La lingua è un elemento fondamentale della vita di tutti i giorni. La utilizziamo per parlare con le altre persone, per leggere classici, per ascoltare i telegiornali, per compilare formulari e altri documenti burocratici; in generale, per interagire con l’umanità. La comunicazione avviene non solo a livello privato tra singole persone, ma anche tra cittadini ed istituzioni; per questo motivo lo Stato non può fare a meno di avere una politica linguistica, dal momento che è necessario scegliere almeno un idioma con il quale comunicare ai cittadini e ai residenti dello Stato stesso.
Questa scelta può apparire scontata ma è tutt’altro che semplice e può generare discriminazione verso alcuni strati della popolazione. Ogni individuo ha un certo “repertorio linguistico”, ovvero l’insieme delle risorse linguistiche a sua disposizione: questo insieme può comprendere una o più lingue a vari livelli (una persona può essere completamente bilingue o plurilingue, o avere una buona conoscenza di un altro idioma o ancora solo qualche rudimento). Può capitare che l’ambiente linguistico in cui si trova l’individuo combaci con il proprio repertorio, per cui la persona può comunicare tranquillamente con gli altri abitanti e con le istituzioni senza problemi. Oppure può capitare che la lingua dominante in quel dato ambiente linguistico non faccia parte del suo repertorio linguistico, oppure sia una di cui ha pochissima conoscenza [1] [2]. Da qui si generano delle discrepanze tra la popolazione: ecco perché la scelta della politica linguistica di ciascun paese diventa una questione estremamente delicata. Nessun paese si può davvero definire linguisticamente uniforme: l’idea di una nazione monolingue è costantemente messa in discussione dalla presenza di gruppi linguistici minoritari. Non a caso, le prime grandi entità nazionali, come l’Impero Romano o quello Ottomano, erano intrinsecamente plurilingue e multiculturali.
Fin dalla sua stessa creazione, quindi, lo stato nazionale non è mai stato completamente omogeneo. Gli spostamenti dei confini e le migrazioni hanno incrementato la diversità rendendo i paesi sempre più simili a dei variopinti mosaici che a dei dipinti monocromatici. Chi in misura maggiore e chi solo marginalmente, tutti gli stati si sono però trovati a dover affrontare il problema della comunicazione con i propri cittadini, compresi appartenenti a diversi gruppi linguistici. Alcune soluzioni hanno previsto l’adozione di più lingue ufficiali a livello di stato centrale (il Canada è bilingue mentre il Sudafrica conta ben undici idiomi con uguale valore giuridico), altre la delega alle amministrazioni locali (in Iraq il curdo è regolamentato solo nella regione autonoma del Kurdistan); altri stati, invece, sono andati in una direzione completamente opposta, come nel caso dello Stato di Israele che ha addirittura modificato lo status dell’arabo da lingua ufficiale (insieme con l’ebraico) a “lingua della minoranza”, riducendo di fatto le possibilità di utilizzo [3].
In tempi più moderni, le organizzazioni internazionali hanno deciso di intervenire per dare delle linee guida comuni nella protezione della diversità linguistica. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto formalmente le comunità parlanti lingue differenti dalla maggioranza della popolazione attraverso la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche del 1992. Nel 1995 anche il Consiglio d’Europa ha deciso di adottare uno strumento legale per proteggere i diritti delle minoranze, anche linguistiche, ovvero la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali che, assieme alla Carta Europea delle lingue minoritarie e regionali (adottata nel 1992 sempre dal Consiglio d’Europa), costituisce lo strumento principale di tutela delle minoranze linguistiche.
Chi sono, di fatto, queste minoranze?
Nei documenti sopracitati si parla di minoranze nazionali o etniche che si distanziano dalla maggioranza anche per quanto riguarda la lingua parlata. In effetti, la concezione tradizionale di minoranza linguistica coincideva con quella nazionale e andava ad indicare quei gruppi che, al momento della formazione dello stato-nazione, si erano ritrovati “intrappolati” all’interno dei confini di un paese che non ritenevano proprio. Ai gruppi minoritari era per lo più legata in qualche modo una rivendicazione territoriale e di autodeterminazione, oltre alle differenze in ambito linguistico e culturale. È il caso dei tedeschi dell’Alto Adige/Südtirol o dei baschi e dei catalani in Spagna. Secondo la Federal Union of European Nationalities in Europa ci sono più di 400 minoranze: un Europeo su sette fa parte di una minoranza o parla una lingua minoritaria. La loro tutela, almeno in teoria, e la promozione dei loro diritti è sancita sia dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (“L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze […]”), sia dalle disposizioni contenute nella Carta dei Diritti Fondamentali, in particolare all’articolo 21 (Non Discriminazione) e 22 (Diversità culturale, religiosa e linguistica). L’Unione Europea, in generale, ha sempre mantenuto un atteggiamento molto aperto per quanto riguarda la tutela della diversità linguistica, nonostante manchi uno strumento comune di coordinamento e di tutela, come evidenziato dall’iniziativa Minority SafePack, volta all’adozione di una disciplina specifica e all’avvio di politiche pubbliche di sostegno di tali comunità minoritarie [4].
Nonostante ciò, le minoranze nazionali, anche definite autoctone, non sono le uniche il cui repertorio linguistico non combacia con quello dell’ambiente a loro circostante. I flussi migratori, sempre più massicci negli ultimi decenni, stanno modificando significativamente la demografia dei paesi europei. La presenza di rifugiati e migranti (la distinzione tra i due vale solo a fini giuridici) è un fenomeno ormai comune a tutti i paesi dell’Unione e non, tanto che questi soggetti vengono identificati dalla definizione di nuove minoranze; nonostante la denominazione, però, le nuove minoranze non godono degli stessi diritti delle “vecchie” minoranze nazionali [5]. Gli strumenti di diritto previsti per la tutela delle minoranze autoctone non si basano su un fattore temporale e spaziale, cioè la presenza sul territorio al momento della formazione dello Stato-nazione, che esclude totalmente le popolazioni minoritarie di “nuova generazione”. Questo vale ovviamente anche a livello di politiche linguistiche: sebbene le nuove minoranze rientrino perfettamente nella definizione di individui con repertorio linguistico diverso da quello dell’ambiente circostante, la libertà di esprimersi nella lingua che è loro più congeniale è lasciata da parte. In molti casi la creazione strumenti atti alla protezione dei loro diritti linguistici è frutto di spontanea iniziativa di amministrazioni locali più sensibili e, comunque, troppo spesso relegata alle sole materie riguardanti l’immigrazione, come la previsione di interpreti in Questura o presso le Commissioni Territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo.
Per quanto in alcuni casi illuminati e aperti, i singoli stati difficilmente ritengono la tutela delle nuove minoranze linguistiche come una priorità. Soprattutto in tempi di dilagante xenofobia e di ritorno al mito dello Stato-nazione da parte della retorica populista. È quindi evidente che sia necessaria una presa di posizione da parte dell’Unione Europea, che dia la spinta per l’elaborazione di una politica linguistica comprensiva di vecchie e nuove minoranze linguistiche. L’Unione, infatti, è l’unica entità che possa prendersi la responsabilità morale di ampliare i diritti previsti dalle Convenzioni internazionali e dai suoi stessi trattati, anche a strati della popolazione tradizionalmente esclusi. Si potrebbe, anche qui, argomentare che l’Unione Europea debba in questo momento affrontare problemi ben più gravi, come la gestione della pandemia di Covid-19, l’emergenza migratoria in Grecia e i difficili rapporti con la Turchia e le derive illiberali di alcuni “vicini di casa”, come la Bielorussia, e di alcuni stati membri stessi, come Polonia e Ungheria. Invece, è proprio il momento di parlarne, soprattutto adesso durante la campagna JEF Democracy Under Pressure: la democrazia non è messa sotto scacco solo quando minacciata da tentazioni autoritarie e illiberali. La lotta per a democrazia deve essere anche proattiva, dinamica e sempre lanciato contro l’ampliamento dei diritti e delle libertà degli individui e non cedere mai a una sfida al ribasso o a presunte gerarchie di priorità. Per questo motivo ci dobbiamo battere per un’Unione che sia davvero inclusiva, liberale e democratica. E che tuteli davvero tutte le diversità linguistiche.
Segui i commenti: |