Una visione federalista sul fenomeno migratorio

Migrazioni: testimoni della stessa storia

, di Meeting Point Federalista

Migrazioni: testimoni della stessa storia

La tragedia umana delle migrazioni continua a consumarsi mentre gli Stati conservano uno status quo sempre più insostenibile che insiste sulle stesse fratture sociali e umane e, puntualmente, tradisce i principi fondanti a cui, sulla carta, saremmo chiamati a rispondere.

La tragedia umana delle migrazioni continua a consumarsi mentre gli Stati conservano uno status quo sempre più insostenibile che insiste sulle stesse fratture sociali e umane e, puntualmente, tradisce i principi fondanti a cui, sulla carta, saremmo chiamati a rispondere.

Le migrazioni sono un fenomeno strutturale della storia dell’umanità e della globalizzazione. Eppure continuiamo a testimoniare e a scrivere, ogni anno, sempre la stessa angosciante storia. Il prologo di questa triste narrazione è sotto gli occhi di tutti: una risposta puramente nazionale e intergovernativa ad un fenomeno transnazionale.

Assistiamo all’esternalizzazione dei costi umani appaltando a terzi, tra cui spicca l’autoritaria Turchia di Erdogan e le bande armate libiche, il compito di bloccare gli arrivi con conseguenze drammatiche. Il Mediterraneo rimane il confine più mortale al mondo, nonostante i dati tragicamente incompleti. Il regolamento di Dublino, anch’esso squisitamente intergovernativo, è ormai vetusto e cristallizzato (“è obbligatorio fare domanda nel primo paese di arrivo”), dopo un tentativo lodevole del Parlamento europeo che, nel 2017, aveva approvato a maggioranza un testo di riforma estremamente avanzato mai discusso dal Consiglio Europeo (che, a dirla tutta, non approvò nemmeno un testo compromissorio presentato dalla presidenza bulgara).

Possiamo solo augurarci che il Parlamento europeo in questi giorni torni a lavorare e a migliorare la nuova proposta della Commissione.

Intanto, migliaia di persone sono bloccate sulla rotta balcanica, nota per le violenze perpetrate dalla polizia croata in quello che viene tristemente chiamato “the game” – il gioco, senza regole e spesso senza testimoni, per arrivare in Europa. Più recenti, le immagini del campo di Lipa, in Bosnia-Erzegovina, che è ormai solo un cumulo di ghiaccio e neve, dopo un incendio che lo ha distrutto nel dicembre del 2020. Neanche una delegazione di parlamentari europei è riuscita facilmente a raggiungere il luogo per denunciare quanto sta accadendo, bloccata in un primo momento dalla polizia croata al confine.

Altro capitolo è quello dell’agenzia di frontiera, Frontex, che più volte è stata accusata di respingimenti e di violazione dei diritti umani e che rimane un ente tecnico a cui manca una reale guida politica europea. Non esiste alcun sistema di garanzia democratico per monitorare il suo operato. Questo il quadro di un libro già scritto e già letto.

Tornando all’ultimo “Asylum e Migration Pact” della Commissione Europea, pubblicato a settembre 2020, leggiamo dell’ennesimo esempio di quello che l’Unione Europea può e non può fare allo stato attuale. Un documento che si proclama ambizioso ma che è solo un quadro di facilitazione dei rimpatri, con incoraggiamento agli Stati che si occupano di questo “onere”. Questa è la solidarietà a cui fa riferimento il documento, supportare chi ricolloca e chi rimanda indietro. Qualcuno ha affermato si trattasse di una riforma del regolamento di Dublino. È falso, sia perché nella sostanza non è vero, sia perché una reale riforma richiede la volontà politica degli Stati, gelosi del loro “controllo” su un tema tanto strumentalizzabile. Sui salvataggi si richiede più efficacia, ma senza fornire strumenti.

Intanto, ad ottobre 2020, Frontex – l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – è stata di nuovo accusata di aver effettuato respingimenti al confine greco, una grave violazione dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Ylva Johnson, Commissaria della DG Home (Migration and Home Affairs), ha richiesto un incontro del “Management board” di Frontex che ha avuto luogo il 10 novembre 2020, seguito da una seconda riunione del 25 e 26 novembre. Durante questi incontri è stato incaricato un sottogruppo del direttivo di continuare le investigazioni. Il 27 novembre le conclusioni del secondo incontro riportano un generico “The Executive Director reported on the questions received from several members of the Board and provided some preliminary replies”. E poi un passaggio quanto mai ambiguo e, al contempo, esplicativo: “ it (the dedicated working group) shall support the Board in its conduction of inquiries in relation to the allegations of so-called alleged pushbacks in the Eastern Mediterranean in 2020 but also contribute to the interpretation of some provisions of Union regulations related to operational activities at sea and to discuss possible operational responses to situations related to “hybrid threats” to Member States’ national security at the external borders which may arise in the context of maritime operations of the Agency.”. Il sottogruppo che indaga sui presunti respingimenti è incaricato di interpretare le risposte operative in situazioni di “minaccia ibrida” agli Stati membri.

Sembra che, ancora una volta, le presunte violazioni vengano in qualche modo offuscate dal discorso securitario, per cui l’azione errata potrebbe, a posteriori, essere resa legittima da possibili minacce alla sicurezza. Rimarranno, temiamo, nel deserto del “non detto” le conseguenze di questa permanente zona grigia (ormai nera) intergovernativa e tecnica. Una pericolosa deriva, questa, che mostra chiaramente cosa succede quando si appaltano delle politiche ad un organo tecnico. Il Management Board del 20-21 gennaio dichiara nelle sue conclusioni che cinque dei tredici casi esaminati richiedono maggiori investigazioni. Sugli altri episodi non vengono apparentemente riscontrate violazioni. Il consiglio ha inoltre espresso “preoccupazione” per i ritardi dell’Agenzia nel comunicare le informazioni su altri tre casi al gruppo di lavoro interno che si occupa degli aspetti legali delle operazioni e della tutela dei diritti. Alla fine delle conclusioni, viene riportato un elenco di richieste che dovranno essere soddisfatte da Frontex nei prossimi mesi. Qui il testo integrale.

Mentre continuano le investigazioni, sono molti gli episodi documentati dai media e dalle ONG di respingimenti illegali: non solo nell’Egeo, ma anche nel Mediterraneo e lungo la rotta balcanica, soprattutto al confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Non si tratta dunque di casi isolati, ma di una drammatica prassi che il più delle volte avviene silenziosamente pur nella consapevolezza generale.

Intanto anche l’Ungheria sembra essersi macchiata di 4400 respingimenti da dicembre. L’ONG “Hungarian Helsinki Committee” ha richiesto a Frontex di sospendere le sue operazioni sul confine poiché partecipando alle attività di sorveglianza, l’agenzia sta diventando complice di un governo che ignora le leggi internazionali.

Anche l’Italia non è stata da meno. Secondo l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio, è stato il Ministero dell’Interno a commettere un elenco interminabile di violazioni delle nostre Carte fondamentali. La vittima è un ragazzo pakistano di ventotto anni che, dopo aver percorso la cosiddetta “rotta balcanica” ed essere entrato in territorio italiano, è stato fermato dalla polizia a Trieste con un gruppo di connazionali. Ammanettati e caricati su un furgone, sono stati riportati nei pressi della frontiera con la Slovenia, nonostante avessero espresso la volontà di chiedere asilo. Lì è cominciato un altro inferno, di violenze e torture da parte delle varie forze dell’ordine. Qui la storia completa, una delle poche venute alla luce in una quotidianità che parla di migliaia di casi come questo.

La drammatica situazione di Lipa sembra anch’essa immutabile. Mentre diverse organizzazioni della società civile si stanno mobilitando per intervenire autonomamente, l’Unione Europea ha sottolineato di aver mandato finanziamenti alla Bosnia-Erzegovina come contributo alla gestione del “fenomeno”, a cui è sembrato seguire un assordante silenzio. In questa attesa di Godot un migliaio di persone congelano al freddo, sopravviveranno grazie al pasto unico giornaliero consegnato dalla Croce Rossa e dalle organizzazioni sul posto.

Ma allora cosa dovremmo fare? Semplificando, quattro cose:

  • Per quanto riguarda la dimensione interna, “a casa nostra” dovremmo riformare il regolamento di Dublino, riprendendo le soluzioni già presenti nel testo di modifica approvato dal Parlamento Europeo nel 2017.
  • Al confine, è urgente ormai da anni garantire un sistema di salvataggio sostanziale e non “a parole” fermando l’ormai consolidata criminalizzazione delle NGO che si occupano dei salvataggi nel vuoto istituzionale. C’era una volta Mare Nostrum ma, da anni, non c’è più.
  • Per poter garantire una migrazione sicura servono corridoi umanitari per i contesti di emergenza, e strutturali canali legali di accesso, con la garanzia che non diventino solamente dei confini più lontani impossibili da varcare.
  • Guardando all’esterno dei nostri confini, sarebbe opportuno incrementare i rapporti di cooperazione e reciproca integrazione dell’Ue con gli Stati di provenienza – supportando integrazioni regionali negli altri continenti – mentre, tramite una politica estera unica, affermare un ruolo di attore geopolitico promotore di pace e del multilateralismo nel mondo, garante dei diritti umani e sostenitore del Green Deal.
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