L’Europa attraverso le lettere dei condannati a morte della Resistenza

, di Mirko Giuggiolini

L'Europa attraverso le lettere dei condannati a morte della Resistenza

Passioni, ideali e desideri di chi è mortǝ per l’Europa libera e unita sono ripercorsi attraverso il docufilm RAI “Qualcosa che vive e brucia”. Le storie di dieci donne e uomini della Resistenza ricordano come il 25 Aprile possa essere considerata la data di nascita dell’Italia di oggi come dell’Europa, quella di Ventotene.

Uno studente di medicina dell’Università di Padova dedito alla fede cattolica tanto da raggiungere l’apice della sofferenza e fare di sé stesso un martire per far sì che altrɜ siano esentatɜ da ciò; l’autista di un tram al servizio di Vienna «caduto per un’idea, per l’umanità», ardente d’amore per sua moglie e i suoi figli, per la letteratura e la storia; un giovane bulgaro perplesso e amareggiato nei confronti di chi è indifferente, di chi non cerca giustizia, verità e amore; un’impiegata bancaria jugoslava fiera di sua figlia appena nata, «dato che al giorno d’oggi una donna non rappresenta affatto un essere debole» [1], volenterosa di esercitare il proprio diritto di essere madre anche dopo la morte, tanto da prescrivere ai parenti quanto affetto dovrà ricevere sua figlia, quali vestiti dovrà indossare («d’inverno, con pantaloncini lunghi. Anche per una bambina è meglio così») e dove dovrà dormire; un ufficiale tedesco antifascista con un passato da sostenire dell’integrazione economica europea che, consolando i suoi genitori per il destino a cui sta andando incontro, ride di fronte alla morte, affermando di averla già superata e di conservare comunque la da lui definita illusione per la quale in Europa il seme dello spirito si potrà spargere anche senza il sangue; uno scrittore, ugualmente tedesco, che dice addio a suo figlio rievocando le notti trascorse assieme a lui ad osservare la volta celeste, comunicandogli, al tempo stesso, che non sarà solo, perché «tutto il genere umano sarà padre per te»; un marinaio canadese ventunenne che trasportava armi per la Resistenza danese, pervaso dentro di sé da «qualcosa che vive e brucia, un amore, un’ispirazione [...] qualcosa per cui non sono riuscito a trovare un nome»; una lavoratrice di fabbrica cecoslovacca che, consapevole dell’ora esatta in cui esalerà il suo ultimo respiro, usa le sue ultime righe per ribadire il proprio amore verso la propria famiglia e chiedere perdono per le sofferenze arrecate, dimostrando come neanche la morte e le atrocità naziste l’abbiano privata del senso di umanità; una poetessa e insegnante belga cosciente del fatto che «si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessaria», quella a cui lei è andata incontro affinché «quelli che verranno dopo possano vivere liberi come io volevo», e, infine, un maestro di scuola elementare della Slesia che, pur in fin di morte, è «inspiegabilmente felice», illuminato dalla gioia dell’esistenza che è capace perfino di spingerlo a credere, mentre osserva di volta in volta lɜ propriɜ compagnɜ di cella essere prelevatɜ per l’esecuzione, che dopo il tramonto verso cui lui stesso si sta avviando vi sarà comunque una nuova alba.

Giorgio Mainardi, Atanas Nikolov Atanassov, Emil Kōnig, Lidija Šuput, Harro Shulze Boysen, Adam Kukhoff, Kim Malte Brunn, Marie Kudeňcová, Marguerite Bervoets e Alfred Shmidt Sad: dieci donne e uomini della Resistenza europea forti d’ideali, passioni, valori e visioni che, insieme a moltɜ altrɜ, hanno sacrificato le loro vite per concretizzare un sogno ancora oggi in parte incompiuto, ovvero per dare materialità all’idea di un’Europa libera dalla guerra e dal nazifascismo e unita nella pace e nella libertà.

Con il sottofondo sempre presente dei gemiti inquieti, adagi e mille volte corretti e ripetuti del Canto sospeso di Luigi Nono suonato da un’orchestra tedesca, il docufilm RAI Qualcosa che vive e brucia (2021) ci fa vivere le vite dellɜ combattenti sopra menzionatɜ, proiettandoci nella loro quotidianità prima dell’arresto - dalla cabina di guida di un tram a quella di pilotaggio di un elicottero, e da una biblioteca affollata di libri ad una scuola gremita di studentɜ - e facendoci ascoltare, in lingua originale con sottotitoli, le ultime parole che loro stessɜ hanno trasmesso su carta allɜ propriɜ carɜ prima dell’esecuzione, prima di trasformare il loro spirito di libertà in sangue e sacrificarsi, martirizzarsi in nome dell’Europa.

Nel repentino e sfuggente muoversi da uno Stato europeo all’altro e nel mix di lingue che domina tutto il lungometraggio - con un timido italiano presente solo per i primi minuti seguito poi da un continuo alternarsi di altre lingue neolatine fintanto che slave - lo spirito proprio dell’opera letteraria a cui il docufilm si ispira - Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, 1954 - si esplicita e si esibisce nel pieno delle proprie capacità persuasive e narrative al tempo stesso, raccontandoci con una ricostruzione estremamente fedele alla storia una Resistenza diversa da quella a cui siamo abituatɜ ad approcciarci attraverso i libri di scuola o il senso comune, una Resistenza che supera le barriere artificiali dei confini nazionali e che assume una dimensione che si sposta dalla geografia ai valori: una Resistenza - così raccontata soprattutto perché, sulla base di ciò che emerge dalle lettere, così percepita da chi l’ha vissuta in prima linea - che non è tale perché si lotta per l’indipendenza di un certo popolo piuttosto che di un altro bensì perché si resiste collettivamente, anche e soprattutto in forma organizzata a livello continentale fintanto che in certo modo mondiale, ad un nemico comune quale il nazifascismo mirando alla costruzione di una libertà che sia essa stessa comune e quanto più universale possibile. È proprio questa universalità, questo modo di concepire la lotta non come una lotta fine a sé stessa, reclusa nei propri confini - sia materiali che culturali - d’origine e di svolgimento, ma come una lotta orientata ad un qualcosa di più ampio e indescrivibile in forma esaustiva, che emerge con grinta dallɜ martiri della libertà le cui lettere sono oggetto del docufilm; nessunǝ di loro, nei testi proposti, esalta mai la propria nazione o il proprio spirito nazionale, mentre qualcunǝ, talvolta, invoca uno spirito europeo, un senso di appartenenza ad una grande famiglia lesa e ferita che necessita di essere ricostruita e ricomposta pezzo per pezzo; nessunǝ di loro, su questa linea, esprime disprezzo - nonostante le avversità documentate dalla storia a volte presenti, in pochi casi e in ben delimitate circostanze, tra gruppi partigiani di nazionalità diverse - per chi al pari di sé sta combattendo dall’altra parte della frontiera, augurando invece a chi sopravvive che l’amore e la meraviglia della natura e dell’esistenza possano tornare ad essere noti ed accessibili a tuttɜ; ugualmente, nessunǝ di loro crede che la propria morte sarà vana, destinata a non produrre frutti al pari di un albero coltivato su un terreno morto: tuttɜ loro sono fermamente convintɜ che il proprio sacrificio, il proprio martirio porterà qualcosa alle generazioni future e al continente e al mondo tutto.

Queste stesse visioni e questi stessi valori, negli anni in cui le lettere lette e narrate nel docufilm vennero scritte, confluirono a Ventotene, che da luogo di confino e repressione si trasformò in un laboratorio creativo e aperto dove ideologie e pensieri nettamente distinti tra loro si incontrarono, dando vita - proprio nel grembo della Resistenza - al primo progetto politico di un’Europa federale, libera e unita. Come tale disegno non si concretizzò nell’immediato, contrariamente a quanto prescritto da Altiero Spinelli, è storia; l’oggi è ancora una pagina vuota, pronta per essere scritta e riempita di contenuto, e la permanenza nell’Europa contemporanea degli ideali e dello spirito delle donne e degli uomini della Resistenza non è scontata: la brutale aggressione russa ai danni dell’Ucraina e l’incapacità del continente di influenzare il conflitto in prima persona e secondo i propri interessi anziché eseguire gli ordini degli Stati Uniti e subirne direttamente le conseguenze; l’indifferenza verso coloro che tutti i giorni muoiono nel Mediterraneo o nei boschi dei Balcani andando alla ricerca di un’alternativa di vita migliore e più umana; gli occhi chiusi di fronte ai molteplici conflitti, dallo Yemen alla Palestina e via dicendo, e alle ripetute e gravi violazioni dei diritti nel mondo (vedasi, fra i molti, la Cina e l’Iran, con i quali l’UE intrattiene comunque discrete relazioni economiche); il riemergere dei nazionalismi e dei sovranismi e, in ultimo, la mancata attuazione di azioni, anche e soprattutto popolari, vaste e realmente efficaci volte a debellare i nuovi fascismi - da Putin a Orbán e da Erdoğan a Morawiecki, passando per il razzismo, il revisionismo storico, l’omobitransfobia e la repressione poliziesca del governo Meloni (e dunque degli atti e delle dichiarazioni dei suoi esponenti tanto quanto dei provvedimenti e delle proposte di legge finora approvate o presentate) - dimostrano come il senso di giustizia - presente ove, per riprendere Simone Weil, nessunǝ si senta lesǝ o discriminatǝ e nessunǝ si chieda «perché mi viene fatto del male?» - e il principio di uguaglianza impliciti - nelle forme e nei modi propri del contesto storico - nella Resistenza non siano ancora riusciti ad imprimersi propriamente e permanentemente nel tessuto socio-culturale europeo, e come dunque la necessità di riscoprire tali valori sia oggi più che mai attuale: necessità da espletare proprio tornando a guardare l’Europa con lo sguardo - suggerito, ancora una volta, dal docufilm oggetto di questo articolo - di chi è morto per renderci liberз, dando dunque massima esaltazione all’idea di un’Europa unita e perciò federale, e che sia contemporaneamente democratica, indipendente, attenta ai diritti civili e sociali e orientata, anch’essa proprio come lo spirito di chi si è martirizzato per lei, all’universale: un’Europa volta all’apertura anziché alla costruzione di muri e alla Terra anziché alla Nazione.

Note

[1East Journal, “Resistenze: Lidija Suput, impiegata di banca jugoslava”, Edoardo Corradi

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