La prospettiva migliore per comprendere il ciclo politico che si apre per la nuova Amministrazione americana è, forse, quella offerta dal direttore di Foreign Affairs, Gideon Rose. Secondo Rose, il ciclo politico mondiale che si sta aprendo ha la sua origine nel tentativo di Woodrow Wilson di instaurare un ordine internazionale basato sulla Lega delle Nazioni (il primo atto fondativo); continua con il successo di Franklin D. Roosevelt di dar vita ad istituzioni multilaterali, il cui funzionamento si basava sul potere americano (secondo atto fondativo); prosegue con l’estensione dell’ordine multilaterale, promossa da George H. W. Bush e Bill Clinton, a nuovi settori, come quello della finanza, ed a nuove aree del mondo, come con l’ingresso della Cina nella WTO, ma non all’URSS di Gorbaciov, che non poté così beneficiare del mercato globale (terzo atto fondativo). Questo, però, avvenne senza un adeguato consolidamento della capacità di governo delle istituzioni multilaterali esistenti, in quanto l’idea sottostante era che per il loro funzionamento bastasse la leadership mondiale degli USA (la “nazione indispensabile”). Questa scelta ha segnato l’inizio della fine del secolo americano. Il quarto atto fondativo, che dovrebbe consistere nel rilancio del cosiddetto “ordine liberale mondiale”, ora in crisi, è la sfida che attende Joe Biden, il quale, secondo Rose, dovrebbe riprendere la via rooseveltiana, anche introducendo, secondo altri, nuove istituzioni multilaterali, come il Transatlantic Strategic Partnership Agreement, promosso dalle sole democrazie occidentali.
Questa soluzione si basa su un presupposto teorico-pratico che riteniamo errato. È sbagliato imputare i disastrosi interventi militari, le guerre senza fine in Afghanistan, Iraq e Libia e le crisi finanziarie e crescenti disuguaglianze economiche seguite alle Amministrazioni di Bush senior e Clinton, al fallimento di un inesistente “ordine liberale mondiale”. Questa espressione, se riferita all’ordine multilaterale attuale, è infatti un ossimoro: se si interviene in un paese per “esportare la democrazia”, ci si può trovare – come in effetti è avvenuto – in una delle tre infelici situazioni ricordate proprio da un liberale, John Stuart Mill (A Few Words on Non-Intervention, 1859), tra cui l’inesistente consenso interno ad un sistema politico democratico che costringe ad una presenza militare permanente. Ma è soprattutto rispetto al contrasto delle crisi finanziarie e delle disuguaglianze economiche globali che un altro liberale, Lionel Robbins, ricordandoci che “le istituzioni caratteristiche di una società liberale sono inconcepibili senza governo” e che “dovrebbe essere evidente che esse sono incompatibili con la mancanza di sicurezza” (Economic Planning and International Order, 1937), mette in luce che quello che manca è il governo della globalizzazione.
Ad oggi, l’unico strumento che si avvicina a quest’ultimo ideale sono le istituzioni multilaterali, l’eredità più importante del secolo americano, che ci ha consentito di passare da un mondo di Stati sovrani e indipendenti ad un mondo di Stati sovrani e interdipendenti. Il multilateralismo americano, maturato in un contesto in cui le condizioni politiche apparivano insormontabili, ha toccato il suo apice nei primi anni seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale. Dopo di allora, anche per il colpevole ritardo con cui l’Europa ha fatto passi avanti verso la propria unificazione, ha prevalso la logica della politica di potenza e il ruolo americano ha progressivamente assunto le vesti dell’egemonia, erodendo, con il tempo, l’aspetto più innovativo e nobile di quella politica. Quest’involuzione non toglie nulla al significato rivoluzionario di quella svolta. Con essa, per la prima volta, la prospettiva della progressiva unificazione mondiale non è più confinata nell’ambito delle aspirazioni ideali, ma può essere l’oggetto di una politica e, quindi, possibile.
Certamente occorrerà rafforzare le istituzioni multilaterali e consentire loro di funzionare. Il cambio di passo è quello indicato da Joseph Stiglitz, secondo cui è necessario che “l’eccezionalismo americano sia genuinamente subordinato a valori ed interessi comuni, istituzioni internazionali, e a una forma di stato di diritto da cui gli USA non siano esenti”. In particolare, essi dovrebbero consentire a quelle istituzioni di perseguire gli scopi per i quali sono state istituite. Ma questo non basta: il solo volontarismo di un paese non supera i rapporti di forza esistenti tra Stati. Occorre che agli USA, e ad altri paesi disponibili, si affianchi l’UE, in modo da formare un’alleanza all’interno delle istituzioni multilaterali – Nazioni Unite, WTO, FMI, World Bank, ILO, ecc., di cui, bene o male, fanno parte anche paesi autoritari –, così da consentire loro di fornire i beni pubblici globali ed affermare i valori universali cui sono preposte. Solo in questo quadro, può avere un senso l’idea del Concerto o Lega delle democrazie. Con il recente accordo UE-Cina sugli investimenti, l’Unione ha cominciato, timidamente, a dare l’esempio, chiedendo alla Cina il rispetto delle convenzioni ILO – cui peraltro aderisce.
La fine del secolo americano non vuol dire che gli USA non abbiano più alcun ruolo decisivo da svolgere. Vuol solo dire che, da soli e senza rinunciare ad una parte della loro sovranità, non potranno contribuire alla nascita di un nuovo ordine mondiale. Biden non può invertire quella che, con sempre maggior evidenza, si profila come una tendenza storica irreversibile: il declino americano e l’emergere della Cina e di altre potenze continentali. Quello che Biden può dare all’Europa, ed al resto del mondo, sono quattro anni di tempo per progettare un nuovo ordine mondiale, perché l’elezione di Trump, come dimostrano gli oltre 70 milioni di voti che ha ricevuto, non è stata una semplice parentesi nella politica americana.
La parola decisiva spetterà agli europei che dovranno decidere, ad esempio, se promuovere l’ingresso dell’UE in quanto tale nelle istituzioni multilaterali accanto, in una fase transitoria, ai suoi Stati membri. La strada che deve essere percorsa richiederà tempi lunghi e molta immaginazione, soprattutto nell’individuare, per ciascuna delle istituzioni multilaterali, la “scintilla di sovranazionalità”, di cui parlava Altiero Spinelli, che consenta loro di funzionare autonomamente, senza essere del tutto condizionate dall’evoluzione dei rapporti di potere al loro interno. Vi è un criterio che può aiutare a valutare la congruità delle soluzioni che verranno di volta in volta proposte: è quello contenuto nel Trattato di Lisbona, là dove, all’art. 1, dice che l’obiettivo dell’UE è la “creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa” e rispettosa dei valori universali. Nel nostro caso, quello del “quarto atto fondativo”, si tratterebbe di dar vita ad un’unione sempre più stretta tra i popoli del mondo: l’unico criterio che può guidare la riforma e la gestione delle istituzioni multilaterali e che la comunità mondiale potrebbe condividere.
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