L’Unione europea: un progetto di pace

, di Giorgio Anselmi

L'Unione europea: un progetto di pace

Ad un solo italiano è stato assegnato il Premio Nobel per la pace. Ad Ernesto Teodoro Moneta, nel lontano 1907. Già patriota risorgimentale e garibaldino, Moneta promosse a cavallo tra Ottocento e Novecento pubblicazioni e convegni a favore della pace e per questo gli fu attribuito il Nobel. Qualche anno dopo sostenne la guerra di Libia e l’intervento italiano nella Grande Guerra. Non a caso ci fu chi propose di togliergli il prestigioso riconoscimento.

In anni più recenti lo stesso premio è stato assegnato ad Aung San Suu Kyi per il suo impegno a favore della democrazia e contro le atrocità commesse dai militari in Myanmar, un tempo nota come Birmania. Tuttavia, proprio negli ultimi due anni Aung, diventata dopo la liberazione prima ministro e poi Consigliere di Stato, la massima autorità politica e morale del Paese, non ha mosso un dito contro la persecuzione della minoranza Rohingya. Non mancano certo altri casi di Nobel per la pace dati a figure altrettanto discutibili.

Se venissero premiati con la stessa faciloneria dei chimici o dei fisici, la sorpresa sarebbe generale. Viene allora il dubbio che anche il Comitato norvegese che sceglie chi premiare tra le tante candidature pervenute da tutto il mondo non abbia le idee troppo chiare. In effetti, definire che cosa sia la pace rimane ancora oggi una questione molto controversa. Schematizzando, si possono ridurre a tre le teorie della pace e della guerra.

Vi sono anzitutto le spiegazioni darwiniane e psicoanalitiche, che considerano i conflitti come sfogo della naturale aggressività degli individui, dunque un dato permanente della storia umana, che si può tentare di controllare e limitare, ma non estirpare una volta per tutte. A questa categoria si possono assimilare anche quelle concezioni religiose che insistono sulla naturale malvagità dell’uomo e da questa o dal peccato originale fanno discendere la violenza e quindi la guerra, che di nuovo vengono viste come una componente strutturale che ha accompagnato fin dai primordi la nostra specie, a cominciare dalla lotta tra Caino ed Abele.

Un secondo grande gruppo di teorie è quello formulato dalle grandi ideologie dell’Ottocento: il liberalismo, la democrazia, il socialismo. Per quanto spesso in conflitto tra di loro, esse vedono tutte nell’ordinamento interno degli Stati l’origine della guerra. L’affermazione universale del liberalismo, della democrazia, del socialismo avrebbe posto fine anche ai conflitti tra gli Stati. Purtroppo la storia si è incaricata di sbugiardare più volte questa convinzione, rivelandone il carattere illusorio.

Vi è, infine, una terza teoria, che attribuisce la bellicosità all’esistenza stessa di Stati sovrani. Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, ha espresso questa convinzione con parole che meriterebbero di essere scolpite nella bronzo: “Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo.” E’ stato però il grande filosofo tedesco Immanuel Kant a definire con assoluta precisione la pace e a distinguerla radicalmente dalla guerra. Già il titolo della sua opera è indicativo: Per la pace perpetua (1795). La pace, infatti, o è perpetua o non è. Su questa base, Kant distingue tra pace e tregua. La prima è la condizione in cui la guerra risulta impossibile, la seconda una semplice pausa tra due guerre. Inevitabile concludere che nella storia dell’umanità vi sono state tregue più o meno lunghe, pace mai.

Come impedire però la naturale bellicosità tra gli Stati? Kant parte da una constatazione. Mentre all’interno degli Stati i conflitti sono regolati e risolti dal diritto e le infrazioni sono punite dai tribunali, tra gli Stati permane ancora quella “selvaggia libertà” che una volta regnava tra gli individui e li costringeva a farsi giustizia da sé. Così accade che tra gli Stati sia la guerra a stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Ancora oggi noi rimaniamo scandalizzati se una persona aggredisce un debole, a maggior ragione se si tratta di un bambino, mentre diamo quasi per scontato che gli Stati più forti si impongano sui più deboli anche con la forza. Si pensi, per non andare molto lontano, a come la Russia si è appropriata della Crimea con un colpo di mano militare.

Per realizzare la pace perpetua occorre allora sottomettere al diritto anche le controversie tra gli Stati attraverso una legge che sia al di sopra degli Stati e che venga fatta rispettare da un potere coercitivo. Non basta dunque il diritto internazionale, tipico delle tante alleanze e confederazioni che hanno accompagnato la storia moderna e contemporanea. I fallimenti prima della Società delle Nazioni e poi dell’ONU dovrebbero ricordarci questa amara verità. Non conoscendo l’esperienza americana della divisione della sovranità tra vari livelli di governo, Kant teme però la concentrazione di un potere enorme nelle mani di un governo mondiale che potrebbe conculcare la libertà sia delle persone che dei popoli.

In America era nato invece uno Stato di Stati, la federazione o unione federale, con due livelli di governo coordinati e indipendenti, secondo la felice formula di Kenneth Wheare. Al posto della eccessiva concentrazione di potere temuta da Kant si era realizzata una maggiore suddivisione del potere: non solo su base funzionale (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche su base territoriale (tra gli Stati e la Federazione). In Europa sarà non a caso la dottrina sociale della Chiesa a formulare il criterio in base al quale distribuire il potere tra i diversi livelli di governo. E’ il famoso principio di sussidiarietà, che si trova per la prima volta delineato nella Rerum novarum di Leone XIII, ripreso e chiarito poi nella Quadragesimo anno di Pio XI e riaffermato nella Mater et magistra di Giovanni XXIII. Il principio fu formulato inizialmente per difendere le famiglie, i corpi intermedi e gli enti locali dalle pretese totalizzanti dello Stato, il cui intervento era giustificato solo se necessario e sussidiario, ma per l’influenza del pensiero cattolico nel processo di unificazione europea venne poi esteso anche ai rapporti tra gli Stati e codificato infine nel Trattato di Maastricht.

Non a caso, dicevamo, perché nella tradizione cattolica e più in generale cristiana, accanto a quella tradizione che attribuisce la guerra al peccato originale, se ne trova un’altra che potremmo a buon diritto definire protofederalista e che vede la pace come il risultato di una ordinata gerarchia di poteri che, partendo dalle comunità più piccole (la famiglia, il villaggio, la città), arriva all’intera Cristianità o addirittura a tutto il genere umano. Se n’è fatto interprete Dante nel trattato politico De Monarchia. In questo testo si trova un’affermazione che ogni federalista potrebbe sottoscrivere: “Ubicumque potest esse litigium, ibi debet esse iudicium” (Dovunque ci può essere una controversia, là ci dev’essere un arbitrato). In altri termini, tutti i conflitti, anche quelli tra gli Stati, devono essere sottoposti al diritto e non alla forza.

Senza questa profonda ispirazione religiosa sarebbe impossibile spiegare il ruolo avuto da alcuni Padri fondatori del processo di unificazione europea: segnatamente, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Robert Schuman. Proprio alla famosa Dichiarazione pronunciata da quest’ultimo il 9 maggio 1950 si fa risalire l’inizio dell’avventura comunitaria. Ebbene, l’obiettivo indicato da Schuman andava ben oltre la Comunità europea del carbone e dell’acciaio: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta : abbiamo avuto la guerra.”

Dopo le due terribili guerre civili europee che avevano devastato nell’arco di un trentennio il Vecchio Continente e si erano trasformate in conflitti mondiali con decine di milioni di morti, è la pace intesa come fine di ogni guerra tra i popoli e tra gli Stati europei il vero fondamento su cui si può edificare la nuova Europa. In quasi settant’anni il cammino allora intrapreso ha segnato degli straordinari successi: da un lato, l’integrazione si è allargata a sempre nuovi settori e competenze, fino a comprendere addirittura la moneta, uno dei simboli della sovranità statale; dall’altro, il nucleo dei sei Paesi fondatori si è progressivamente allargato a quasi tutto il continente, portando la democrazia e lo stato di diritto anche in quegli Stati prima retti da regimi autoritari. Il percorso è stato accompagnato da una tale crescita dei diritti e delle opportunità che in Europa si è realizzata quella che Ralf Dahrendorf definirà più tardi la quadratura del cerchio, mettendo insieme libertà politica, progresso economico e solidarietà sociale.

Forse l’unico Premio Nobel per la pace davvero meritato è dunque quello assegnato nel 2012 all’Unione europea. Le motivazioni rimandano all’obiettivo fissato da Schuman: “Il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell’Ue: l’impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra a un continente di pace.”

Ma l’edificio è rimasto incompiuto. Quel cammino e quel modello sono rimessi in discussione da forze esterne ed interne. Un impetuoso processo di globalizzazione ha sconvolto le gerarchie tra continenti, aree economiche, Stati, ceti e gruppi sociali. Saprà l’Unione affrontare e superare queste nuove sfide ed offrirsi come un esempio di pacificazione e di convivenza per il mondo intero?

Articolo pubblicato su «Combonifem», n. 1/2, 2019.

Fonte immagine: Wikimedia.

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