Quando definiamo la parola federalismo, ecco che stiamo definendo alla base il concetto stesso di federalismo. Se estendiamo questa parola fino ai confini del mondo, arriviamo a definire il federalismo mondiale. È un’idea che ha visto molti interagire con questo termine, esprimendosi ora a suo favore, ora contro di esso, descrivendone le sue più diverse forme (Bóka, 2006). L’idea di un governo mondiale è spesso tacciata di utopia. Forse, in parte, lo è. Non si vuole dibattere la possibilità di un government mondiale. Si vuole invece affrontare un aspetto del portato internazionale che viene spesso messo in secondo piano rispetto le sue reali possibilità, ovvero la possibilità di fare, prima di quel passo verso il government su scala globale, un passo verso la governance globale. (Righter, 1995)
Perché parlare di governance globale? È dinanzi gli occhi che viviamo in un mondo interconnesso, reso vasto dalle potenzialità della Rete (Castells, 1989). Quella rete che copre quasi ogni angolo del pianeta: le azioni si scambiano da una costa all’altra del Pacifico in tempo reale, al tempo degli scambi di dati e informazioni che passano dall’Africa a Singapore, fino a Buenos Aires (Castells, 1989). La diffusione su scala mondiale dei fenomeni problematizza le sfide su scala altrettanto globale. È diventato impossibile non pensare che una carestia in Centro Africa non abbia nulla a che vedere con la situazione politica mediorientale, o europea, o soprattutto con l’andamento climatico (U.N. Habitat, 2020) – responsabilità, spesso non ricordata, proprio delle stesse classi politiche che tendono a chiudere entrambi gli occhi sui movimenti migratori.
Parlare di global governance pone dinanzi una serie di problemi e di dilemmi. Un primo dilemma è relativo al senso della governance. La governance non è un atto o un risultato, piuttosto è un processo (Moini & D’Albergo, 2019). Nel mondo contemporaneo del XXI secolo possiamo parlare di processi globali? In questo senso, si. Possiamo però parlare di un processo di governance globale? Non a pieno titolo. Abbiamo visto l’ergersi di forme di governance sovra-nazionale, come nel caso emblematico dell’Unione Europeo o dell’Unione Africana. Queste entità mettono bene in luce come una governance su una scala superiore a quella nazionale comunemente intesa. Organi come questi, su una scala d’azione più o meno imperativa verso i suoi membri, possono fare partire dei processi di governance – o di meta-governance – che influenzano i processi decisionali e gli outcome decisionali sottostanti. Su scala globale, un fenomeno simile sembra ancora lontano.
L’Organizzazione per le Nazioni Unite (ONU), ha provato più volte a realizzare delle forme di meta-governance, se non di governance stessa. Creare delle strutture in cui dirigere l’azione tramite la regolazione. Un chiaro esempio di tentativo messo in atto a livello internazionale sono le Convenzioni di Ginevra e i loro emendamenti. Sottoscritti dai singoli stati, diventano un motore di pressione per aderire ad una certa logica – e quindi, di rimando, scadono quasi al livello di quella meta-governance globale precedentemente citata (Acharya & Plesch, 2020).
Non siamo nel campo del government perché diviene evidente che il singolo accordo viene firmato, e ratificato, solo dopo un’attenta disamina che ha un carattere del tutto politico da parte della nazione, i cui attori pubblici soppesando i pro e i contro. Al momento della firma, entriamo in quel campo di governance, ma la decisione finale – e la possibilità di uscirne, nonché di non aderire poi agli scopi sanciti dall’accordo – rimangono saldamente nelle mani dell’attore nazionale.
È quindi questa governance capace, o meno, di diventare effettivamente fautrice di outcome? Studi diversi hanno coperto la capacità di organizzazioni come le Nazioni Unite di dare vita a forme più o meno capaci di influenzare processi pubblici (Righter, 1995). Non è sempre evidente l’azione di organizzazioni simili, ma le critiche che ricevono il più delle volte si realizzano proprio per i limiti della loro azione, così come i benefit diventano evidenti forse nella forma in cui influenzano tramite azioni spesso indirette l’opera nazionale (Acharya & Plesch, 2020).
La governance sovranazionale delle organizzazioni internazionali prende forma e potere solo nel momento in cui gli stati aderiscono pienamente, rinunciando ad ambiti e gradi di libertà – come nel processo di integrazione europea. (Acharya & Plesch, 2020)
Al contempo, ci si ritrova dinanzi delle sfide tutt’altro che facili da affrontare. Sfide che sembrano richiedere sempre di più approcci globali. Una su tutte, la sfida ambientale (U.N. Habitat, 2020). L’innalzamento delle temperature medie, l’inquinamento ambientale, la desertificazione, sono problemi che non sembrano essere affrontabili da una singola entità, locale o nazionale. Non solo il clima: il conflitto russo-ucraino, con la sua moltitudine di cause e conseguenze, ha messo in luce che il vecchio approccio geopolitico che vede al centro l’entità-stato ha conseguenze destabilizzanti.
L’idea di una governance su scala transnazionale, globale, si può rovesciare (McClellan, Jimenez, & Koutitas , 2018). Non le nazioni che partecipano a tali processi, ma una diversa transcalarità che vede interagire due ambiti – il globale e il locale – trascendendo i semplici confini nazionali. L’idea della governance che si realizza attraverso diversi livelli di scala d’azione pubblica è stata affrontata da studiosi come Brenner (Brenner, 2009), Jessop (Jessop, 2002), Moini e D’Albergo (Moini & D’Albergo, 2019), partendo dall’idea che la governance urbana vive di interazioni con complessi sistemi (Rykwert, 1991) – di stakeholder pubblici e privati – che non sono sempre strettamente collegati alla governance nazionale. Le città possono essere lette come degli attori che, nella sfera pubblica, hanno via via acquistato dei nuovi spazi d’azione (Slavova & Okwechime, 2016), all’interno di una governance che ha sofferto da un lato del rescaling (Le Galès, 2016) delle politiche pubbliche, dall’altro e strettamente collegato, dei processi di neo-liberalizzazione sia dell’azione che dello spazio stesso. Tali processi portano con sé un grande bagaglio sia di rischi che di possibilità d’azione (Florida, 2015).
Possibilità d’azione che, in molti casi, si realizza attraverso l’internazionalizzazione della città e delle sue politiche. Come possiamo definire questa internazionalizzazione? È un processo che vede le città diventare da un certo punto di vista nodi sempre più fondamentali del network globale (Castells, 1989), che si ritrovano catapultate all’interno di nuovi e ampi spazi di possibilità d’azione che le fanno interagire con eventi dal portato globale, come le Olimpiadi (Geffroy, Oliver, Juran, & Skuzinski, 2021), in forma di attore attivo e spesso propositivo delle stesse; le città sviluppano capacità di governance che tendono ad orientarla verso lo spazio internazionale (Caldarice, Tollin, & Pizzorni, 2021), ma anche a subire quei processi di trasformazione del capitale e dell’economia che spingono gli attori prima locale, gli stakeholder economici e non, ad ampliare il proprio spazio d’azione su una scala più ampia (La Porte, 2013).
Le città, quindi, rispondono a quelle sfide che abbiamo visto precedentemente. Possiamo pensare al modello attuale di interazione della città come un assestamento su quello che si può definire come quadruple helix (Carayannis & Grigoroudis, 2016), un sistema di produzione della conoscenza in cui l’attore urbano si va assumendo delle nuove interazioni con altri stakeholders. Questi appartengono al mondo dell’economia, della politica, della ricerca, della società civile.
In questo nuovo contesto di interazione, gli attori lavorano non solo su scala locale – per forma e obbligo – ma anche con la scala internazionale. Quanto messo in luce dal modello (Carayannis & Grigoroudis, 2016) diventa ponte tra la realtà urbana e quella non-urbana, una scala più ampia, che può essere regionale, quanto internazionale. Le città trovano così una sponda in un mondo nuovo e diverso, sfruttando il loro portato da global city, come definite da Saskia Sassen (Sassen, 2004). La global city – che ha assunto nel corso degli anni diversi punti di vista d’analisi (Sennett, 2018) – vive di una interazione che non è più meramente quella del confine spaziale-geografico, ma si estende in una relazione dal portato sia economico, che politico, che sociale, globale.
Perché hanno bisogno di approfittare di questa capacità? Perché è nelle città che si realizzano i risvolti spesso tragici della realtà mondiale e delle sue crisi. I migranti climatici scappano dagli ambienti desertificati e si concentrano nei nuclei urbani spesso loro vicini – cosa che ha dato vita a enormi slum nell’area africana, in particolare intorno città come Lagos o Kano. Le città sono quelle che sono costrette ad affrontare, per propria natura, l’inquinamento nelle sue forme peggiori – da quello industriale a quello automobilistico. Come crogiolo della popolazione e dei flussi, di capitale e di persone, che affiorano ed esplodono all’interno delle civiltà umane, le città sono sempre la cartina di tornasole non solo delle problematiche, ma anche delle potenzialità che una civiltà può esprimere. Concetti come la smart city (Sennett, 2018) trovano la loro radice e il loro punto di partenza nelle sfide che i cambiamenti tecnologici, ambientali, sociali hanno posto alla struttura e al tessuto stesso delle città (C40 Cities, 2020).
Per questo appare quasi naturalmente conseguente il tentativo delle città di mettersi in rete, di connettersi le une con le altre, all’interno di strutture internazionali come C40. C40 è un network di città che si pongono come scopo prevalente la sfida della decarbonizzazione. Il network comprende ad oggi novantasei città, pari al 25% del PIL planetario e a più di settecento milioni di abitanti (C40, 2022). Il network non ha poteri decisionali, ma la sua vera ricchezza risiede nel creare un teatro di scambio continuo, dove i sindaci e le autorità locali si confrontano, si scambiano dati, best practices, si danno dei regolamenti a cui aderire che hanno la forma di meta-governance volontaria.
Non si può parlare certo di un trasferimento di risorse materiali, ma certamente parliamo di un trasferimento di expertise, di competenze, di apertura ad un mondo che supera i confini. Città che potrebbero appartenere a paesi tendenzialmente ostili gli uni con gli altri, si ritrovano a collaborare internamente al network per ottenere risultati nuovi nella sfida ambientale (C40 Cities, 2020).
Se C40 è stato il tentativo delle città di innestare dei processi positivi di trasferimento di expertise e competenze, nonché tecnologie e best practices, per combattere la crisi ambientale – con risultati più o meno positivi o limitati – gli stati hanno dato vita a forme di cooperazione in materia ambientale di cui uno degli ultimi risultati è stata la COP26 di Glasgow. È stato il tentativo da parte degli stati nazionali di mettere insieme le forze per dotarsi di obiettivi chiari e definiti che potessero essere un passo nella direzione che i movimenti dal basso come Fridays for Future avevano già sancito nelle piazze e nei loro appelli. I risultati non sono stati soddisfacenti e ancora meno lo sono stati poi a causa della convergenza di eventi – da un lato la pandemia di COVID-19, dall’altro lo scoppio del conflitto russo-ucraino che ha portato molte nazioni europee a rivedere i propri approvvigionamenti energetici, al di là della sostenibilità ambientale.
Ancora una volta, l’attore statale ha messo bene in luce le sue fratture, interne ed esterne, e le sue debolezze, la sua incapacità di reagire in logiche che non fossero esclusivamente geo-politiche a delle problematiche tanto nuove quanto, in fondo, ripetizioni storiche.
Perché parlare quindi di spazio urbano e di federalismo, tanto europeo che mondiale? Perché entrambi trovano in meta-governance e governance a livello globale degli sbocchi, delle vie di uscita e delle forme nuove di azione che permettono di compiere quei necessari passi in avanti che, da tempo, si auspicano per affrontare le sfide che ci si ritrova dinanzi.
Gli attori locali e transnazionali sono per la loro natura tesi a superare quei confini e quei limiti che gli attori nazionali, tutt’altro, tendono a mantenere saldamente come propri, che trovano nelle sponde dei partiti nazionalisti delle forti sponde spesso a queste velleità ottocentesche e novecentesche. Lo spazio urbano, tutt’altro, ritrova nella rottura dei tradizionali confini e nella ricostruzione critica della sua forma lo spazio d’azione che può diventare tassello di un ragionamento federale.
I cittadini, che si ritrovano a vivere lo spazio urbano, sono coloro che per primi ritrovano nella possibilità di estendersi anche al di fuori del territorio limitato geograficamente, una serie di opportunità e di risorse che finiscono per avere impatti – tangibili e reali, quantificabili – sul loro modus vivendi e sul tessuto fisico e sociale della città stessa. L’Unione Europea ha colto da tempo le possibilità che si radicano proprio nella diretta interazione tra l’organo transnazionale e lo spazio primo del cittadino. Lo ha fatto tramite i progetti URBACT, con le Urban Innovative Actions, con il programma LIFE. Ha colto nel rapporto diretto col cittadino l’opportunità di trascendere quella mediazione, limitante e spesso limitata, che invece ha nell’interazione con lo stato.
E le organizzazioni federaliste si vanno già a ritrovare nella realtà in una situazione di potenziale vantaggio rispetto questa transcalarità della governance, questo salto che si compie dal puro ambito urbano a quello sovranazionale. Il Movimento Federalista Europeo quanto la Gioventù Federalista Europea vivono lo spazio urbano, ritrovandosi in centri che non sono solo quelli principali, ma spesso anche quelli che normalmente potremmo considerare come medi o minori. Operano a livello di società civile, interagendo continuamente da un lato con quel piano, sia nazionale che europeo, ma al contempo interfacciandosi con la popolazione locale, con eventi dedicati a spesso a creare un ponte tra la collettività locale e quella grande collettività europea. Non è pensabile di spendere tempo ora ad elencare i diversi esempi di attività condotte da queste organizzazioni in ambito locale. Conta sapere che però la loro azione è sentita sul piano dello spazio anche urbano, capace di mandare avanti il messaggio, chiaro, di relazione che esiste tra i cittadini e l’Europa stessa.
Questo ponte che viene offerto dalle associazioni è un importante motore, in particolare quando vi sono dei chiari movimenti che partono dal basso che mirano tanto alla riappropriazione dello spazio urbano che di angoli non solo di governance, ma di vero e proprio government locale da parte dei cittadini.
Parlare di federalismo, e parlarne partendo dalla prospettiva urbana, può diventare un modo per ribaltare il tavolo dell’osservazione di un fenomeno transnazionale, partendo da nuovi elementi costitutivi che si radicano nella più prossima delle istituzioni, la città stessa. Le possibilità di innestare elementi di federalismo sono ampie e le città già si pregiano della propria capacità di estendere il proprio raggio d’azione al di fuori della normale sfera politico-geografica.
Se da un lato loro stesse hanno subito i fenomeni della globalizzazione, in alcuni casi in maniera passiva – parliamo ad esempio della ridistribuzione della forza lavoro dovuta alla delocalizzazione di strutture produttive dai paesi del cosiddetto primo mondo a quelli del cosiddetto terzo mondo, ma anche pensando alla transnazionalità dei capitali di tipo finanziario che ha condotto alla presenza, sul suolo urbano, di pratiche di appropriazione dello spazio legate più che altro ad attori finanziari globali; d’altro canto le città stesse hanno iniziato a ragionare in termini d’azione internazionale, come C40 dimostra – e non è l’unico network che si potrebbe presentare come esempio.
Le potenzialità per generare delle positive relazioni tra l’Unione e le città sono evidenti e già in parte osservabili dai vecchi progetti lanciati dalla Commissione, a cui stanno seguendo interventi diretti alle città inseriti nel piano di recupero post-Covid. Diviene però necessario un passo ulteriore, quello di convertire un’azione che può apparentemente essere pura tecnica in un passo invece federale.
Le opzioni possono essere tante, ma ci si sta già muovendo in una direzione che pone direttamente in contatto le autorità urbane con quelle europee, che permette a queste prime di avere uffici e associazioni – come lo ha per esempio l’ANCI, Associazione Nazionale dei Comuni Italiani – nei palazzi del Parlamento Europeo e in quello della Commissione Europea stessa.
Non basta, perché al contempo serve anche comprendere – su scala tanto europea che internazionale – come le potenzialità di generare una governance dello spazio urbano che sia trans-scalare, non legata ai confini e ai limiti nazionali, e soprattutto vicina ai cittadini, risiedano anche nella costruzione di una narrativa che porti il livello di analisi e di attenzione sulle autorità urbane e suburbane.
Le risorse che provengono da enti internazionali come l’Unione aiutano a creare ambiti nuovi di manovra, ma perché poi ciò diventi una ricchezza spendibile politicamente, alla luce di quanto affermato fino ad ora, e che permetta di muovere anche passi riformativi, è una misura tendenzialmente legata ad una volontà politica di rafforzare le autorità urbane – a scapito di altri attori e stakeholder – e di ragionare in ottica di: come potenziare questa governance urbana che trova radici nel mondo internazionale, e con quali risorse?
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