“Noi sappiamo che il chiodo della Federazione europea potrà entrare nel durissimo legno delle sovranità nazionali un po’ alla volta, con una lunga serie di successivi colpi (…) i poteri sovrani trasferiti allo stato federale potranno essere pochi; il potere federale potrà essere di difettosa composizione. Tutto ciò potrà correggersi in un secondo tempo. Ma dovrà esserci il patto iniziale tra stati e il trasferimento allo stato federale di qualche frazione di sovranità. I federalisti che guardano realisticamente le cose si trovano perciò in una paradossale situazione. Essi scorgono nello stato nazionale con le possenti cristallizzazioni d’interessi nazionalisti di ogni genere il principale ostacolo, e scorgono tuttavia nello stato nazionale depositario della sovranità lo strumento che può solo realizzare la federazione in accordo con altri stati”.
(da “Il cammino e gli ostacoli” – Discorso tenuto da Altiero Spinelli al III Congresso del Movimento Federalista Europeo – Aprile 1949 – in Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa– La Nuova Italia, Firenze, 1950)
In queste poche righe di un discorso di Spinelli del 1949 ci sono tre concetti – di natura strategica – che hanno orientato per lungo tempo la sua azione, come pure la riflessione e l’azione del Movimento.
Il primo concetto è che “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme”, per dirla con la Dichiarazione Schumann, che arriverà, forse non del tutto casualmente, un anno dopo quel discorso. Un concetto che sarà poi costantemente presente nella teoria e nella prassi politica di Mario Albertini: "In ogni caso, anche la fase costituzionale dell’unificazione europea, come quella pre-costituzionale già in corso — e che si può considerare conclusa e oltrepassata con il riconoscimento del diritto di voto europeo — avrà un carattere graduale (…) la costruzione di uno Stato europeo non si può affermare con un solo atto costituzionale e costituente. Questo Stato è da costruire”
Il secondo concetto è che, di conseguenza, i poteri federali possono essere inizialmente pochi e difettosi, l’importante è che ci sia “qualche trasferimento di sovranità” e che s’inneschi un processo, attraverso “un patto iniziale tra stati”. È quanto è già avvenuto con la nascita dell’unione doganale, con l’elezione diretta del Parlamento europeo, con il mercato e la moneta unica, fino alla costituzionalizzazione dei valori e delle attuali istituzioni europee nate con il Trattato di Lisbona. Passi importanti, espressione di un potere federale difettoso (intuizione profonda) perché la sovranità in un assetto federale non è monolitica (come nello stato-nazione), bensì si modella e si modifica, nel tempo, sulla base delle dinamiche politiche tra i poteri degli stati-membri e quelli del governo centrale, anche come riflesso del quadro di potere mondiale. Come l’esperienza americana insegna, il bilancio e la difesa federale negli USA furono il risultato di un processo centenario, che vide istituzioni inizialmente molto difettose.
Il terzo concetto è quello che riguarda specificatamente il ruolo dello stato-nazionale, in quanto depositario della sovranità, visto come possente ostacolo, ma contemporaneamente, come strumento, per la realizzazione della federazione. Un concetto di non facile interpretazione e che va preso in esame nelle alterne vicende del processo di unificazione, che vedono, appunto, momenti di avanzamento e di arresto.
Occorre innanzitutto osservare che questo concetto dello “strumento/ostacolo” fu formulato nel 1949, quando non esisteva alcuna istituzione europea. Era allora chiaro che, in assenza di un’azione popolare rivoluzionaria (quale fu pure immaginata dagli uomini di Ventotene), i governi nazionali potessero essere visti anche come un necessario strumento per realizzare la federazione, oltre che un possente ostacolo. C’era una logica in tutto ciò, che s’intravede nelle stesse parole di Spinelli, laddove parla dello stato nazionale come “depositario della sovranità”. Eravamo nel 1949: pur distrutto dalla guerra, esso era riconosciuto come il pieno titolare della sovranità politica. E dunque toccava ad esso agire, essere ‘strumento’ di un processo da avviare, per emergere subito dopo come l’ostacolo: dal caso CED fino all’affossamento del Trattato elaborato dallo stesso Spinelli (che gli fece dire “mai più Convenzioni intergovernative”) e oltre, Maastricht e Lisbona comprese.
Oggi la situazione è radicalmente diversa. Esistono istituzioni europee consolidate, che esprimono già un ‘potere federale’ nei campi in cui l’Unione ha competenza e i suoi organi (Parlamento, Commissione) possono decidere a maggioranza, semplice o qualificata. Possiamo così dire che sono tutti “strumenti” del processo europeo (compresa la Corte Europea di Giustizia), sia pure ancora di difettosa composizione per dirla con Spinelli. È il caso di un Parlamento che non ha ancora un reale potere d’iniziativa legislativa o di una Commissione che è ancora composta sulla base del principio “uno Stato, un Commissario”, malgrado l’art. 17 comma 5 del TdL. E dobbiamo aggiungere che assistiamo ad una dinamica reale di potere tra Istituzioni europee a vocazione federale (Parlamento e Commissione) e governi nazionali (o Consiglio) il cui reale presidio di sovranità si manifesta essenzialmente nel governo della spesa pubblica e nelle questioni della sicurezza. Non è un caso che proprio su questi temi assistiamo al più forte arroccamento dei governi nazionali da vent’anni a questa parte. Essi dicono di volere giungere all’Unione politica, ma non propongono. Leader nazionali fanno bei discorsi, ma poi non procedono. È cattiva volontà oppure siamo in presenza di una situazione di potere che rende difficile per i governi essere lo strumento di un tempo? Ci possono essere diverse spiegazioni.
La prima è che non si può più avanzare à l’abri des peuples, come ha riconosciuto lo stesso Macron nel discorso alla Sorbona. Potevano farlo les pères fondateurs perchè «Ils jouissaient peut-être d’une confiance dont les gouvernants n’ont plus l’exclusive, c’est ainsi. Ils vivaient dans d’autres temps - appunto gli anni del dopoguerra -». Quella fase è finita con la sconfitta sul trattato-costituzionale del 2005 (fracassée sur le doute démocratique européen). È in quella situazione che si determina, sul tema della spesa pubblica (sviluppo e welfare), un fatto nuovo: una “mescolanza” tra politica europea e politica interna che prima non c’era. Sorge così un contrasto tra riforme europee ed interne, sul terreno su cui si riproduce gran parte del consenso politico nazionale. È qui che nasce la contraddizione tra democrazia nazionale ed europea e ciò pone un problema enorme: il consenso politico interno è ritenuto dai governi necessario per avanzare sul fronte europeo. Lo riconosce ancora Macron «Car nous ne serions pas écoutés une seule seconde si nos ambitions européennes n’étaient là que pour régler nos problèmes internes». I padri fondatori non avevano questo problema. Ora invece il problema c’è: che si tratti di sviluppo o d’immigrazione (e sicurezza) il legame tra fronte interno ed europeo è indispensabile. Se non si tiene un fronte, non si tiene l’altro. Dunque per essere strumento di avanzamento i governi dovrebbero essere in grado di affrontare simultaneamente la questione delle riforme interne e della riforma europea. Una capacità che non sono in grado di esprimere, in quanto governi nazionali che devono rispondere alle rispettive constituencies. E’ questo che paralizza la loro azione e che li rende un ostacolo, nel concreto.
La seconda ragione sta nel fatto che sviluppo economico, immigrazione e sicurezza sono questioni entrate nel corpo profondo della società e dell’opinione pubblica europea. E che si esprimono con visioni, modelli sociali e politici diversi, trasversali agli assetti dei poteri nazionali, quindi non più dominabili dai governi in quanto tali. Questioni che possono ricomporsi solo sul terreno europeo, con la nascita e l’affermazione di forze politiche europee che faranno della lotta per il potere europeo (per quello che già esiste e che non è poco) la base per il loro rafforzamento, cosa necessaria per poter dare le risposte che i cittadini europei richiedono. Sta nascendo la lotta politica europea, gli attori sono le forze politiche che si vanno costituendo sul terreno europeo, non più i governi nazionali. Per questo essi sono afoni.
C’è infine una terza ragione. Sviluppo, sicurezza e immigrazione si pongono sul terreno di Istituzioni europee esistenti (Parlamento e Commissione), che hanno già acquisito il potere minimo sufficiente per poterle dibattere e decidere, anche se in parte privo degli strumenti per agire efficacemente. Basti pensare al piano Juncker (giunto alle soglie delle “risorse proprie”), ai primi fondi per la difesa europea e per l’Africa, alle stesse questioni dello stato di diritto (versus Polonia e Ungheria) e a molti altri fatti che mostrano una chiara volontà di crescente protagonismo delle Istituzioni europee. Sono poteri reali, in ascesa e in costante dialettica con i poteri nazionali, da tempo sulla difensiva, chiusi nel loro tentativo di dominare il processo europeo nell’unico modo che possono, tramite accordi intergovernativi. Di fatto, ostacolandone lo sviluppo.
Il potere europeo non è/sarà, dunque, un monolite, ma un qualcosa che nasce dallo scontro tra le forze politiche europee. È puntando sulla nascita e sul rafforzamento di queste forze, nuovi strumenti in lotta per essere maggioranza in Parlamento e per controllare la Commissione, che potrà nascere un potere federale compiuto.
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