Carta di Chivasso e la realtà di questi anni, proponendo adeguate soluzioni, laddove vi siano dei contrasti, e aggiornando al contesto odierno le aspirazioni dei federalisti italiani.

Ecco, in ordine sparso, alcune proposte ed istanze:

• La lotta alle nuove cause di emigrazione dalle aree alpine, ed in particolare di quella giovanile, attraverso misure che, in un territorio complesso come quello montano, garantiscano lo Stato sociale e la prestazione dei servizi pubblici, oltre a provvedimenti che favoriscano il ripopolamento delle Alpi, investendo sul loro sviluppo sostenibile e sulle potenzialità offerte da un’età di profonde trasformazioni nel mondo dell’industria e dell’impresa, oltre che in quello del lavoro.

• La promozione delle identità locali ed, in particolar modo, del plurilinguismo delle vallate alpine. In questo senso, nel contesto valdostano, è oggi di primaria importanza il contrasto alla marginalizzazione della lingua francese alla sola dimensione della scuola e ad alcuni ambienti del mondo politico-istituzionale o di quello culturale, riaffermando un bilinguismo pratico nei diversi aspetti della vita sociale. Inoltre, è tempo che si offra il dovuto riconoscimento nella sfera pubblica alle altre lingue parlate in Valle d’Aosta, quali il francoprovenzale e gli idiomi di derivazione germanica (titsch e toïtschu), ponendo fine alla vile polemica (peraltro estranea alla cultura valdostana) che le mette in competizione con il francese e che mina le basi dello sviluppo del plurilinguismo alpino in chiave moderna.

• La lotta ai sodalizi ed alle organizzazioni criminali, che attraverso le infiltrazioni nel tessuto economico e politico, intendono occupare e sfruttare i poteri dello Stato e delle autonomie territoriali (Regioni, Province, Comuni) ispirate da quel disegno repubblicano, democratico e federale.

• La difesa, contro le nuove e preoccupanti tendenze confessionistiche, della libertà religiosa e del modello di convivenza fra confessioni differenti elaborato dalla Costituente e sviluppatosi in età repubblicana.

• La garanzia del diritto alla rappresentanza politica delle popolazioni alpine ed, in generale, delle minoranze in seno alle assemblee elettive, siano esse regionali, nazionali o europee. Se n’è trattato su questo blog in un articolo pubblicato nell’ottobre scorso.

• Il rafforzamento della partecipazione diretta delle Regioni all’attività legislativa dello Stato, mediante una riforma del sistema bicamerale italiano che, recependo elementi propri dei modelli federali, trasformi il Senato della Repubblica in un “Senato delle Regioni”. Ben intesa, tale aspirazione non può certo risolversi nella creazione di una seconda Camera di rappresentanza delle Regioni che, per la natura delle funzioni esercitate o dei meccanismi di funzionamento, non sia messa nelle condizioni di intervenire in concreto nel procedimento legislativo. Peraltro, è opportuno che in parallelo si rafforzino nella cornice regionale le forme di partecipazione diretta degli enti locali all’attività legislativa della Regione.

• L’abbandono di qualsiasi “tentazione macroregionalistica”, intesa come la volontà di imporre dall’alto e secondo criteri del tutto arbitrari una razionalizzazione, reale o presunta, del numero delle Regioni (e, parallelamente, degli enti provinciali e comunali), oltre ad una riduzione delle funzioni loro attribuite, senza che alla decisione partecipino attivamente e su un piede di parità le popolazioni che ne sarebbero coinvolte.

• L’introduzione del principio dell’intesa fra lo Stato e la Regione per quanto attiene alla revisione degli Statuti speciali. Il progetto federalista contenuto nella Dichiarazione di Chivasso era sicuramente più ambizioso del sistema regionale concretamente realizzato dalla Costituzione repubblicana e dalla sua (tardiva) attuazione. Le riforme della XIII Legislatura (1996-2001), che hanno inteso rafforzare il regionalismo italiano, hanno attribuito alle Regioni a regime ordinario un certo margine di autonomia nella redazione dei propri Statuti, oltre ad ammettere la possibilità di ottenere maggiori condizioni di autonomia (la cosiddetta “autonomia differenziata”) a seguito di negoziati paritari fra Regione e Stato. È paradossale che, a più di quindici anni di distanza, le Regioni a regime speciale non abbiano ottenuto a loro volta le dovute garanzie costituzionali che impediscano allo Stato di modificare unilateralmente i contenuti delle autonomie speciali.

• La piena applicazione dei principi federalisti anche nella dimensione sovranazionale, che non ci sembra più rinviabile.

Fonte immagine: Wikipedia.

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