Mi chiamo Irene e sono un’interprete. Amo profondamente il mio lavoro, che mi fa aprire gli occhi e scoprire le cose del mondo. È proprio nelle vesti di interprete che, tra il 29 settembre e il 3 ottobre, ho partecipato insieme a decine di altri volontari alle iniziative promosse a Lampedusa dal Comitato 3 Ottobre, un’organizzazione no profit che lavora con le scuole europee per “costruire un’idea diversa dell’immigrazione, creare memoria, sostenere politiche di accoglienza e inclusione e costruire una banca dati del DNA delle vittime”.
Premessa: non sono un’esperta in questo campo, non ho soluzioni e non sarò certamente io a trovarle. Scrivo queste riflessioni, nero su bianco, in qualità di essere umano, di persona sinceramente stanca di slogan razzisti (“aiutiamoli a casa loro” cit.), di accordi di esternalizzazione delle frontiere, di un costante processo di disumanizzazione delle persone migranti che ci porta ad assegnare un valore inferiore alla vita di chi viene dall’altra parte del mare.
Sono stati giorni intensi, segnati da un susseguirsi di laboratori e tavole rotonde, musica e spettacoli, risate e lacrime di gioia, rabbia, tristezza. Lampedusa è una bollicina in mezzo al mare in cui succedono cose enormi, cose che non ci piacciono e che preferiamo dimenticare. Come il naufragio del 3 ottobre 2013, quando 368 persone morirono nel buio al largo dell’isola. Lo stesso naufragio che il Comitato ha deciso di commemorare ogni anno, perché ricordare significa rispettare, alzare la voce e resistere all’indifferenza. Studenti, attivisti, volontari, persone sopravvissute al naufragio e famigliari di chi nel mare ci è morto: eravamo tutti lì (tranne i politici, ma questo è un altro discorso). Nel mentre, a una manciata di chilometri da noi, i pescherecci colmi di persone hanno continuato ad arrivare silenziosamente, tagliando le acque cristalline di Lampedusa.
Su quel minuscolo lembo di terra accanto all’Africa mi sono sentita terribilmente umana. Un’umana che per risvegliare la propria coscienza deve toccare con mano, partecipare da vicino al dolore altrui. Ebbene, a Lampedusa il dolore di chi è sopravvissuto era lì, a pochi metri da me e centinaia di altre persone. Era lì ed era vero e più vivo che mai, non si poteva ignorarlo. Così, mentre piangevo ascoltando stralci di storie che ti spezzano il cuore, mi vergognavo chiedendomi che diritto avessero di scorrere le mie lacrime privilegiate. Di fronte a questa realtà hanno davvero senso la rabbia e l’empatia se non si trasformano in azione? Com’è possibile che negli ultimi dieci anni abbiano perso la vita nel Mediterraneo 30.000 persone? Com’è possibile che non lo sapessi fino a un mese fa, che nessuna istituzione si impegni a cercare soluzioni nel rispetto della dignità umana? Tante domande, pochissime risposte.
Viviamo in un paese dove la vita – bianca e occidentale, sia chiaro – è sacra e l’eutanasia un tabù, eppure da anni assistiamo indifferenti alla morte di persone innocenti inghiottite dal mare e restituite senza vita, nome e cognome. Finiscono seppellite così, spogliate della loro identità e all’oscuro dei propri famigliari. Non voglio cadere nel sentimentalismo ma non trovo altre parole per esprimere quello che è, a tutti gli effetti, un massacro.
Immagino come sarebbe andata se undici anni fa, su quel peschereccio, ci fossero stati 368 uomini, donne e bambini italiani. Un disastro indelebile nella nostra coscienza collettiva, un orrore che non si sarebbe dovuto ripetere mai più. Ne avremmo parlato con dolore, indignazione, rabbia: perché noi bianchi nel mare non ci possiamo morire, gli “immigrati”, a quanto pare, sì.
Lampedusa è una bollicina che non scoppia, se ne sta lì, in mezzo alle onde, a ricordarci che possiamo scegliere di rimanere ancorati alla nostra umanità oppure no.
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