La Patria che qualcuno voleva rompere: la nascita di Vox

, di Nicola Riccardi

 La Patria che qualcuno voleva rompere: la nascita di Vox
Contando Estrelas, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/license...> , via Wikimedia Commons

Eurobull.it collabora con La strada per la Moncloa, il primo podcast italiano dedicato alla storia politica spagnola più recente, per una serie di articoli che esplorano il rapporto tra la destra spagnola e quella italiana e il ritorno del nazionalismo in Europa.

A inizio 2014 il Partido Popular ha la maggioranza assoluta del Parlamento spagnolo. Eppure, al suo interno, sono in tanti a ritenere che, sotto la guida di Mariano Rajoy, questo non sia più in grado di difendere gli interessi nazionali dalle spinte secessioniste di Catalogna e Paesi Baschi. In questo articolo, la storia di quei giorni e della scissione che diede vita a Vox.

“Artur Mas ha deciso, sin dall’inizio, di bruciare le navi per rendere chiaro, come a suo tempo fece Hernán Cortes, che la ritirata è impossibile. O consegue il suo obiettivo di riconquistare la sovranità della Catalogna o perirà nell’impresa.” [1] Sono queste le parole con cui Jordi Barbeta, nota firma del quotidiano barcellonese La Vanguardia, inchioda il tentativo del leader indipendentista catalano di forzare la mano all’esecutivo guidato da Mariano Rajoy.

Con il suo intervento nell’Assemblea Catalana del 25 settembre 2012, Artur Mas punta la rotta del suo Governo verso una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Scioglie le Camere e proclama nuove elezioni. L’obiettivo dichiarato è quello di raggiungere una maggioranza indipendentista capace di produrre lo strappo definitivo. La stagione politica che si apre a seguito dell’inasprimento dello scontro tra Barcellona e Madrid, tra Mas e Rajoy genera una crisi interna al Partido Popular. La timida risposta che Rajoy offre alla sfida di Artur Mas produce il malcontento dell’area più oltranzista e centralista del suo partito. La deriva marianista del PP diventa così l’espediente retorico attorno al quale si riuniscono i delusi dalle politiche di un premier che, pur godendo di una maggioranza assoluta nel Congresso, si dimostra incapace di attuare con determinazione contro chi vorrebbe “rompere la Spagna”.

The quiet dogmas of the past are inadequate to the stormy present. Questa celebre citazione di Abramo Lincoln apre la lettera con la quale Alejo Vidal Quadras, dopo più di trent’anni di fedele militanza nel PP catalano, decide di abbandonare il partito. È il 24 gennaio 2014. I Populares governano il Paese dal 2011 e sono alle prese con la complessa gestione della crisi economica che dal 2008 colpisce il Paese, con il delicato dossier delle politiche penitenziarie da adottare per i membri del gruppo terrorista basco Euskadi ta Askatasuna e con uno scandalo di corruzione di dimensioni inedite che coinvolge l’ex tesoriere del partito, Luis Bárcenas. Lo “stormy present” dei Populares produce una crisi di fiducia che apre le porte alla fine del bipolarismo che domina la Spagna dal 1977.

Nel gennaio 2014, in riferimento alla situazione politica generale, il 31,4% degli spagnoli ritiene che sia “negativa”, il 50,4% la giudica “pessima”. Allo stesso modo, la gestione del governo Rajoy è considerata negativamente da oltre il 70% degli spagnoli mentre il comportamento dell’opposizione del Psoe è ritenuta inadeguata dal 70,8% del campione intervistato. I dati sono ancora peggiori se si prende in considerazione l’indice di gradimento dei due principali leader di PP e Psoe: Rajoy suscita poca fiducia nel 24,8% e nessuna fiducia nel 63,3% dell’elettorato mentre Alfredo Pérez Rubalcaba, leader dei socialisti, suscita poca fiducia nel 34,7% e nessuna fiducia nel 56,2%. [2]

Il terreno è fertile per l’imprenditoria politica. L’offensiva separatista di Artur Mas da un lato, i moniti di riappacificazione e dialogo di Rajoy dall’altro [3] producono una crepa non più rimarginabile nel Partito che guida il Paese.

Il caso Bárcenas, la politica penitenziaria, la crisi economica, i dissapori interni al Partito Popular e la timidezza con la quale il governo risponde all’offensiva indipendentista catalana sono gli elementi che il 16 gennaio del 2014 portano alla fondazione di Vox. Più che una vera e propria alternativa, dotata di un’identità politica e culturale specifica con significative pretese elettorali, Vox rappresenta, almeno nelle sue fasi iniziali, la reazione di un gruppo eterogeneo di ex militanti e/o simpatizzanti del PP che, delusi dall’azione del governo Rajoy, frustrati da un apparato di partito sempre più chiuso in sé stesso, decide di autorappresentarsi come soggetto politico indipendente. Un partito nato contro il PP fondato da figure che nel PP sono cresciute e maturate politicamente. La stampa conservatrice guarda con simpatia la nascita di questo partito. Carlos Cuesta, in aperta polemica con il partito di Rajoy, scrive, provocatoriamente, che il vero promotore della nascita di Vox sia lo stesso Partito Popular. Tuttavia, l’entusiasmo degli inizi prodotto dalla simpatia dei due principali quotidiani della destra storica (El Mundo e ABC) e da una serie di testate online di ispirazione conservatrice (Libertad digital in particolare) finisce presto per scontrarsi con una realtà nella quale il Partido Popular mantiene la propria forza elettorale e Vox non riesce ad emergere. Si apre sin da subito per Vox una larga stagione di crisi, fallimenti e rigenerazione che durerà sino al dicembre 2018, quando il partito di Santiago Abascal troverà il primo considerevole riscontro elettorale in Andalusia. Sin dai suoi inizi, pertanto, Vox si propone come un partito che fa del nazionalismo la sua principale ragion d’essere. Un nazionalismo chiuso e sovrano che emerge come ultima risorsa di una Nazione che viene raccontata come a rischio di estinzione per via da un lato della “minaccia separatista” e dall’altro dal “globalismo internazionale”.

Torna utile, a tal proposito, per inquadrare Vox nel più ampio spettro dei nazionalismi contemporanei, leggere quello che scrive Anna Maria Cossiga, rispetto alla proliferazione di discorsi identitari e nazionalisti in giro per il mondo [4]. Se da un lato, infatti, Marc Augé sottolinea come “il processo di globalizzazione proceda di pari passo con una crescita delle rivendicazioni politiche che vogliono riaffermare tradizioni etniche e culturali” [5], dall’altro il lavoro sulla “fine del mondo” di Ernesto de Martino risulta utile a decifrare la narrazione di crisi, rottura, scomparsa ed estinzione della Nazione che fa da presupposto al discorso di Abascal e a quello dei suoi alleati europei. Disegnando un mondo sull’orlo dell’estinzione, questi imprenditori della politica o meglio “della paura” [6] riescono a costruire su un piano intersoggettivo un clima di incertezza che rende appetibile elettoralmente anche la più teatrale e parodistica delle rivendicazioni identitarie.

Note

[1Si veda Barbeta, J. Mas convoca elecciones y abre el proceso de autodeterminación, La Vanguardia, 26 settembre 2012, p.12.

[2Si veda Barometro CIS, gennaio 2014, n. 3011.

[3Si veda Del Riego, Carmen, Prudencia para después de la batalla, La Vanguardia, 2 dicembre 2012, p.17.

[4Anna Maria Cossiga, Sovranismo e fine del Mondo, Il Mulino, 2, 2020, pp.349-359.

[5Marc Augé, L’antropologia del mondo contemporaneo, Eleuthera, 2019, p.29.

[6Ruth Wodak, The politcs of fear, Sage, 2015.

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