Quando parliamo di ISIS pensiamo inevitabilmente ai numerosi attacchi terroristici; all’efficiente macchina propagandistica; ai foreign fighters che hanno raggiunto l’Iraq e la Siria dagli Stati Uniti, dall’Asia e da molti paesi europei; pensiamo al fatto che ha instaurato il suo dominio su un territorio ben circoscritto, implementando leggi ed istituendo un apparato burocratico efficiente, una novità assoluta per un’organizzazione jihadista; ma pensiamo anche alla morte del suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, ed al discorso del presidente statunitense Donald Trump, il quale annunciava vittorioso la fine del terrore. Eppure l’ISIS è ben lontano dall’essere acqua passata, perché se è vero che al-Baghdadi non è più una minaccia, lo è sicuramente l’ideologia che ha contribuito a diffondere, e che viene portata ancora oggi avanti dai membri dell’organizzazione.
Ma per comprendere il progetto dell’ISIS è necessario partire dalla sua storia [1], infatti l’organizzazione che noi conosciamo affonda le sue radici nel gruppo jihadista Jama ‘at al-tawhid wa al-jihad (Gruppo per l’unicità di Dio e il jihad), attivo nel nordovest dell’Iraq, e fondato negli anni Novanta da Abu Musab al-Zarqawi. Tale gruppo si distingueva nel panorama estremista tanto per le azioni di grande violenza, tanto per il fatto di essere composto prevalentemente da combattenti stranieri. Nel 2004 il gruppo di al-Zarqawi sancirà l’affiliazione con al-Qa’ida, dando in tal modo vita ad al-Qa’ida nella Terra dei Fiumi, o al-Qa’ida in Iraq (AQI). Tale unione aveva due motivazioni principali alla base: da un lato, ad al-Qa’ida serviva rafforzare la sua presa sull’Iraq, legando a sé l’immagine di un condottiero carismatico – individuato nella figura di al-Zarqawi; dall’altro, a quest’ultimo occorreva il sostegno dell’organizzazione qaedista per attirare tra le sue fila un maggior numero di combattenti, soprattutto iracheni, al fine di legare ulteriormente la sua causa al territorio. Tuttavia, al-Zarqawi si distinse ben presto per la netta rottura con la filosofia bellica storicamente portata avanti da al-Qa’ida: se per quest’ultima il nemico principale era sempre stato il far enemy, rappresentato dagli Stati Uniti e dagli eserciti della coalizione internazionale; per il leader di AQI il nemico prediletto divennero, invece, gli sciiti iracheni. Dunque gli attacchi verso l’esercito statunitense vennero sospesi al fine di rivolgere l’attenzione verso il nemico interno, decisione che valse ad al-Zarqawi una dura critica da parte dell’universo qaedista. Nel 2006 l’ascesa di al-Zarqawi verrà interrotta con la sua morte e l’organizzazione, sotto una nuova guida, cambierà nome in Stato Islamico dell’Iraq (ISI), il cui nuovo obiettivo sarebbe stato quello di espandere e consolidare il suo controllo sui territori iracheni.
Nel 2010 fece la sua comparsa ai vertici dell’organizzazione Abu Bakr al-Baghdadi, pseudonimo di Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai, ex detenuto di Camp Bucca rilasciato nel 2009. Egli portò avanti il progetto di rottura da al-Qa’ida pensato già da al-Zarqawi, decidendo di orientare nuovamente l’azione verso gli sciiti iracheni e le minoranze, alimentando così le violenze settarie nel territorio. Al-Baghdadi, però, non limitò la sua azione all’Iraq, ma anzi decise di espanderla nella vicina Siria, la quale stava affrontando la rivoluzione contro il presidente Bashar al-Assad. Egli dunque sfruttò questo clima di guerriglia cogliendo l’occasione di infiltrare a Damasco parte dei suoi uomini guidati da al-Julani, il quale fondò nel 2012 Jabhat al-Nusra. L’anno seguente, al-Baghdadi decise in modo arbitrario la fusione di ISI con l’organizzazione insediatasi in Siria, cosa che generò uno scontro interno tra i fedeli al leader di ISI e i fedeli ad al-Julani. Dallo scontro uscì vincitrice la fazione di al-Baghdadi, il quale proclamò la nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante – Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham – noto anche come Daesh, ISIS o ISIL. Nel 2014, infine, il leader di al-Qa’ida, al-Zawahiri, non poté fare altro che rinnegare totalmente l’ISIS escludendolo dalla galassia qaedista. Il 29 giugno 2014 al-Baghdadi sancirà, con un discorso nella moschea di Mosul, la nascita dello Stato Islamico, ponendo la sua capitale a Raqqa, e nel 2015 l’ISIS raggiungerà la sua massima espansione territoriale; da lì in poi si verificheranno progressive perdite di territorio per l’organizzazione, fino ad arrivare al marzo 2019, quando cadde l’ultima roccaforte dello Stato Islamico, Baghuz, cosa che sancirà la definitiva sconfitta sul campo dei miliziani.
Ciò che è rilevante considerare nell’analisi dello sviluppo e del consolidamento dello Stato Islamico è il fatto che esso si sia rapidamente costituito come uno Stato vero e proprio, identificandosi con un’entità territoriale precisa, con delle istituzioni statali e, soprattutto, con forti mire espansionistiche, in linea con quello che poi diventerà il motto dell’ISIS, ovvero “consolidarsi ed espandersi”. Quando parliamo dell’ISIS, inoltre, è automatico parlare al maschile: i leader, i combattenti, i terroristi; senza prestare attenzione, quasi passando sotto silenzio, il fatto che per questo gruppo terroristico le donne hanno avuto, e continuano ancora oggi ad avere, un’importanza sostanziale: il nemico principale da annientare sono state le donne delle minoranze; e viceversa, chi ha materialmente costruito lo Stato sul quale l’autoproclamato Califfo al-Baghdadi ha eretto il suo dominio sono state proprio quelle donne che, partendo verso i territori occupati, si sono unite in massa all’organizzazione.
Yazide
È sulla comunità yazida [2] in particolare che l’azione di distruzione del diverso da parte dei miliziani dello Stato Islamico è stata portata avanti; gli elementi che hanno contribuito all’eccidio sono stati molteplici, tra questi sicuramente il fatto che gli yazidi hanno rifiutato qualsiasi forma di conversione, cosa che li ha resi dei nemici interni al territorio per eccellenza: quei kuffar (miscredenti) che hanno respinto totalmente la dottrina e l’ideologia totalitaria che l’ISIS stava imponendo in Iraq e in Siria. Dunque, la supremazia di un gruppo sull’altro si è espressa in particolar modo tramite la violenza sui corpi, in special modo quelli delle donne, di questa comunità: mentre gli uomini venivano sommariamente giustiziati, le bambine – fin dai 9 anni – e le donne – almeno fino ai 50 anni – vennero sistematicamente messe in schiavitù tramite un modus operandi scrupoloso ed attentamente pianificato. Esse vennero condotte verso Raqqa o Mosul per essere vendute in appositi mercati, sia fisici – i souq al-sabaya – che virtuali, come schiave sessuali, in arabo appunto sabaya, ai migliori offerenti, seguendo le regole redatte dal Dipartimento della Ricerca e della Fatwa in un apposito manuale relativo sia alla vendita delle sabaya, sia al loro giusto uso da parte dei compratori; ed attenendosi ai listini prezzi decisi e fatti circolare dalle autorità dello Stato Islamico; ad esempio per una donna tra i 40 ed i 50 anni si poteva arrivare a pagare fino a 50 mila dinari, mentre per ragazze dai 10 ai 20 anni il prezzo arrivava ai 150 mila dinari [3].
La pratica delle sabaya risale al tempo del profeta Maometto, ed è stata riportata in auge dal Califfato nella convinzione di dover ristabilire gli antichi usi, utilizzando a tal fine apposite giustificazioni coraniche, come ad esempio il versetto: “È permesso avere rapporti sessuali con una donna prigioniera. Allah l’onnipotente ha detto: [Di successo sono i credenti] che custodiscono la loro castità, tranne dalle loro mogli o [dalle prigioniere o schiave] che le loro giuste mani possiedono, per questo sono liberi dalla colpa” [4] (Corano 23:5-6). In virtù di questo quindi la violenza sessuale sulle sabaya diventa una pratica corretta e caldamente incoraggiata, dal momento che esse non sono altro che semplici beni posseduti dalle “giuste mani” di pii credenti. È stata dunque portata avanti una violenza sessuale sistematica su queste donne, funzionale a controllarle ed a portare avanti il progetto di distruzione ed emarginazione della loro comunità, le donne yazide sono state totalmente spogliate di ogni diritto, vagliate nei mercati e valutate in base al loro aspetto fisico ed alla loro verginità e, una volta avvenuta la vendita, costrette alla conversione forzata ed al matrimonio coatto con i loro compratori. Tutte pratiche rigorosamente regolate dalla burocrazia pervasiva dello Stato Islamico, funzionali sia ad attrarre nuove reclute, con la promessa di poter ottenere qualsiasi donna avessero desiderato; sia ad evitare i reati di fornicazione ed adulterio; ma anche volti a garantire maggiori introiti, dovute alle vendite fuori dai confini.
Le donne yazide, di fatto, sono state considerate come donne da punire per la loro diversità e la loro fede religiosa, donne soprattutto da purificare tramite le ripetute violenze carnali, che erano considerate halal (lecite) in quanto avvicinavano i combattenti al divino [5]. A ciò si aggiungevano le torture portate avanti sui corpi di queste donne; oltre agli stupri, anche di gruppo, molte di loro sono state sottoposte alla ricostruzione dell’imene – una donna vergine ha un valore superiore rispetto alle altre, poco conta che la verginità sia artificiale o meno – altre, invece, sono state costrette ad assumere dose massicce di contraccettivi, sia al fine di evitare gravidanze, sia per evitare di interrompere le compravendite, una fonte di guadagno essenziale per il Califfato, dal momento che una delle pochissime regole sull’uso delle sabay prevedeva il divieto della vendita di una donna qualora quest’ultima fosse incinta del suo proprietario. Molte di coloro che sono riuscite a scappare hanno raccontato di aver tentato diverse volte il suicidio, cercando di impiccarsi, tagliarsi le vene o ingerendo le sostanze tossiche che riuscivano a trovare.
Ad oggi le donne yazide che sono state liberate o che sono riuscite a scappare vivono, insieme ai membri della loro comunità, nei campi profughi, impossibilitati a tornare nelle loro case e nei loro territori storici; tuttavia mancano per loro le cure adeguate e il necessario supporto psicologico. Ma ciò che è ancora più rilevante è lotta continua che gli yazidi stanno portando avanti affinché l’intera comunità internazionale riconosca lo sterminio da loro subito come crimine di genocidio.
Muhajirat
Al lato opposto di questa narrazione troviamo invece le donne che si sono unite al Califfato, le muhajirat, ovvero “coloro che hanno compiuto l’hijra”, la migrazione verso l’Iraq e la Siria. Veicolando brillantemente una doppia narrativa basata sulla punizione delle miscredenti e la celebrazione delle vere donne musulmane, l’ISIS è riuscito ad attrarre nei suoi territori il più alto numero di donne mai unitesi ad un’organizzazione jihadista: le stime sono vaghe, ma si parla di un totale di 3000 persone, di cui almeno 550 occidentali, le più numerose sarebbero state le inglesi, le francesi e le tedesche, seguite da cittadine canadesi ed americane. A queste si aggiungono donne provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, con un elevato numero di egiziane, tunisine e marocchine [6]; ma ciò che è ancora più rilevante è che le donne che si sono unite all’organizzazione erano molto giovani dal momento che rientravano in un range di età che andava dai 16 ai 40 anni. Nel Califfato queste donne hanno trovato un motivo di realizzazione personale, amplificato sia dalla convinzione di poter contribuire ad aiutare la umma, ma anche dalla possibilità di godere di autonomia decisionale, dal momento la decisione di unirsi all’organizzazione è stata il frutto di una loro libera scelta; dal canto suo, il Califfato ha risposto al loro bisogno di inclusione, investendole del compito di costruire lo Stato Islamico. Esse hanno liberamente e consapevolmente abbracciato l’identità che l’ISIS ha loro offerto, fatta di rigide regole di condotta e ruoli ben codificati – in primis quello di essere mogli devote e madri impegnate a crescere la prossima generazione di cuccioli del Califfato – ma ha anche permesso loro di ricoprire compiti attivi: come il reclutamento on line; la diffusione della propaganda; o entrando a far parte delle brigate femminili della hisba [7]: la Brigata al-Khansaa, attiva a Raqqa, e la Brigata Umm al-Rayan, operante nella provincia dell’Al-Anbar in Iraq, impegnandosi a punire le concittadine che trasgredivano le norme imposte. Inoltre, a contribuire all’esercizio di un ruolo più attivo per le donne è intervenuta anche la decisione presa nel 2017 da parte dei vertici dello Stato Islamico di abolire la moratoria sulla partecipazione delle donne al jihad offensivo [8]; una scelta dettata sicuramente dalla necessità di sopperire alla mancanza di uomini, ma con tale novità, estremamente importante per il panorama jihadista, si è di fatto aperta la strada all’impiego delle donne nella lotta armata, rendendole una minaccia estremamente rilevante.
Dunque, nello Stato Islamico queste donne hanno trovato un mondo utopico, nel quale poter vivere la loro fede a tutto tondo, senza temere stigmi o discriminazioni; dove poter essere accettate e sperimentare un senso di appartenenza e sorellanza entrando in contatto con altre donne in tutto e per tutto simili a loro, esso ha, di fatto, rappresentato una valida alternativa al pluralismo dispersivo offerto delle società occidentali, entro le quali molte di queste donne si sentivano estranee. Di fatto, le donne dell’ISIS sfuggono a qualsiasi definizione: sono insieme buone, in quanto madri che danno la vita, ed al contempo donne malvagie che crescono i loro figli nell’amore del jihad, insegnando loro ad essere dei futuri combattenti. Tuttavia, a destare preoccupazione è, ad oggi, la situazione in cui vertono le muhajirat: molte di loro sono infatti detenute, insieme ai loro figli, in diversi campi profughi, e fra questi sicuramente il più noto è quello di Al-Hol, nel nordest della Siria. Molte delle donne presenti nel campo sono le “irriducibili” dell’ISIS, ovvero coloro che si sono arrese solo dopo la caduta dell’ultima roccaforte, alcune di loro sono ex membri delle brigate della hisba, tant’è che all’interno del campo vengono tutt’ora portate avanti e fatte rispettare le leggi implementate dall’ISIS: nessuna donna può mostrarsi senza abaya [9] e senza niqab [10]; e si continua ad indottrinare i bambini lì presenti. All’interno di Al-Hol sono detenute anche molte donne occidentali che vengono considerate dai loro Stati di provenienza come delle apolidi a tutti gli effetti: sia perché al loro arrivo nei territori dello Stato Islamico hanno bruciato i loro passaporti; sia per il fatto di essere partite per unirsi ad un’organizzazione terroristica, senza manifestare la volontà di tornare nei loro paesi, i quali di conseguenza ne rifiutano il rimpatrio.
Dunque appare evidente che, ad oggi, presumibilmente, Al-Hol rappresenta una minaccia di radicalizzazione importante più che una possibilità di recupero, una minaccia nella quale le donne giocano, per la prima volta, un ruolo centrale nella crescita e nella formazione della prossima generazione di jihadisti.
L’Europa ed i rimpatri
Ad Al-Hol, il più grande dei campi profughi siriani, vi sono 68 mila residenti, di questi almeno 11 mila fra donne e bambini sono stranieri – 800 gli europei – i quali vivono in condizioni totalmente degradanti [11] dal momento che mancano i normali servizi igienico-sanitari e non sono disponibili cure mediche né psicologiche, necessarie soprattutto per i minori. Non appare dunque strano che nei campi si respiri un’aria di profonda insoddisfazione, di rabbia e umiliazione derivanti dalla condizione in cui versano le persone rinchiuse; un clima che rischia di alimentare i moti di radicalizzazione e che può al contempo rischiare di vanificare la vittoria sul piano territoriale contro l’ISIS. Una situazione complessa di per sé che si è ulteriormente aggravata a seguito dell’offensiva della Turchia di Erdogan dell’ottobre scorso, la quale si è tradotta nel controllo da parte delle truppe turche di un’ampia porzione di territorio lungo il confine turco-siriano. Ad ogni modo, la gestione e la sicurezza dei campi sono ancora nelle mani delle Forze Democratiche Siriane (SDF) e dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), tuttavia l’instabilità dilagante nell’area non è un elemento da tralasciare, se consideriamo che sono già avvenute fughe di foreign fighters e, a tal proposito, lo scorso settembre al-Baghdadi aveva inviato un comunicato audio nel quale spronava i combattenti a liberare le famiglie dell’ISIS dai campi, insistendo sulle condizioni difficili in cui versavano le donne, non è perciò da escludere che i miliziani possano prendere di mira questi luoghi al fine rimpolpare le loro fila.
È strettamente necessario considerare questo background prima di domandarci cosa stanno facendo i vari Stati nella gestione dei propri connazionali rinchiusi nei campi, soprattutto, cosa sta facendo l’Europa in questo contesto, dal momento che Francia, Germania e Gran Bretagna sono i paesi membri con il più alto numero di foreign fighters partiti per raggiungere il Califfato.
Quello che emerge in modo lampante dai report [12] è che i paesi europei si trovano davanti ad un bivio spinoso: acconsentire o meno ai rimpatri. La linea di tendenza generale è stata finora quella di lasciare i propri concittadini nei campi profughi, una decisione legata soprattutto a motivi riguardanti la politica interna dei vari Stati: è infatti opinione diffusa che gli eventuali rimpatri scatenerebbero sia reazioni importanti da parte dei movimenti populisti e di estrema destra, ma potrebbero anche causare “disastri elettorali” dal momento che l’opinione pubblica è tendenzialmente contraria alle procedure di rimpatrio.
La risposta inglese al problema è stata essenzialmente la revoca della cittadinanza a coloro i quali hanno viaggiato nei territori del Califfato, nonostante tale decisione si scontri fortemente con il diritto internazionale [13], adducendo come scusante il fatto che quei cittadini godevano – o avrebbero potuto godere – della doppia cittadinanza.
La Francia, paese in prima linea in questo problema considerando che è quello con il maggior numero di soggetti nei campi, è intenta a negoziare un accordo con l’Iraq affinché quest’ultimo si faccia carico dei processi ai cittadini francesi. Tuttavia le trattative risultano essere in una fase di stallo sia perché l’Iraq non vuole rinunciare alla pena di morte – e la Francia, insieme agli altri membri dell’Unione Europea, ha firmato una convenzione [14] che vieta di far condannare i suoi cittadini in un paese in cui vige la pena di morte – sia per i fondi ingenti richiesti da Baghdad al governo francese per farsi carico dei procedimenti penali.
La Germania, dal canto suo, ha avviato alcuni rimpatri di donne valutando caso per caso e, al contempo, il governo ha approvato una legge che sancisce la revoca della cittadinanza ad individui con doppia nazionalità in caso si uniscano a gruppi terroristici [15].
La riluttanza nell’acconsentire ai rimpatri è strettamente legata al timore di non essere in grado di riuscire a condurre processi efficaci, in primo luogo per la sostanziale mancanza di prove e/o di testimoni – entrambi più facilmente reperibili sul territorio in cui si sono compiute le azioni –; inoltre la questione dei rimpatri risulta essere più spinosa per le donne rispetto che per gli uomini, soprattutto per quanto riguarda i processi e le condanne. Se infatti questi ultimi hanno avuto un ruolo estremamente attivo, identificandosi come agenti dell’ISIS, lo stesso non può dirsi per le muhajirat, le quali hanno spesso lavorato nell’ombra, svolgendo compiti prevalentemente domestici e legati alla cura dei figli [16], cosa che può tradursi in pene più brevi, nonostante il ruolo estremamente rilevante – ma difficile da provare – svolto dalle donne.
Le opzioni percorribili che dunque sembrano profilarsi sono due: far processare i soggetti nei tribunali iracheni, cosa che consentirebbe di avere accesso a testimoni e prove; ma al contempo gli aspetti positivi si scontrano sia con la sommarietà con cui vengono svolti i processi – per alcuni sono stati impiegati pochi minuti – che con l’uso diffuso di torture e della pena di morte per tutti coloro che si uniscono a gruppi terroristici. Oppure si è pensato all’istituzione di un Tribunale Internazionale ma, come riportato da Dworkin, con ogni probabilità sarebbe funzionale esclusivamente a perseguire solo i membri dell’ISIS più alti in grado, così come è accaduto con i precedenti Tribunali istituiti, i quali si sono concentrati sulle figure rilevanti piuttosto che sui singoli esecutori.
Difficile dire se e quando l’Unione Europea, anche alla luce delle nuove dinamiche che stanno sorgendo in Medio Oriente, giungerà ad una risoluzione efficace per i suoi cittadini ancora detenuti nei campi profughi, quel che è certo è che finora l’esistenza di questi individui – uomini, donne o bambini che siano – è stata considerata una criticità dalla quale affrancarsi piuttosto che una responsabilità statale. Ma ciò non toglie che i campi come Al-Hol rappresentano polveriere cui è necessario prestare attenzione, e l’indifferenza o la dilazione continua non possono più essere le risposte.
Segui i commenti: |