Questo impegno a ricordare “cosa, come e perché è successo” diventa sempre più difficile: Liliana Segre, sopravvissuta ai Lager, teme infatti che tra qualche anno la Shoah “non ci sarà più: sarà prima ridotta ad un capitolo, poi una riga nei libri di storia e poi non ci sarà più".
Il rischio è in agguato non solo per la scomparsa, graduale ma erosiva, dei testimoni diretti (i superstiti, ma non solo), ma anche per il negazionismo che sfrutta un fattore semplicissimo: l’impossibilità di confermare o smentire affermazioni o fatti in prima persona.
Un negazionismo a cui si affiancano pure il “giustificazionismo”, “riduzionismo”, e anche oltre (Esemplari affermazioni come “Hitler ha fatto bene a sterminare gli ebrei” o “Si doveva reagire alla ferocia fascista”): una contraddizione che si tende a non considerare o peggio non si vuole ammettere.
Intanto la Germania, responsabile della Shoah quando era un regime nazista, celebra ogni anno dal 1996, una commemorazione per tutte le vittime del nazismo, dedicando “l’edizione” del 2023 alle vittime LGBT.
Questa specificità pare contrapporsi ad un altro limite che potrebbe essere lo “stereotipo della Shoah” (il termine “Olocausto” è poco appropriato o preciso), inteso come sterminio degli ebrei (che non sono state le uniche vittime) ricordato ogni anno, ma che rischia di “far venire a noia”, alimentando l’indifferenza, a vantaggio dei negazionismi. Questa insofferenza è comprensibile, ma non è da assecondare.
Si aggiunge quindi un’altra difficoltà sul “come” mantenere e trasmettere il messaggio ostacolato dal carattere politico, o meglio l’eccessiva politicizzazione e la strumentalizzazione a danno dell’avversario.
Le due tragedie sono avvenute prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale: non è però scontato che queste atrocità avvengano durante un conflitto armato [2].
A proposito di conflitti globali, negli ultimi anni si parla di “terza guerra mondiale”: prima “a pezzi” come detto da Papa Francesco - guardando ai vari conflitti nel mondo - ora in riferimento alla guerra in Ucraina, quasi a voler dare in fretta un’etichetta a eventi o fenomeni ancora in corso.
Il conflitto in corso di per sé sembra sconnesso alle due tragedie descritte sopra: non è per la presenza di nazisti in Ucraina, per il paragone tra Putin e Hitler [3] o per la proposta di nuovo “appeasement” [4] a favore della Russia (in barba a molti principi di diritto internazionale). Inoltre è molto improbabile che la Shoah si ripeta, almeno con gli stessi metodi adotattati dal regime nazista.
Tuttavia fa riflettere sulla convivenza nel futuro: la coesistenza [5] tra gruppi diversi (popoli e non solo) esiste volente e nolente, è questo aspetto - problematico ma anche con un potenziale - tocca anche l’Unione Europea alle prese con questo aspetto problematico e potenziale allo stesso tempo: si pensi al difficile allargamento nei Balcani e (ancora) a est, zone che hanno visto conflitti e altre atrocità dopo la “Nuova Era” esaltata da George Bush Sr. subito dopo la fine della Guerra Fredda.
Queste zone sono caratterizzate da secoli di relazioni quasi sempre complicate, tra conflitti, sottomissioni e persecuzioni ma si trattano comunque di convivenze, volenti o nolenti.
Mantenere la memoria storica è legittimo, specialmente quando si tratta di eventi negativi, tuttavia pare che ci sia un uso “esclusivo” che aiuta certo a rafforzare la propria identità, ma potrebbe alimentare i rapporti ostili con gli altri gruppi. E questo è un problema.
La memoria si collega con la responsabilità storica che deve essere gestita con maturità e comprensione reciproca, invece che “puntando il dito contro” o fare del vittimismo: si pensi alla lunga e complessa storia degli Ebrei, che nonostante la Shoah (e prima la Diaspora), con la nascita dello Stato d’Israele, non è stato fatto niente per garantire la convivenza con le popolazioni in Palestina (gli arabi, ma non solo) e nel Medio Oriente in generale.
E qui sarebbe bene guardare anche sul piano delle singole persone: guardando per esempio alla guerra in Ucraina - il cui responsabile è Putin - si deve condannare il Presidente Russo e le sue cerchie, non odiare i russi, perché equivarrebbe a negare i giovani soldati russi che si sono arresi, le proteste in Russia finite con gli arresti di bambini e di una signora reduce di Stalingrado, i leader di opposizione russi, le proteste di russi e bielorussi in Olanda con tanto di bandiera simbolo di protesta. Episodi - tra buona fede e propaganda - messi in evidenza all’inizio del conflitto, messi poi in secondo piano, ma che non vanno dati per scontato, né dimenticati.
Senza contare che questa responsabilità toccherà volente o nolente anche le prossime generazioni, che paradossalmente non hanno colpa me spetterà la responsabilità del rimedio a conflitti che non avrebbero senso di inasprirsi di più, e forse anche di esistere.
Non si deve dimenticare che il motto dell’Unione Europea è “Uniti nella diversità”: non sono parole messe così perché bello, ma è (e deve essere) un intento politico, anche militante in senso albertiniano, da realizzare nei limiti del possibile, come individui, gruppi (politici, religiosi, linguistici ecc.) e istituzioni, create apposta per risolvere i conflitti evitando tensioni e quindi la deriva violenta.
Questa presa di coscienza e un “mea culpa” non basteranno, ma sarebbe (e deve essere) già qualcosa.
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