Migrazioni, diaspore, attori globali: per una nuova statualità del XXI secolo

, di Giampiero Bordino

Migrazioni, diaspore, attori globali: per una nuova statualità del XXI secolo

I grandi processi migratori globali, derivanti per un verso da ragioni essenzialmente economiche e per altro verso e in misura crescente da vere e proprie “catastrofi” (guerre, conflitti civili, disastri ambientali ecc.), configurano una realtà nuova ed inedita, almeno per la sua rapidità e le sue dimensioni. L’Europa, con i grandi flussi migratori provenienti dall’area mediterranea (Medio Oriente, Nord Africa e Africa sub-sahariana ecc.), è negli ultimi mesi ed anni uno dei principali punti critici di questa nuova realtà. Centinaia di migliaia e in prospettiva milioni di persone, principalmente profughi provenienti da paesi in guerra, da “Stati falliti” e da regimi politici dispotici, premono ai confini dell’Europa ed entrano in vari modi e misure a far parte delle diverse società nazionali del continente. Nuove diaspore, o nuovi segmenti di diaspore già presenti sul territorio europeo, determinano quindi, già ora e ancora di più in futuro, tipi di società sempre più multiculturali, intrecciate ad altre di altri continenti, reticolari, ibridate. Le grandi migrazioni degli ultimi anni, e le presenze diasporiche sempre più evidenti che ne conseguono, hanno aperto in Europa, un’Europa la cui Unione di Stati è politicamente incompiuta e quindi impotente, una fase sociale e politica di sempre più difficile gestione, intrecciata e aggravata dalla crisi economica nata nel 2007-2008, affrontata con politiche del tutto errate e quindi non ancora risolta. Migrazioni e presenze diasporiche, e nell’ultima fase anche l’emergere o riemergere di attentati terroristici di prevalente ispirazione islamista, hanno alimentato in Europa diffidenze, paure, reazioni neo-nazionaliste e xenofobe, soprattutto nei settori della società più deboli, più colpiti dagli effetti negativi della globalizzazione e delle politiche europee di austerità, meno culturalmente attrezzati. In qualche modo i settori anche meno in grado di cogliere la più seducente opportunità positiva della globalizzazione, che è la possibilità di essere “di casa nel mondo”, fisicamente e virtualmente, e condannati invece a subire, o almeno percepire di dover subire, “il mondo in casa”, con tutti i problemi e le inquietudini che tutto ciò comporta.

Più in generale, la presenza di diaspore, cioè di popolazioni “disperse” provenienti da altri paesi e continenti e nello stesso tempo in qualche misura ancora collegate ai luoghi d’origine, caratterizza sempre di più non solo l’Europa ma tutti i continenti del mondo. Non a caso, un autorevole antropologo indo-americano, Arjun Appadurai (Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, 1996), già negli Anni Novanta aveva definito gli Stati Uniti non più “melting pot”, secondo una classica definizione, ma “nodo di una rete postnazionale di diaspore”. Presumibilmente, a causa delle migrazioni e nello stesso tempo delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni che consentono di “andare e venire” fra nuovi paesi di insediamento e luoghi di origine, un numero crescente di società, in Europa e fuori d’Europa, tenderanno a diventare anch’esse “nodi di reti di diaspore”, in un orizzonte sempre più globale e post-nazionale. I dati empirici, e per fare soltanto qualche esempio, testimoniano fin d’ora in modo evidente questa nuova configurazione del mondo. L’Europa, da cui sono emigrate nel corso del XIX secolo almeno 70 milioni di persone, conta oggi nel mondo una diaspora (discendenti di europei) stimata in circa 480 milioni di individui. L’Italia, per fare un caso specifico europeo, con 60 milioni di abitanti, ha oggi una diaspora stimata in 80 milioni di persone. La diaspora cinese si presume di circa 40 milioni di persone. Quella indiana di 20-30 milioni. Un piccolo paese come il Libano, con 4 milioni di abitanti, ha fuori dai suoi confini, nei vari continenti, 14 milioni di libanesi e loro discendenti. Tutte le diaspore, quelle menzionate a titolo di esempio e le molte altre che percorrono il mondo, hanno assunto nel corso del tempo una soggettività ed anche un “peso” nei rapporti sociali e internazionali sempre più visibili e rilevanti. Un segnale della visibilità e della soggettività è offerto dalla presenza delle diaspore sulle reti virtuali. Una ricerca internazionale iniziata nel 2003 (E-Diaspora Atlas, pubblicato dalla Maison des Sciences de L’Homme di Parigi nel 2012) ha censito la presenza on line di 28 diaspore, con i loro siti, i loro forum, i loro “social media”. E per quanto riguarda in particolare il ruolo e il “peso” (attuale e ancor più potenziale) , è significativo che nel maggio 2011 il Segretario di Stato USA Hillary Clinton abbia fatto nascere IdEA (International Diaspora Engagement Alliance), un’organizzazione no-profit e no-partisan, in forma di partnership pubblico-privato fra Dipartimento di Stato USA, U.S. Agency for International Development (USAID) e Calvert Foundation, con un programma di promozione del ruolo, dell’impegno e della connessione fra tutte le diaspore. Un’iniziativa come è evidente in funzione anzitutto degli interessi e della politica estera degli Stati Uniti, ma non per questo meno significativa del ruolo e del peso crescente delle diaspore tanto nella realtà quanto nella percezione collettiva.

Ma che cosa sono in sostanza le diaspore? Che cosa le connota e ne determina il ruolo e l’identità? La condizione diasporica è stata efficacemente definita come una condizione di tensione fra il “da dove vieni” e il “dove sei ora”. Chi vive in diaspora ha un’identità “con il trattino” (è indo-americano, turco-tedesco, italo-americano, franco-algerino ecc.), ha più appartenenze, pratica più lingue e più culture, ha spesso più cittadinanze. Il problema dell’identità è in questo quadro centrale nella condizione diasporica. L’identità è con ogni evidenza non data, ma costruita, relazionale (costruita nel rapporto con gli altri), processuale, plurale in quanto si praticano e si percepiscono nello stesso tempo più dimensioni identitarie. Nelle parole dello scrittore italiano Claudio Magris, “L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali ne contiene un’altra e si inserisce a sua volta in un’altra più grande”. Come tutti, ma in modo più specifico e sensibile, le persone in diaspora vivono anche il “paradosso dell’identità”: l’dentità offre coesione e senso di appartenenza, ma al contempo divide fra “noi” e “gli altri”, è sempre in un difficile equilibrio fra queste due potenzialità. Proprio questa complessa condizione, brevemente delineata, spiega quale sia e soprattutto possa essere il ruolo culturale e sociale delle diaspore. La diaspora, come è stato detto, apre spazi di negoziazione fra le culture. “E’ un’alternativa alla metafisica della razza, della nazione e della cultura territoriale delimitata...è un concetto che disturba la meccanica storica e culturale dell’appartenenza” (Paul Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, London, Verso, 1993). Da questo punto di vista, la soggettività delle diaspore, se emerge e matura, può contribuire al dialogo delle civiltà, alla convivenza nelle società e negli Stati, e fra le diverse società e i diversi Stati. La diaspora, in breve, è funzionale alla logica dei ponti, e non a quella dei muri, che è invece tipica delle società e degli Stati dominati dalla paura e che solitamente nella storia prelude ai conflitti e alle guerre.

In un contesto e in una prospettiva come quelle fin qui delineate, appare evidente la necessità di ripensare il problema della statualità, della democrazia, dello stesso progetto federale “incarnatosi” per la prima volta nella Costituzione americana del 1787. In questo inizio del XXI secolo, mentre sembra essersi avviata una sorta di guerra civile permanente globale gestita da attori privati (il terrorismo transnazionale, la criminalità organizzata ecc.) e pubblici (gli Stati e le loro guerre più o meno “preventive”), abbiamo di fronte una sfida esistenziale decisiva: come far convivere, pacificamente e nella convenienza reciproca, secondo i meccanismi della democrazia e del consenso, gruppi umani sempre più diversi e ibridati in uno stesso territorio, in uno spazio condiviso e sotto un’autorità politica comune? Il costituzionalismo del XXI secolo, più in specifico, ha di fronte a sé una sfida altrettanto decisiva: come garantire, con quali architetture e procedure, unità politica nonostante le differenze e, inversamente, come preservare le differenze nonostante l’unità politica? E il pensiero federalista, in particolare, come può assumere nei suoi orizzonti e nelle sue riflessioni l’inedita “segmentazione”, di cui le diaspore transnazionali sono un caso esemplare ma non unico, che in qualche modo disarticola e frantuma le società e gli Stati? Un “foedus” (patto) fra Stati diversi disposti a condividere la sovranità, in un’architettura multilivello dal locale al globale, è storicamente alla base del progetto federalista. Ma come realizzarlo fra Stati segmentati, disarticolati, ibridati? Il “foedus” (patto) deve in qualche misura articolarsi a sua volta in “foedera” (patti), assumere dimensioni e aspetti culturali oltre che istituzionali, tradursi in un complesso processo di costituzionalizzazione della pluralità di identità, di appartenenze e di cittadinanze che sono destinate a convivere nello stesso luogo e sotto un’autorità comune. Si tratta di fare fronte a richieste di riconoscimento di diverse identità collettive, in una logica condivisa di reciprocità, di garantire i beni pubblici fondamentali (pace, sicurezza, lavoro, conoscenza, ecc.) a tutti i segmenti diversi e plurali che compongono la società e di garantire nel contempo l’unità della “polis”, sotto una comune statualità. Bisogna avere ben chiaro che l’alternativa a tutto ciò è il conflitto, la “pulizia etnica”, la guerra nelle civiltà e fra le civiltà. In sostanza, e per evidenziare anche la patetica ottusità dei sostenitori della logica dei muri e della difesa identitaria contro la convivenza delle diversità, il trionfo delle strategie e dei (dis)valori del terrorismo transnazionale, che si propone appunto la costruzione di società chiuse, ferocemente identitarie, fondate su una contrapposizione metafisica fra “noi” e “loro”.

Questa sfida epocale che le società del XXI secolo hanno di fronte avviene, almeno e anzitutto in Europa, nel contesto del tramonto delle grandi ideologie novecentesche che davano un senso e un orizzonte, per quanto inadeguati rispetto ai tempi nuovi, alla storia e alla politica. In una situazione di crisi e tramonto delle grandi organizzazioni politiche (partiti politici di massa, organizzazioni intermediarie fra individui e collettività ecc.) che in qualche misura incarnavano questi grandi progetti e li traducevano in politiche e programmi. In una condizione di crisi e di deperimento dei sistemi di sicurezza sociale (anch’essi figli del Novecento) che alimentavano il sentimento di appartenenza e di riconoscimento reciproco e in sostanza fondavano la legittimazione della statualità comune. Infine in una situazione di retrocessione dei processi di integrazione sovranazionale, di ritorno dei nazionalismi xenofobi, di conseguenza anche di crescente predominio dei poteri economici globali rispetto alle democrazie nazionali che per loro stessa natura (dato che sono un livello di governo inadeguato rispetto alla globalità dei problemi e degli attori in campo) sono impotenti a controllarli e governarli.

Per il pensiero e i movimenti di ispirazione federalista, si apre un grande cantiere, teorico e politico-progettuale, che implica però disponibilità all’innovazione e al dialogo con altre esperienze e culture. Come pensare, progettare, dare operatività politica ad un federalismo non solo degli Stati, ma delle culture e delle civiltà? Come dare al discorso federalista una dimensione non solo istituzionale, ma culturale, antropologica, “narrativa”? Come costruire un modello di statualità multilivello e insieme multiculturale in grado di corrispondere ai nuovi problemi della convivenza? E infine, per riprendere il tema delle diaspore, come valorizzare ai fini fin qui delineati il grande patrimonio di esperienze e di culture di questi nuovi attori transnazionali e globali? Un insieme di domande difficili e impegnative a cui occorre tuttavia tentare al più presto di rispondere se si vuole contribuire a garantire la pace e a ridare una prospettiva credibile alla democrazia politica. Come spesso accade nella storia, il tempo disponibile per dare queste risposte rischia alla fine, e nell’inconsapevolezza degli attori in gioco, di diventare troppo poco.

Articolo pubblicato dall’autore su «The Federalist Debate».

Fonte immagine: Wikimedia.

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